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Inaugura oggi la XIX edizione della Mostra Mercato Nazionale del Libro Antico e della Stampa Antica, al Palazzo Vitelli a Sant’Egidio di Città di Castello.

La manifestazione, in programma fino a domenica 1 settembre, non è solo l’occasione per ammirare manoscritti e stampati di pregevole foggia provenienti da tutta la Penisola, ma anche per ricordare la grande tradizione tipografica tifernate come della regione intera. È così che anche noi ci apprestiamo a ricordarne le pietre miliari, in un elenco che non ha la pretesa di essere esaustivo, ma solo uno stimolo per la curiosità del lettore.

Il museo vivente: la Tipografia Grifani-Donati

L’interno della Tipografia Grifani-Donati

A Città di Castello l’attività di stampa fa rima con la Tipografia Grifani-Donati, che nel 1799 si impianta nei locali soprastanti la chiesa di San Paolo a seguito del trasferimento da Assisi di Francesco Donati e di Bartolomeo Carlucci. Fino a quel momento, la produzione era stata di carattere esclusivamente religioso, nonché piuttosto scarsa.
La tipografia si distinse ben presto per le pubblicazioni di pregio, a seguito anche dell’introduzione – nel 1817 – dei caratteri bodoniani; nel 1842, con il torchio di legno, comincia a stampare Le Memorie Ecclesiastiche e Civili di Città di Castello, ventotto fascicoli scritti dal vescovo Giovanni Muzi.
Attualmente, la tipografia è il museo vivente più antico dell’Umbria, nonché l’unico in Europa ancora in attività a usare la calcografia, la litografia e la tipografia, condotte con metodi artigianali. Oltre ai numerosi torchi antichi, la Tipografia Grifani-Donati può vantare ben 536 casse di caratteri in lega, legno e rame, fregi cliché, silografie e galvanotipie, tutti originali.

 

Immutato nel tempo: il Museo dello Stabilimento Tipografico Pliniana

Una delle macchine conservate presso il museo dello Stabilimento Tipografico Pliniana

Poco più a nord, a Grifani-Donati si affianca il Museo dello Stabilimento Tipografico Pliniana di Selci Lama, nel Comune di San Giustino, certamente più recente (nasce infatti nel 1913), ma non per questo meno pregevole. Nel 1922 si aggiudica la stampa della rivista «Il Foro Veneto», alla quale succederanno l’Archivio Segreto Vaticano, l’Istituto Storico per il Medioevo, il Centro Storico Benedettino, il Seminario Vescovile di Padova e la Deputazione di Storia Patria per l’Umbria.
Oggi, tutti i vecchi macchinari sono lì al loro posto, così come l’inchiostro che ancora impregna il rullo della macchina a piombo, dismesso negli anni Novanta di fronte alla modernizzazione. Sono ancora lì le cassettiere ripiene di caratteri di piombo divisi per tipologia e dimensione, le matrici provenienti dall’Inghilterra, i cliché in zinco, i manuali e gli strumenti per la manutenzione.

 

L’editio princeps della Divina Commedia

Il colophon della Divina Commedia stampata a Foligno.

Ma la storia della produzione tipografica in Umbria inizia molto prima, almeno l’11 aprile del 1472, quando viene stampata a Foligno l’editio princeps della Divina Commedia. La prima copia a stampa dell’opera dantesca sembra aver visto la luce nella casa dell’orafo e zecchiere pontificio Emiliano Orfini, fondatore, assieme al trevano Evangelista Angelini, della prima società tipografica della città. Per molto tempo si è ritenuto che socio fondatore fosse anche il maguntino Johannes Numeister, ma da un contratto per la fornitura di carta recentemente rinvenuto sembra che fosse solo un abile copista, sebbene i debiti che contrasse furono la causa della fine dell’attività.
Ma torniamo alla splendida editio princeps della Commedia. Nei rari esemplari completi, usciti originariamente dai tipi folignati in 800 copie di 252 carte – di cui la prima e l’ultima bianche, così come quelle terminali della prima e della seconda Cantica – si nota il nitido disegno in chiaroscuro delle maiuscole romane, senza dubbio opera dell’orafo Orfini. Pregevoli sono anche l’architettura della pagina, divisa in tre colonne di trenta righe – corrispondenti a dieci terzine – con spaziature e interlinee che la rendono compatta e solenne, così come la carta, ordinata appositamente da Numeister ai monaci benedettini che gestivano le cartiere di Pale e Belfiore.
La stessa qualità non risulta però nella composizione, dove appaiono numerosi refusi, errori di lettura, ripetizioni, trasposizioni di versi e lacune, specie nell’ultima parte del testo. Mancano altresì i segni di interpunzione. Tutto ciò è dovuto al fatto che l’opera fu copiata dal cosiddetto Codice Lolliano, conservato nella biblioteca del Seminario di Belluno.

In arte scripturarum librorum: il primato trevano

La società tipografica folignate fu però solo la seconda in Umbria. È infatti a Trevi, piccolo borgo produttore di olio, che si deve il primato mondiale, almeno dal punto di vista dell’assetto societario: il notaio che si occupò della redazione dell’atto, data l’assenza di precedenti, non sapeva come identificare la produzione della costituenda e così scrisse semplicemente «in arte scripturarum librorum», cioè l’arte di scrivere libri. Che la società sia durata soltanto un anno, o che abbia edito solo due incunaboli, è di rilevanza secondaria: ciò che conta è che, accanto ai centri di produzione nazionale come Venezia, Roma e Subiaco che in quegli anni si andavano affermando, pure l’Umbria tentò di far sentire la sua voce e, puntando più sulla qualità che sulla quantità, in qualche modo sembrò riuscirci.

«Il sol, la luna ed ogni sfera or misura Barbanera, per poter altrui predire, tutto quel che ha da venire»: l’almanacco di Barbanera

«Uscito dalla stamperia di Pompeo Campana, con la bisaccia stretta al corpo, il venditore raggiunse con passo rapido Piazza Grande. Brulicante di gente, la Piazza accoglieva quel giorno i banchi della Fiera di Santo Manno. Era il 15 settembre del 1761. Tra mercanzie di ogni genere, broccati e monili, l’ambulante decise di attendere il momento migliore per tirare fuori quel carico per lui tanto prezioso. Una giornata calda e limpida aveva infatti spinto compratori e curiosi, di Foligno e di fuori città, a trascorrere alla fiera le prime ore del mattino. La campana della Cattedrale batté le dieci. All’ultimo rintocco un richiamo attraversò l’aria: Barbanera! Barbanera di Foligno! Santi, fiere, tempo e lune. E per tutti, il Discorso generale del famoso Barbanera, per l’anno 1762».

