Perugino e Signorelli sono per la nostra regione un orgoglio e un vanto; la loro arte è stata così eccellente che sono riusciti a tenere uniti due mondi: quello del Verrocchio, di cui era allievo Perugino e quello di Piero della Francesca, maestro di Luca Signorelli.
Attraverso la storia della bellezza, dopo cinque secoli, continuiamo ad andare alla ricerca delle loro tracce nei luoghi più iconici dell’Umbria. I loro capolavori non rappresentano solo un simbolo della nostra terra, ma sottolineano l’importanza e lo sviluppo di un Umanesimo che è penetrato nella nostra Penisola. È proprio in Umbria infatti che Pietro Perugino è nato, qui ha mosso i suoi primi passi, ha iniziato la sua carriera e, dopo aver raggiunto il successo, è tornato.
Attraverso le parole di Paola Agabiti, Assessore Regionale alla Cultura e al Turismo Regione Umbria, possiamo infatti comprendere che Perugino e Signorelli: «hanno anticipato ed esaltato proprio quell’Umanesimo di cui sono stati autorevoli protagonisti, ponendosi direttamente come attori del Rinascimento italiano. Le loro opere, la luce che ne traspare il loro tratto classico e al tempo stesso nitido e visionario ne definiscono la sconfinata maestria e ne manifestano la profonda influenza su decine di artisti loro contemporanei e non solo».
Entrambi morti nel 1523, Signorelli a Cortona, in Toscana, e Perugino a Fontignano, a sud-ovest di Perugia hanno lasciato tracce delle loro opere nel territorio delle due regioni. Entrambi celebri in vita, famosi e ricercati dai grandi committenti dell’epoca hanno influenzato i loro allievi tra i quali va ricordato il giovane Raffaello.
Perugino, Adorazione dei magi, 1507, affresco, 700 x 650 cm, Città della Pieve, Oratorio di Santa Maria dei Bianchi
Nato a Città della Pieve, Pietro Vannucci vi lavorò in giovane età, per poi tornarvi nei primi anni del 1500. Città della Pieve, patria del meglio maestro d’Italia, è un piccolo borgo al confine tra Umbria e Toscana, ricco di fascino e di straordinaria bellezza: la sua natura verdeggiante e incontaminata domina la Valdichiana e il lago Trasimeno; natura lussureggiante ispiratrice dei più eccellenti pittori del Rinascimento.
Nei pressi del duomo è affissa una targa la quale ricorda che un tempo vi era la casa della famiglia Vannucci. L’artista in città, venne chiamato dalla confraternita dei Bianchi per i quali realizzò un grande affresco per la cappella dell’oratorio raffigurante l’Adorazione dei Magi. Figure dominanti sono la Vergine e il Bambino, i Magi riccamente vestiti sono raffigurati in primo piano, alle loro spalle verdi colline di una vallata umbra; nell’opera Perugino realizza un perfetto connubio tra uomini, paesaggio e architettura, integrandoli perfettamente.
L’artista fu l’iniziatore di un nuovo modo di dipingere quello della cosiddetta maniera moderna, caratterizzata dalla purezza formale, dalle ampie composizioni, da un disegno ben definito ed elegante e i personaggi liberati dalle caratteristiche terrene e investiti di un’aria angelica.
Perugino. “Madonna con Bambino e i santi Gervasio, Pietro, Paolo e Protasio”, 1514, olio su tavola, 240 x 220 cm, Duomo, Città della Pieve
In città, inoltre, si trova la Cattedrale dei Santi Gervasio e Protasio. La chiesa sorge nel luogo dell’antica pieve edificata probabilmente nel 1600. La facciata è costruita da due materiali diversi: pietre e laterizi, l’interno a navata unica presenta grandi cappelle laterali che custodiscono opere di allievi del Perugino come Domenico Paride Alfani e Giacomo di Guglielmo e una tela realizzata dal Pomarancio e Salvio Savini.
Sempre nella cattedrale è conservata una tavola lignea rappresentante la Madonna con i santi Gervasio, Protasio, Pietro e Paolo. Il Perugino inserisce madre e figlio nel registro superiore in una cornice a forma di mandorla, antico simbolo di vita e di rinascita poiché il mandorlo è il primo albero a fiorire in primavera. Nel registro inferiore sono presenti san Pietro con le chiavi del Paradiso, Paolo con una lunga spada e il libro e Gervasio e Protasio patroni di Città della Pieve; alle loro spalle vi è l’iscrizione con la data della consegna e la firma dell’autore.
Il pavimento della chiesa è riprodotto anche nell’opera: ai piedi dei personaggi infatti ben si nota un pavimento a forme geometriche.
La gara di Bartocciate 2023 se l’aggiudica Giovanni Alunni con “Bartoccio e Mencarone per Perugia… ncol magone!”
Il Bartoccio
Anche quest’anno si è svolta la tradizionale gara carnevalesca di Bartocciate, versi dialettali che Bartoccio – maschera tipica perugina che risale al 1600 – enuncia per colpire i personaggi noti, per smascherare i soprusi dei potenti e per evidenziare le lacune e le malefatte della società, suscitando riso, ma anche riflessione.