Un almanacco Barbanera del 1780

È impossibile parlare di Foligno senza citare Barbanera, lunario uscito per la prima volta nel 1761 dai tipi di Pompeo Campana. Barbanera, in quanto astronomo, astrologo e filosofo eremita era rappresentato con compasso, cannocchiale, mappa coeli, libri e sguardo rivolto al cielo, secondo l’iconografia del solitario misuratore del tempo che osserva le stelle per dedurre i ritmi dell’anno e previsioni di pratica utilità, che realmente egli dispensava a chi gli avesse chiesto consiglio.
Nel 1761 decise di affidare le sue considerazioni a un unico foglio da affiggere alla parete, un lunario ricco di informazioni e decorato da pregevoli xilografie che, in poco tempo, trovò ampia diffusione in tutta Italia come strumento per le attività agricole e per la conoscenza delle previsioni del tempo, dei santi, delle feste e degli eventi. Dal 1793, all’unico foglio da parete si aggiunse il libretto, più ricco di contenuti e di maggiore maneggevolezza.
Specchio dei tempi, il Barbanera contava, tra i più affezionati lettori, nientemeno che Gabriele D’Annunzio, che così sorprendentemente scrisse in una lettera del 1934 indirizzata al parroco di Gardone Riviera:

«La gente comune pensa che al mio capezzale io abbia l’Odissea o l’Iliade, o la Bibbia, o Flacco, o Dante, o l’Alcyone di Gabriele D’Annunzio. Il libro del mio capezzale è quello ove s’aduna il “fiore dei Tempi e la saggezza delle Nazioni”: il Barbanera

Nel 2015, l’UNESCO ha iscritto la Collezione di almanacchi Barbanera, conservata a Spello presso la Fondazione omonima, nel Registro della Memoria Mondiale.

 


FONTI:

http://www.unicaumbria.it/musei/museo-della-tipografia-grifani-donati/
http://www.tipografiagrifanidonati.it/
http://www.unicaumbria.it/musei/museo-dello-stabilimento-tipografico-pliniana/
http://www.pliniana.it/it/photogallery/il-museo_15.html
https://www.sistemamuseo.it/ita/3/mostre/647/trevi-umbria-trevi-culla-del-libro/#.XWT1WXtS9PY
www.barbanera.it

Sono arrivati da tutte le parti del mondo come uno stormo di uccellini implumi ma già bravissimi. Sono arrivati per perfezionarsi al Todi Internazional Music Masters – TIMM: Nuova Zelanda, Cina, USA, Canada, Argentina, Corea, Giappone, Italia, sono solo alcuni dei paesi di provenienza.

Decine di studenti di pianoforte molto dotati arrivano a Todi ogni anno dal 3 al 17 agosto per seguire i corsi intensivi di perfezionamento, sotto la guida di maestri di alto livello. Per quindici giorni dalle finestre del palazzo Vignola volano i suoni di venticinque pianoforti a mezza coda o verticali e per almeno quattro ore al giorno, si esercitano le future promesse del pianismo internazionale.

Il Festival

Cinque sono i maestri che seguono i giovani nel perfezionamento dei brani scelti. Sono tutti di sicura fama internazionale a cui gli allievi possono guardare con rispetto e con cui si possono confrontare. A Palazzo Vignola ogni sera c’è un concerto aperto al pubblico dove tutti si esibiscono. Le prime due serate sono dedicate agli insegnanti che suonano mostrando il loro virtuosismo, la capacità interpretativa e sensibilità musicale che giustificano il loro successo internazionale.
Nelle serate successive c’è l’esibizione pubblica dei ragazzi, prima come solisti e poi con l’orchestra. Suonano un meraviglioso pianoforte gran coda Steinway, il sogno di tutti i musicisti.

 

Una Todi cosmopolita

Per quindici giorni Todi diventa una piccola Verbier e per quindici giorni si parla solo inglese. Ormai, qualunque professione si scelga, ci si perfeziona nel mondo, si incontrano altre realtà e si comunica, quasi sempre, in inglese. In quei quindici giorni si viene a creare un amalgama di vita in comune unito solo dalla musica e dalle emozioni, che prescinde dalla nazionalità, dall’età o dal colore della pelle e che unisce maestri, studenti e tecnici.
Il TIMM è un master e come tale vuole produrre risultati; per ottenerli la parola d’ordine è lavorare bene. Lavorano intensamente docenti e discenti. I docenti seguono i cinquanta ragazzi tutto il giorno e tutti i giorni. Il fiore all’occhiello di TIMM è anche l’offerta di venticinque pianoforti di qualità su cui esercitarsi.
L’orchestra, per motivi di spazio, è costituita da soli diciassette elementi, scelti accuratamente tra solisti, componenti di grandi orchestre e docenti, per ottenere con pochi elementi l’armonia di una grande orchestra.
Il festival musicale di Todi è conosciuto ovunque. Infatti, ogni anno non meno di cento pianisti sottomettono le loro esecuzioni in video alla valutazione del direttore artistico, che ne seleziona solo cinquanta.
Questi pianisti affrontano spese non indifferenti pur di partecipare al TIMM; molti sono così giovani che vengono accompagnati dalle famiglie, accrescendo ulteriormente i costi.

 

Todi Internazional Music Masters

L’avanzata della Cina

I pianisti con fattezze orientali sono sempre più numerosi. Probabilmente perché i ragazzi dell’estremo Oriente, a differenza degli europei, sono molto competitivi e capaci di grande abnegazione e sacrificio pur di raggiungere i risultati che si sono prefissati.
Mozart è stato sempre citato per la sua precocità musicale; ma adesso c’è la Cina. Quest’anno è venuto a Todi a suonare un virtuoso di soli nove anni proveniente da questo Paese.
L’avanzata della Cina nel mondo musicale sarà incontenibile, perché è il paese dei grandi numeri e i futuri pianisti cinesi hanno dietro di sé la pressione di 40 milioni di studenti di pianoforte, che lavorano duramente e sono sostenuti da tutto il clan familiare che gli permette di affrontare le spese dei Master nel mondo.

Le prospettive future

TIMM ha un costo che si aggira sui 1750 euro, più l’aereo, il vitto e l’alloggio. Purtroppo non ci sono borse di studio per permettere a un maggior numero di giovani di partecipare.
Il Maestro Antonio Pompa-Baldi è il creatore e direttore artistico di questo master. L’esperienza di docente negli Stati Uniti e in Cina e quella maturata suonando ovunque, dall’Africa all’Oriente, dall’Europa all’America, e insegnando in molti master, lo ha spinto a dare vita in Italia a questo festival di alto livello aperto anche al pubblico. Lo ha fortemente voluto cinque anni fa e adesso il TIMM sta lievitando progressivamente.
Le iscrizioni per il prossimo anno sono già aperte. Vedremo cosa accadrà e se finalmente ci sarà la possibilità di offrire anche delle borse di studio.

 


Per informazioni: Todi International Music Masters 

Deruta, insieme a Gualdo Tadino, Gubbio e Orvieto costituisce uno dei quattro centri di antica tradizione ceramica.

A Deruta le prime attestazioni della produzione ceramica risalgono alla seconda metà del Duecento; infatti, in un documento del 1277 si richiede la fornitura di mattoni da eseguire ad modum mattorum Dirupta, cioè secondo le misure e la qualità di Deruta, mentre è del 1296 la testimonianza di una zona – oggi identificata tra Perugia e Todi – denominata terra vasaria, che denota in modo inequivocabile l’esistenza di una produzione di laterizi e terrecotte.

 

Dal bruno a blu cobalto

Nel Trecento a Deruta troviamo attestate organizzazioni di tipo cooperativistico con produzioni di oggetti d’uso quali catini, scodelle, boccali e piatti, ma ancora dipinti nei soli colori di bruno e verde ramina su uno smalto di fondo biancastro. I motivi decorativi sono ancora molto semplici: elementi geometrici-floreali e, talvolta, raffigurazioni zoologiche e antropomorfe.
L’introduzione del blu, del giallo e dell’arancio coincide con il periodo di massimo splendore della produzione derutese che si attesta tra la fine del Quattrocento e la metà del Cinquecento. Nelle produzioni di questo periodo troviamo il blu cobalto intenso e diluito che si alterna in genere al giallo su uno smalto impreziosito da sovrapposizioni. I soggetti iconografici diventano molto più elaborati e raffinati e si ispirano spesso alle opere pittoriche dell’artista perugino Bernardino di Betto detto il Pinturicchio.
Anche le piastrelle raggiungono grande raffinatezza. Ne sono esempi notevolissimi il magnifico pavimento della Cappella Baglioni nella Chiesa di Santa Maria Maggiore di Spello o l’antico pavimento della Chiesa di San Francesco di Deruta, i cui frammenti con le loro splendide sfumature del blu e i raffinatissimi disegni catturano lo sguardo del visitatore che lo osserva dalle teche del Museo Regionale della Ceramica.
Accanto alla produzione di vasellame da tavola e oggetti d’uso comune, una consistente fetta di artigiani si dedica in questo periodo alla produzione di ceramica ornamentale come piatti da pompa o coppe amatorie. Il blu utilizzato dai ceramisti derutesi era ricavato dall’ossido di cobalto e veniva prodotto direttamente nelle botteghe che ne facevano uso.

Il colore della sfera religiosa e femminile

Il blu in tutte le sue sfumature, molto usato nel periodo del massimo splendore della ceramica di Deruta, diviene quasi colore obbligato per opere che rappresentano santi e madonne, che dovevano essere installate in un contesto religioso o che rappresentavano la sfera femminile. Il blu, sinonimo di cielo, acqua, serenità e pace, infatti, è da sempre associato alla sfera religiosa ed è presente nelle iconografie di tutto il mondo; per i primi cristiani era sinonimo di Dio Padre, nel corso del tempo è andato rappresentando sempre di più la Vergine Maria, simbolo della femminilità e delle qualità connesse alle donne quali la compassione, la devozione, la fedeltà, la maternità. Le decorazioni in blu su ritratti di donna erano omaggio alla bellezza e alle qualità finora citate. Non a caso nei numerosissimi ex voto che troviamo nel Santuario della Madonna dei Bagni (o del Bagno), il blu è il colore predominante.

 

Verso la monocromia turchina

Nel Seicento inizia la decadenza qualitativa e quantitativa della ceramica derutese e il blu diventa prevalentemente monocromia turchina con soggetti floreali, tralci e uccelli ricchi e articolati che tendono a ricoprire in fitte trame tutto il manufatto, probabilmente su imitazione della ceramica olandese che si ispirava a sua volta alla raffinatezza della porcellana cinese e alle ceramiche medio-orientali di Persia e Turchia. Nel secolo seguente raffinate decorazioni in bianco e blu continuano a ornare tavole di nobili e ricchi borghesi della regione.

Ispirazione per artigiani e artisti: il Museo regionale della Ceramica di Deruta

È il più antico museo italiano dedicato alla ceramica; è stato fondato nel 1898 per iniziativa del notaio derutese Francesco Briganti con l’intento di fare un museo «da servire agli artisti derutesi, alla storia dell’arte ed al decoro della patria illustre delle majoliche» tant’è che nel primo appellativo, Museo artistico per lavoranti in maiolica, è contenuta la missione del museo, ancora estremamente attuale: luogo di conservazione della memoria storica, di cultura, ma anche modello e fonte di grande ispirazione per artigiani, artisti e designer.
Il museo, ospitato nel trecentesco complesso conventuale San Francesco, conserva più di seimila opere, dalla ceramica arcaica fino ai giorni nostri. In più, all’interno di una torre metallica di quattro piani, è organizzato un deposito di opere ceramiche di vari periodi provenienti anche da collezioni private e sempre aperto al pubblico. Una curiosità: nel deposito sono conservati esempi di preziosi packaging in ceramica realizzati per una nota industria dolciaria perugina.
Molte opere colpiscono il visitatore per la raffinatezza del decoro, la minuziosità del dettaglio, l’uso del colore come esempio della più altra espressione del bello nella ceramica artistica.

 

Un unicum di stile: il pavimento della Chiesa di San Francesco

Rinvenuto nel 1902 durante i lavori di restauro della chiesa, è sicuramente una delle opere più significative della collezione museale. È composto da duecento mattonelle di forme diverse, quadrate e rettangolari a componimento di una cornice, ma quelle che destano più stupore sono a forma di stella a otto punte e a croce obliqua, che si intersecano perfettamente. I motivi decorativi riportati sono assai diversi fra loro, figure sacre e profane nelle mattonelle a stella, arabeschi e girali in quelle a croce. Questa straordinaria opera si attribuisce a Nicola Francioli detto il Co, figlio di una delle famiglie più antiche di vasari derutesi; il ritrovamento di una mattonella con la data 1524 fa presumere l’anno di realizzazione del manufatto, uno dei momenti più fiorenti per attività produttiva e artistica derutese. L’utilizzo dei colori, la varietà dei soggetti raffigurati e dei paesaggi collinari rappresentati, fanno pensare ad una chiara ispirazione alle opere del Perugino. La forma delle mattonelle invece, unica e inedita per l’occidente cristiano, è una chiara evocazione dello stile moresco penetrato nella cultura derutese della ceramica. Infatti molte pavimentazioni islamiche dell’epoca o più antiche riportano forme simili. Da notare anche la somiglianza con gli azulejos portoghesi e spagnoli, sottili lastre di argilla smaltata e decorata, prodotti dai vasari della penisola iberica sotto l’influenza musulmana, nelle quali il blu costituisce la nota predominante.

 


FONTI:

Museo Regionale della Ceramica di Deruta

BUSTI-F. COCCHI, Museo regionale della ceramica di Deruta : ceramiche policrome, a lustro e terrecotte di Deruta dei secoli XV e XVI, Perugia : Electa-Editori umbri associati,1999

www.museoceramicadideruta.it

www.ceramicamadeinumbria.it

www.madonnadelbagno.it

www.scuoladarteceramica.com

#MeuAyrton – Ayrton Senna alla velocità del cuore è la mostra fotografica inaugurata a Todi durante il Todi Festival, visibile dal 24 agosto al 9 settembre 2019.

La mostra è stata allestita nel Nido dell’Aquila, anzi nel Torcolarium, l’ambiente dove le monache lucrezie presiedevano alla torchiatura delle olive e dell’uva. È un luogo magico legato alla leggenda dell’aquila tuderte.

 

La sconosciuta leggenda della fondazione di Todi

Lo stemma di Todi, quello che si trova anche sulle porte di tutti i castelli che sono stati sotto la sua giurisdizione, è rappresentato da un’aquila ad ali spiegate che regge un drappo tra le zampe. La presenza di un drappo è insolita e non ci sono tracce storiche che lo giustifichino. Nel XVII secolo hanno elaborato una leggenda, che purtroppo non ha avuto un cantore come Virgilio e si è limitata a essere immortalata in due affreschi che si trovano nella sala grande del Palazzo dei Priori a Todi.
La leggenda narra che un giorno di 2.700 anni fa, più o meno quando veniva fondata Roma, un gruppo di uomini Veii-Umbri capeggiati da Tudero si riunirono per fare un picnic. Dovevano prendere una decisione importante: volevano fondare una città, la loro città.
Questi uomini sapevano già allora che se pranzi sul prato ti devi difendere dalle formiche che amano appassionatamente partecipare ai pranzi campestri. Questo gruppetto di uomini di un mondo remoto, prima di iniziare a discutere e a mangiare, distesero sul prato una tovaglia. Gli storici non dicono se portava già i disegni tipici della tessitura umbra, ma questo esula dal racconto. Mangiarono, discussero e presero la decisione di costruire la città ai piedi della ripida collina che li sovrastava.
Si stavano concedendo un momento di relax quando sopra di loro apparve l’ombra di un’aquila. Il grande uccello cominciò a girare in tondo tenendo d’occhio la scena, poi scese in picchiata, afferrò la tovaglia e riprese il volo verso la collina, portandosela dietro.
Gli uomini rimasero stupefatti, «Un’aquila che ruba una tovaglia deve avere un significato», si dissero. Tudero e i suoi seguirono le evoluzioni dell’aquila e ritrovarono la tovaglia in un punto estremo della collina, dove nidificava. Era un segno evidente degli dei. La città andava costruita lassù. E lassù si trova ancora oggi. All’inizio la chiamarono Tuder, come il fondatore, ma nel tempo è diventata Todi e conserva il ricordo dell’aquila con il drappo nel suo stemma.

 

Mostra dedicata a Senna

Il nido dell’aquila e la mostra su Ayrton Senna

«E il nido?», vi chiederete.
Il luogo del nido c’è ancora.
Richiede di essere trovato perché nessuna aquila nidifica in un luogo accessibile. Se salite la collina a piedi, vi accorgerete subito di quanto sia ripida; poi, arrivati in cima, mettetevi davanti al Duomo, girate a sinistra poi ancora a sinistra e poi a destra, seguite la strada in discesa fino a una porta con tettoia. Siete arrivati al monastero delle Lucrezie: entrate e vi troverete nel Nido dell’Aquila.
L’uccello maestoso se n’è andato via, lasciando al suo posto un luogo che è stato di preghiera e adesso è di cultura. Varcata la porta, vi troverete nel chiostro delle Lucrezie e sarete attratti dal panorama che domina la valle del Tevere, e dal prato del picnic. È un chiostro anomalo perché la parte porticata è piccola, mentre al primo piano si apre un grande loggiato. Se riuscirete a trovare lo stemma dell’aquila, lì troverete anche il nido e la mostra con le foto del pilota brasiliano.
Ayrton Senna è stato fotografato per anni da Paola Ghirotti, che l’ha seguito attorno al mondo cogliendo le sfumature delle emozioni di un uomo che stava per diventare un mito. I numerosi primi piani del pilota mostrano un viso bello, serio, concentrato. Mai sorridente. Dicono che fosse allegro, ma in pista dominava la concentrazione.
Forse portava in sé la saudade brasiliana. Ayrton ha sentito profondamente la responsabilità della ricchezza e in un’intervista disse: «I ricchi non possono vivere su un’isola circondata di povertà. Noi respiriamo tutti la stessa aria. Bisogna dare a tutti la stessa possibilità».
La Fondazione che porta il suo nome in 30 anni ha fatto studiare a 25 milioni di bambini.
«Il mio nome è Ayrton e faccio il pilota
e corro veloce la mia strada
anche se non è più la stessa strada».

 

Nel cuore verde dell’Umbria, all’ombra di monumentali abbazie, tra gli echi del Medioevo e della storia, avvolto negli aromi di un’antica tradizione gastronomica, è custodito un territorio selvaggio, un angolo di Appennino in cui il tuono del fiume Nera rimbomba fragoroso, infrangendosi tra le rocce e facendo sobbalzare il cuore per l’adrenalina.

Stiamo parlando della Valnerina, un coriandolo di Umbria decantato in tutto il mondo come Terra dei Santi, ma che si presta in maniera eccellente alla voglia di avventura e divertimento di tutta la famiglia. Tra cascate, falesie e sentieri si dipanano numerose attività outdoor attraverso le quali scoprire il fascino di una natura selvaggia che si specchia nell’acqua limpida di un fiume indomito, il Nera, nome che nella sua forma più antica significa proprio “forte”.

 

Fare rafting è sempre suggestivo; farlo in Umbria, lo è ancora di più!

Discese adrenaliniche tra i flutti: il rafting e l’hydrospeed

Il più celebre degli sport acquatici che permettono di solcare il Nera è senza dubbio il rafting, un modo particolarmente dinamico e avventuroso per percorrere tratti di fiume a bordo di colorati gommoni. Uno sport da vivere, che riscuote notevole successo tra i più giovani. Tanti gli itinerari da scegliere: da quelli più adrenalinici che costeggiano le acque della Cascata delle Marmore – dove il corso del fiume è più spumeggiante – a quelli più tranquilli e adatti anche ai più piccoli, ma che comunque riservano forti emozioni. Particolare menzione merita l’hydrospeed, una discesa fluviale aggrappati a una sorta di salvagente nei punti in cui l’acqua scorre più veloce e le rapide sono più selvagge. Una soluzione più rapida ed emozionante per chi vuole essere protagonista sul fiume. Un’avventura da condividere con un compagno di viaggio alquanto insolito: il Nera. La forza della natura, lo spirito d’avventura, l’adrenalina che sale in un vortice di emozioni che ti faranno tornare a casa cambiato da questa nuova esperienza.

Balconi di roccia: l’arrampicata sportiva

Roccia, acqua, terra: sono i tre elementi che in questo angolo di Umbria si fondono insieme plasmando le forme, il paesaggio e la natura che sono protagonisti di questa terra. Una montagna dal paesaggio unico e irripetibile, che dalla Falesia di Ferentillo offre scorci di luminosa bellezza. Un paesaggio plasmato dall’uomo, che ha saputo conservare la natura autentica di questo luogo, offre quanto di più suggestivo un free climber possa desiderare. Guardare la parete che sale, seguirne le linee, le sporgenze per poi sentire la roccia sotto le mani. L’arrampicata è il contatto con la montagna, un’impresa non più riservata a pochi atleti, ma che gode di sempre maggiore popolarità, per il desiderio di sfidare le proprie forze, per poter osservare le altitudini da un balcone di roccia che regala un’esperienza naturale totalizzante.

 

L’arrampicata sportiva è uno stile di arrampicata che si basa su ancoraggi permanenti fissi alla roccia come protezione/sicurezza.

In mountain bike alla scoperta della vecchia ferrovia Spoleto-Norcia

La Valnerina è una terra forgiata da Madre Natura per essere scoperta pedalando. In questo angolo di Umbria, tra l’azzurro limpido del Nera e la skyline di borghi e torri medievali, si sviluppa un percorso pedonale e ciclabile che si estende, per oltre 30 km, lungo la vecchia ferrovia che un tempo collegava Spoleto a Norcia. Una greenway nel cuore più selvaggio dell’Umbria che percorre luoghi in cui contrasti paesaggistici e culturali mantengono viva la tradizione e accompagnano i bikers in un itinerario dai mille volti. Tante le occasioni per vivere incontri interessanti: è abbastanza facile, infatti, scorgere numerose specie di rapaci diurni che si librano in volo dalle maestose pieghe rocciose che incorniciano il percorso. I più comuni sono il gheppio e la poiana, o addirittura una coppia di aquile reali che ha il suo nido in una delle gole attraversate dalla vecchia ferrovia. Mentre gli appassionati di rafting scivolano sulle acque del Nera, chi fa trekking o pedala può anche esplorare una vecchia galleria stradale abbandonata. Buio, pipistrelli, spifferi gelati e cigolii sinistri garantiscono 5 minuti da brivido.

 

La strada ferrata su cui si articola l’Ex Ferrovia Spoleto-Norcia era un capolavoro assoluto di ingegneria ferroviaria

A spasso tra cielo e terra: trekking in Valnerina

Un angolo di Umbria, la Valnerina – conosciuto per una sacralità antica come le leggende che la popolano e dove i santi e gli anacoreti umbri hanno trascorso ore di preghiera e meditazione – è la scenografia ideale per chi, con gli scarponcini ai piedi, ricerca un’esperienza slow, all’insegna della natura e dello sport. Dal Parco Nazionale dei Monti Sibillini alla Cascata delle Marmore, ogni sentiero conduce a borghi che custodiscono importanti testimonianze architettoniche o a punti panoramici che regalano scorci indimenticabili. Trekking in Valnerina significa scoprire e riscoprire antiche strade e angoli dimenticati, camminare sulla linea di confine tra cielo e terra, sulle tracce di una volpe o di uno dei cavalieri del passato. Stacca la spina del quotidiano e concediti uno spazio per vivere fuori dal tempo, per essere padrone dei tuoi passi e nutrirti a piene mani di sensazioni irrinunciabili.

 

Trekking in Valnerina

Tra realtà e incantesimo: deltaplano e paracadutismo

L’idea di volare, il desiderio di imitare gli uccelli, ha sempre destato nell’uomo sensazioni straordinarie, dal mito di Icaro al genio di Leonardo da Vinci, fino all’invenzione dei fratelli Wright. Tuttavia, seduti in comode poltrone reclinabili, non proviamo certo la sensazione di essere noi, con il movimento del nostro corpo, a consentire di librarci in aria. Sensazioni invece che colpiscono piacevolmente gli appassionati del parapendio e del deltaplano. Pochi passi e via… Un lungo respiro e l’aria sembra avere improvvisamente un profumo mai sentito prima. Una volta in volo, il silenzio è quasi surreale. L’unico rumore che si avverte è quello del vento tra le corde della vela. I sensi si colorano di emozioni mai vissute prime. Esaurita la potente carica emotiva dei primi secondi, si inizia a prendere confidenza con questa nuova prospettiva: è il momento di godersi la vista riservata agli uccelli e ai pochi fortunati che hanno nel sangue questa passione. Giù in basso, con la luce di taglio di uno splendido tramonto, il verde dei boschi e della campagna si accende in tutte le sue sfumature, e la linea dell’orizzonte si fa più marcata. Un’esperienza da vivere, a metà strada tra realtà e incantesimo.

 

Il Comune di Gualdo Cattaneo ha attorno a sé un complesso difensivo di castelli e fortezze medievali che costituisce uno straordinario museo a cielo aperto. Con il marchio Castelli di Gusto, il Comune ha dato l’avvio a una rete enogastronomica a difesa del territorio e della salute, mettendo in campo le nuove teorie venute da lontano.

L’idea è partita nelle terre dall’altra parte del mondo ed è attecchita qui, nella verde Umbria. Dall’Australia all’Umbria, dall’ecologia integrata alla filosofia, dall’Università all’ambiente, dalla teoria alla pratica. Qui si parla di permacultura, tecnica teorizzata in Tanzania e in Australia dai professori Mollison e Holmgren e da loro esportata in tutto il mondo.

Che cos'è la permacultura?

La permacultura ha attraversato l’Oceano Pacifico e l’Oceano Indiano, si è diffusa a est e a ovest, è approdata in Asia, in America e in Europa negli anni Ottanta. I due ecologisti/agronomi hanno pensato a un sistema di gestione del territorio per cercare di contrastare lo sfruttamento e la crisi del pianeta Terra. Hanno ideato un sistema integrato, attento alle risorse del sito, al suo ecosistema, al biotopo e al biotipo della zona per un ottimale utilizzo del territorio.
Permacultura è un neologismo che mette assieme la parola permanente con agricoltura, e unisce la coltura delle piante con la cultura di chi segue lo sviluppo dei vegetali. Sole, vento, acqua, insetti, vicinanza delle piante tra di loro: tutto contribuisce a favorire o a distruggere la crescita dei vegetali.
Questa tecnica è ormai ampiamente diffusa nel mondo e io l’ho vista messa in pratica nella città di Aarus (Danimarca). In un quartiere avveniristico, in mezzo ai palazzi, c’era una grande quantità di cassette di legno per la coltivazione di insalate e altri ortaggi. Era la permacultura, ma io non lo sapevo.

 

Permacoltura ad Aarus

La permacultura in Umbria

In Umbria, dei giovani imprenditori di Gualdo Cattaneo hanno dato l’avvio a questa nuova pratica. Andrea, il filosofo, e sua sorella Irene, laureata in Scienze della Comunicazione, stanno sviluppando la policoltura degli orti, sfruttando le grandi cassette di legno adatte proprio alla permacultura. In queste cassette la terra respira ed è sminuzzata in modo che ossigeno e sostanze nutritive passino facilmente dal terreno alla radice della pianta.
Le cassette sono studiate anche per non sprecare nemmeno una goccia d’acqua, consentendone il lento assorbimento da parte del terreno, e per mantenere il giusto livello di umidità a favore di un migliore sviluppo delle piante. Lo scopo è quello di ottenere dei prodotti genuini e saporiti, evitando l’uso di sostanze glifosate e dei pesticidi. Questa tecnica si basa sul fatto che ci sono piante che vivono bene in prossimità e si sostengono vicendevolmente, sfruttando le condizioni di sole e ombra e difendendosi dagli insetti dannosi.
C’è da dire che la permacultura non si applica solo ai vegetali, ma anche agli animali e all’ambiente in generale. Infatti, il marchio Castelli di Gusto riunisce varie tipologie di prodotti: uva, formaggio, pecore, ortaggi.
Questa iniziativa si è sviluppata all’ombra della Rocca Borgia nella valle del Paglia. Diciotto giovani hanno stanno tentando di vivere e operare bene a casa loro, lavorando la terra e con gli animali. C’è chi ha lasciato il posto fisso e chi ha dato un diverso sviluppo alla propria laurea e ai titoli accademici conseguiti, chi ha valorizzato l’azienda ereditata dai nonni mettendo in pratica il meglio che la scienza moderna offre oggi, chi è tornato a casa per non lasciare la rete di affetti che lo lega al territorio. Un’umanità variegata, ma unita dalla voglia di tracciare una buona strada. I giovani imprenditori hanno riunito le loro aziende in una ATI (Associazione Temporanea di Imprese) per accedere al Piano Sviluppo Rurale o PRS, con il valido aiuto dell’avv. Elisa Benvenuta, vicesindaco di Gualdo Cattaneo.

«Arte bella e ingegnosa, ma fallace che di cento pezzi sei ne vengono buoni».

Così scriveva Cipriano Piccolpasso, intorno al 1560, della maiolica, antico nome del lustro con cui i vasai del Rinascimento riuscirono, quasi con misteriose alchimie, a colorare le ceramiche di riflessi d’oro e di un sanguigno rosso rubino; Piccolpasso infatti fu un architetto, storico, ceramista e pittore di maioliche. Non vi è museo importante al mondo che non conservi nelle sale alcune preziose maioliche italiane a lustro e tra i maggiori figurano il Metropolitan Museum of Art di New York, il Victoria and Albert Museum di Londra e il Museo del Louvre a Parigi, dal quale provengono alcune delle più importanti opere esposte nella mostra Maiolica. Lustri oro e rubino della ceramica dal Rinascimento a oggi, visibile fino al 13 ottobre 2019 presso il Palazzo Buonacquisti di Assisi.
La mostra, voluta dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e organizzata dalla Fondazione CariPerugia Arte, è curata da due massimi esperti di maiolica: Franco Cocchi e Giulio Busti.

 

Come ha sottolineato il presidente della Fondazione CariPerugia Arte, Giuliano Masciarri, il progetto espositivo si inserisce nell’ambito di un percorso che «anche in una fase critica come quella che stiamo vivendo, intende contribuire alla valorizzazione dell’arte e della cultura, attraverso iniziative di qualità che richiamino appassionati e visitatori contribuendo così alla crescita economica e culturale del nostro territorio».

Una collezione di capolavori

Percorrendo le sale del palazzo, il visitatore può ammirare circa centocinquanta capolavori provenienti da collezioni pubbliche e private, conservate non solo in Umbria, ma anche in territori limitrofi come Bologna, Firenze, Faenza, Ravenna, Pesaro, Arezzo e Viterbo. In questo modo, attraverso sei sezioni tematiche, si noteranno gli sviluppi della maiolica dalle origini fino alle ultime manifestazioni nel Seicento e alla ripresa nell’Ottocento, quando gli oggetti ceramici tornarono a essere di vasto interesse. È possibile apprezzare anche creazioni in maiolica postmoderne e attuali, nelle quali gli artisti, oltre alla tecnica, uniscono anche design e creatività.
In pochi riuscirono nell’impresa di produrre oggetti in maiolica di così alto valore artistico e tra i maggiori creatori spiccarono i derutesi e gli eugubini, così da creare una sorta di monopolio. Le maioliche divennero di gran moda fra il Quattrocento e Cinquecento: prima quelle importate dalla Spagna e poi quelle di Deruta e di Gubbio, che diventarono così parte dei corredi domestici e degli arredi delle case reali e delle più importanti famiglie d’Europa.

 

Maiolica. Ratto di Elena 1540. Francesco Xanto Avelli. Parigi. Museo del Louvre

 

Le maioliche a lustro di Deruta coinvolgono il visitatore con i bellissimi ritratti di dame elegantemente vestite, Madonne, Santi e cavalieri; quelle di Gubbio invece, raffigurano i miti antichi, cogliendo in pieno lo spirito del tempo.
Molti oggetti di uso quotidiano, come vasi e albarelli famosi per il loro uso farmaceutico, diventarono, grazie a una decorazione ricca ed esuberante, oggetti da ammirare. Ne sono un esempio i piatti da pompa destinati non a essere ammirati al centro di una tavola imbandita, ma a essere esposti come vere opere d’arte, con le loro raffigurazioni di immagini sacre, profane e scene di combattimenti.
La mostra quindi accompagnerà il visitatore alla scoperta della storia di una delle tecniche più affascinati, ma anche più complicate della produzione ceramica umbra.

Giovani Penne è la sezione di AboutUmbria dedicata al progetto alternanza scuola-lavoro. A essere ospitati sono, in queso caso, gli articoli scritti dagli alunni del liceo scientifico G. Alessi di Perugia, guidati dalla professoressa Daniela Pera.

Un anello di 58 km che circonda la leggenda di Agilla e Trasimeno: un anello in cui perdersi è facile, immerso nei colori e nelle multiformità  del cuore verde dell’Italia; se l’Umbria e le sue colline sono questo è anche merito infatti del Lago Trasimeno, che sembra abbia preso il nome dalla storia dei due amanti.
Così, lasciandosi guidare dalla celeberrima massima di Giovenale riportata nel decimo libro delle Satire mens sana in corpore sano, viene voglia di salire su una bici e godersi il panorama lungo i differenti sentieri che appunto si snodano nel territorio lacustre, dalla costa ovest di Castiglione del Lago a quella est di San Feliciano, passando per quelle terre che fecero da teatro all’epica Battaglia del Trasimeno tra Romani e Cartaginesi, nella Seconda Guerra Punica (217 a.C)  

Si parte  da Punta Navaccia, nei pressi di Tuoro, per immergersi nei più classici saliscendi umbri sorvegliati da boschi di conifere e querceti di cerro e roverella, incontrando lungo la via – 32.60 km e circa 400 metri di dislivello positivo – il Castello di Montegualandro, posto di guardia al punto di passaggio obbligato tra Umbria e Toscana. La sua storia risale addirittura al IX secolo, quando Carlo Magno donò la rocca ad Ariberto, signore del Monte Santa Maria, prima che Federico Barbarossa la conquistasse per passarla ai marchesi Ranieri. Sebbene il castello sia stato devastato nel 1247 dai perugini per punire la famiglia Montemelini, al tempo proprietaria e rea di aver ospitato l’imperatore Federico I presso la sua residenza, ancora oggi sono visibili i resti delle antiche mura. 

Si continua quindi con il percorso di Monte Castiglione, in quel di Passignano, dove ha inizio un itinerario tanto panoramico quanto esigente, poiché prevede la scalata lungo il crinale di Trecine ricoperto da oliveti, ginestre, incolti arborati e giovani rimboschimenti: nei pomeriggi d’estate da qui si può ammirare un suggestivo tramonto rosso alle spalle delle tre isole, recuperando le forze prima di tornare a scendere verso la Torre Torta di Vernazzano Alta e la Fattoria del Pischiello risalente al XVIII secolo e voluta dal Marchese Ludovico Ranieri di Sorbello. 

Il tour di fatica e piacere continua con I Sette Monti in un percorso che si snoda nel magionese ricordando però i più nordici territori delle Ardenne, con il pellegrinaggio attraverso alcuni dei Borghi più Belli d’Italia tra cui Montecolognola, Monte del Lago, San Savino e Montesperello, nella cui Chiesa è possibile osservare i dipinti di Gerardo Dottori. Dottori, che lasciò traccia di sé e del suo talento anche a Magione stessa; il paese, posizionato sulla sponda orientale del Trasimeno, era conosciuto un tempo con il nome di Pian di Carpine, prima che i Cavalieri gerosolimitani vi costruissero una magione appunto, per assistere e curare chi ne avesse bisogno. Passò però alla storia grazie alla celebre Dieta della Magione ai danni di Cesare Borgia, raccontata da Niccolò Machiavelli ne Il Principe. 

Dulcis in fundo, il Grande anello del Trasimeno che, snodandosi in larga parte lungo la ciclabile del lago, arriva a misurare ben 71.60 km, prevalentemente pianeggianti, trovando anche il tempo di attraversare le cittadine di Macchie, San Fatucchio e Vitellino. Tra i punti di maggiore interessa troviamo tuttavia Oasi la Valle, un centro naturalistico situato ai piedi di San Savino in cui è possibile osservare l’ecosistema lacustre nelle sue molteplici sfaccettature, il Centro ittiogenico di Sant’Arcangelo in cui vengono allevate e monitorate le specie tipiche del lago, fino al Castello di Montalera: la fortezza, costruita nel XII secolo, immersa tra elci e querce, si presenta ancora imponente, con torri merlate alla guelfa, mura difensive, resti dell’antico fossato e ponte levatoio. Si tratta questa dell’unica asperità rilevante del percorso, che partito da Castiglione del Lago si conclude ciclicamente nel marchesato dei Della Corgna. 

 Con quest’ultimo lungo e coinvolgente itinerario a tuttotondo si conclude così un viaggio alla scoperta degli agresti panorami e delle preziose testimonianze storiche del Lago Trasimeno. 

«Fare il musicista è una carriera lunga. Per suonare il violino serve tanto amore e sacrificio, anche perché oggi c’è grande competizione»

«Ha fatto delle belle domande». Con queste parole il violista perugino Patrizio Scarponi si congeda dall’intervista. Lo prendo come un complimento, perché la nostra è stata una chiacchierata sulla sua carriera e sulla musica classica in Umbria. Non certo un’intervista per mettere l’interlocutore alle strette. Quindi sì, è un complimento e mi sento soddisfatta! Soprattutto perché arriva da Scarponi, un uomo di cultura e di spessore artistico.
Il violinista e docente al conservatorio di Perugia suona il violino da quasi 60 anni; vanta collaborazioni con le maggiori orchestre italiane – La Nuova Aidem di Firenze, l’Orchestra Sinfonica Abruzzese, l’Orchestra Sinfonica Umbra, Solisti della Filarmonica Romana e dell’orchestra da camera I Filarmonici di Roma – e con i più grandi maestri, da Ennio Morricone a Uto Ughi. Insomma, un’eccellenza umbra a tutti gli effetti.

 

Patrizio Scarponi durante un’esibizione

Qual è il suo legame con l’Umbria?

È un legame molto profondo, non solo perché ci sono nato e cresciuto, ma perché sento una vera attrattiva per questa terra di santi, poeti e artisti… un luogo di bellezza assoluta. Sono molto contento di vivere in questa terra meravigliosa.

Ha mai pensato di andarsene, visto il lavoro che fa?

Ho sempre avuto tante occasioni, ma il piacere di vivere qui mi ha fatto declinare ogni offerta.

Cosa l’ha spinta a diventare un violinista, a scegliere questo strumento?

È stata quasi un’imposizione. Sono nato in una famiglia di musicisti e mi piaceva suonare la tromba: facevo finta di suonarla usando l’imbuto che serve per imbottigliare il vino. Mio padre invece decise che dovevo suonare il violino. Oggi lo ringrazio, perché è uno strumento che amo molto.

A quanti anni ha iniziato a suonare?

A 6 anni.

Cosa vuol dire essere primo violino in un’orchestra?

È una grande responsabilità, è il ruolo più difficile in cui un musicista può imbattersi. Hai sempre un pubblico doppio: l’orchestra dove ci sono i tuoi colleghi e il pubblico che viene ad ascoltarti. È un ruolo che potrei definire scomodo.

Però dà grande soddisfazione…

Assolutamente. Ogni ruolo nella musica è sempre gratificante.

Collabora stabilmente con l’orchestra sinfonica creata e diretta dal maestro Ennio Morricone: ha mai partecipato alla realizzazione di qualche traccia per il cinema?

Ho realizzato per il cinema circa 40 colonne sonore: da C’era una volta in America a Baarìa, passando per La leggenda del pianista sull’oceano, La Sconosciuta, Malena e tante altre. Ho lavorato con il Maestro per 25 anni: negli ultimi 12 con Morricone ho fatto circa 300 concerti in tutto il mondo.

Quando il Maestro ha vinto l’Oscar, un pezzetto lo ha sentito anche suo?

Quando ha ricevuto l’Oscar alla carriera eravamo ospiti a Hollywood e abbiamo suonato davanti a tutte le star. È stata una bellissima esperienza. Io sono un semplice musicista, è lui il genio. Io e i miei colleghi abbiamo fatto sempre del nostro meglio per realizzare le sue creazioni.

Nel corso della sua carriera ha effettuato registrazioni per la RAI: di cosa si tratta?

Abbiamo fatto molte registrazioni con I Filarmonici di Roma e il maestro Uto Ughi, così come diversi concerti negli studi RAI. Senza dimenticare la realizzazione di dischi.

Ascolta musica pop? C’è qualcosa che le piace?

La musica fatta bene è tutta bella. Ci sono stati in passato musicisti di grande valore, penso ai Queen, ai Led Zeppelin e ai The Rolling Stones. Ora seguo di meno, ma quando ero giovane ascoltavo questi gruppi che avevano musicisti di prim’ordine nel loro genere.

Cosa consiglierebbe a un giovane che vuole intraprendere la sua professione?

È una carriera molto lunga, dura e piena di sacrifici. Deve piacere tantissimo perché, soprattutto per il violino, ci vuole una dedizione estrema, altrimenti non si arriva da nessuna parte. Oggi poi c’è molta competizione, ci sono dei giovani che fanno davvero paura. Occorre tanto sacrificio e tanto amore.

Lei quante ore suona in un giorno?

Da giovane dalle 10 alle 8 ore. Oggi non più di 3 ore in un giorno.

La musica classica in Umbria crede che abbia il giusto spazio o si potrebbe fare di più?

Si potrebbe fare tantissimo, con cinquantamila s (scherza). L’Umbria è una terra bellissima e piena di arte, ma la musica non viene apprezzata. Qui ha più successo la sagra della porchetta. C’è l’associazione Amici della Musica che funziona bene, ma spesso chiama a suonare musicisti stranieri, c’è poi il Festival dei Due Mondi di Spoleto che – a mio parere – in questi anni ha avuto un notevole calo, non si realizzano più concerti di grande spessore artistico come accadeva un tempo.

Concretamente, cosa si potrebbe fare?

Prima cosa si dovrebbe dare più spazio alla musica, costruendo un’orchestra stabile che in Umbria non c’è. Sono stati fatti dei tentativi in passato, anche da me, ma è stato tutto inutile. Abbiamo insegnato al mondo la musica, la scultura, la pittura… oggi siamo l’ultimo paese in questi ambiti. Basti pensare che una città come Düsseldorf ha quattro orchestre stabili: in Umbria non ce n’è nemmeno mezza. Mi dispiace soprattutto per i giovani e i miei allievi perché, se vogliono diventare musicisti, se ne devono andare dall’Italia. Siamo un popolo pieno di talento – quando senti suonare un italiano lo riconosci subito – ma manca la possibilità di realizzare i sogni.

Per concludere: come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Terra straordinaria, ma la gente è ancora contadina – l’arte è l’ultima cosa a cui pensano. Qualcuno non avrebbe nemmeno il diritto di viverci per quanta bellezza c’è, ma che in pochi apprezzano. Quindi le tre parole potrebbero essere: arte, storia e gente gretta. Non lo vorrei dire, ma quello umbro è un popolo ignorante, e lo dico da umbro.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

Il suo grande passato.

Giovani Penne è la sezione di AboutUmbria dedicata al progetto alternanza scuola-lavoro. A essere ospitati sono, in queso caso, gli articoli scritti dagli alunni del liceo scientifico G. Alessi di Perugia, guidati dalla professoressa Daniela Pera.

Ciò che ora vediamo come uno stupendo parco divertimenti a tema naturalistico, vari decenni fa era una collina priva quasi completamente di vegetazione. La storia di questo parco inizia quando il monte su cui è situato –  il Monte Pulito, chiamato proprio così per la scarsissima vegetazione – fu comprato dall’imprenditore perugino Mario Spagnoli, il figlio di Luisa Spagnoli, conosciuta per l’invenzione dei Baci Perugina e per l’omonimo marchio di moda famoso in tutto il mondo.Sembra che Mario avesse sognato la madre Luisa, che gli consigliò proprio di acquistare quel terreno dove spesso lui andava a cavallo con la figlia Mariella. Dopo l’acquisto, per far rinascere la vegetazione, la collina fu sottoposta a operazioni di rigenerazione, come il dissodamento tramite cariche esplosive.Era il 19 giugno 1955 quando furono fatte esplodere più di 500 cariche di dinamite.

Mario Spagnoli, foto via www.luisaspagnoli.it

Successivamente venne piantato un uliveto, presso il quale fu creata una country house, zona dedicata al tiro al piattelloNel 1962 fu anche il punto di arrivo di una tappa del Giro d’Italia.

A mano a mano il parco prendeva forma e furono installate attrazioni per bambini. Una delle prime fu un castello come quello della Bella Addormentata; poi seguirono altri edifici legati sempre al mondo delle fiabe o della mitologia, come il rinomato cavallo di Troia. Tutti erano raggiungibili grazie a un trenino.

In origine avrebbe dovuto chiamarsi Spagnolia, ma poi, il 21 aprile 1963 venne aperto definitivamente al pubblico con il nome Città della Domenica. Uno degli eventi più importanti nella storia del parco divertimenti, fu la realizzazione nel 1968 di una pista artificiale da sci, dotata di illuminazione notturna e impianti di risalita. La pista era formata da un tappeto a griglia in uno speciale materiale plastico e si snodava sulla collinetta di via Col di Tenda. Era visibile dalla città grazie al suo inconfondibile colore azzurro. In seguito, fu dismessa per problemi di sicurezza.

La pista da sci della Città della Domenica, foto via Pinterest

Questo che fu il primo parco di divertimenti a tema d’Italia, con l’avanzare degli anni fu dotato anche di un ristorante che ancora oggi si affaccia su un fantastico panorama. Nel corso dei decenni si è evoluto e ha preso un aspetto più naturalistico e educativo, ospitando al suo interno, oltre alle varie attrazioni, anche animali come daini, lama, mufloni, pavoni e asini. Completa questo quadro dedicato al mondo degli animali un Rettilario, tra i più importanti del nostro paese, che ha sede in una struttura a torre posta all’ingresso. All’interno, sono stati ricostruiti diversi habitat per coccodrilli e serpenti, realizzati in modo da tenere conto della provenienza e delle necessità climatiche e ambientali dell’esemplare ospitato, che limitano al minimo lo stress e allo stesso tempo permettono al visitatore una visita senza pericoli.

Ancora oggi il parco è sede di molte attività per bambini e ragazzi durante l’estate, anche se è visitato tutto l’anno da gruppi di scolaresche o da famiglie che vogliono trascorrere una giornata tranquilla e divertente a contatto con la natura. Tutti ringraziamo un uomo generoso che ha saputo vedere lontano e cheha creduto in un sogno.

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