L’evento folkloristico ha visto la partecipazione di 15 autori (Stefano Vicarelli, Giampiero Contena, Giovanni Alunni, Italo Landrini, Marco Fusi, Marinella Boco, Gian Paolo Migliarini, Fernanda Mollica, Nuvoletta Giugliarelli, Sergio Tardetti, Anna Martellotti, Fraido, Grifetta Sofy, Angela Lombardi, Giuseppe Pieristè e Mario Ficola), che si sono dati battaglia a colpi di rime e dialetto. Un’attenta votazione nelle mani dei presenti ha decretato poi il vincitore, Giovanni Alunni (per il secondo anno consecutivo) con la Bartocciata dal titolo: Bartoccio e Mencarone per Perugia… ncol magone!
«Con il mio stornello metto in evidenza la fine di quel circuito di botteghe e mestieri – ben presente negli anni ’80 e primi anni ’90 specialmente nel Borgo d’Oro (Porta Sant’Angelo). Nell’operoso quartiere perugino infetti, erano presenti mestieri che si tramandavano di generazione in generazione e che ora sono spariti, questo ha a che fare anche con lo spopolamento del centro storico» ci spiega l’autore.
Il volume sarà presentato mercoledì 8 febbraio (ore 17.30) presso la Sala della Vaccara a Perugia
Quaranta illustri personaggi: il volume firmato da Giulia Ciacci e Laura Zazzerini per Intermedia Edizioni ripercorre le vite di coloro che hanno arricchito il prestigio del capoluogo umbro. I profili sono presentati sotto forma di «medaglioni brevi e incisivi», come li definisce Leonardo Varasano nella prefazione al libro, e sono impreziositi dai ritratti illustrati da Giulia Ciacci.
«Impresa ardua», scrivono le autrici, «scegliere i grandi di Perugia»: il I volume della collana presenta una selezione che non segue un ordine cronologico o tematico, ma propone vividi exempla di quanti hanno aggiunto «uno scintillio in più al lustro della città». I quaranta ritratti sono come carte da gioco che si lasciano mescolare dal lettore: vite avvincenti e aneddoti inaspettati rivelati, alla fine di ogni biografia, con accattivanti curiosità sul personaggio. Dai nomi più noti, come Luisa Spagnoli o Gerardo Dottori, ai protagonisti della storia del calcio perugino, passando per letterati, patrioti e filosofi del calibro di Giuseppe Prezzolini, Aldo Capitini, Sandro Penna, senza tralasciare il passato più remoto e le sue glorie.
Alla presentazione, che avrà luogo mercoledì 8 febbraio alle 17.30 presso la Sala della Vaccara, oltre alle autrici interverranno l’assessore alla cultura del Comune Leonardo Varasano, il coordinatore editoriale Marco Nicoletti e il critico d’arte Andrea Baffoni, in un incontro tutto perugino: una città che celebra la propria storia.
«Il 2023 sarà tutto dedicato al Perugino con esposizioni e tante iniziative. Negli ultimi 20 anni del ‘400 è stato il numero uno in tutta Italia».
Nel cuore di Perugia c’è uno scrigno che raccoglie opere d’arte, storia della città e collezioni che portano il visitatore a fare un viaggio dal XIII al XIX secolo. Un luogo che però guarda al futuro, che dialoga con l’utente e mette al centro la conservazione dei suoi tesori. La Galleria Nazionaledell’Umbria ha cambiato pelle, grazie al restyling durato un anno e portato a termine nel luglio 2022.
Un allestimento rinnovato e moderno, tante novità e un sistema di conservazione unico al mondo. Il direttore Marco Pierini ci racconta tutto questo, ma soprattutto ci parla delle celebrazioni dei 500 anni dalla morte del figlio di Perugia: Perugino.
Marco Pierini, direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria. Credits Marco Giugliarelli
Dopo il rinnovamento dello scorso anno, la Galleria Nazionale dell’Umbria è diventata un luogo moderno e all’avanguardia…
Speriamo, noi ci crediamo! Nuovi allestimenti e moltissime novità nel percorso, tra cui nuove opere, sale monografiche e un efficace sistema d’illuminazione con luci fredde – abbiamo messo anche delle pellicole alle finestre così da filtrare i raggi ultravioletti e infrarossi. Ma, cosa più importante, un nuovo metodo di conservazione all’avanguardia, perché il nostro primissimo compito è quello di proteggere le opere. Per questo abbiamo realizzato delle basi inedite – non ce l’hanno in nessun museo al mondo – che consentono di distanziare di un metro l’opera della parete con un sistema di cartografi e di ruote, in questo modo il restauratore può girarci attorno per ispezionarla e intervenire se necessario. È un’operazione che si fa in 5 minuti, da soli: prima occorrevano diverse ore per smontarla, 3-4 persone e la chiusura della sala; adesso basta estrarla dal muro con queste basi semoventi per poter intervenire. Come dicevo, la conservazione è fondamentale: le opere le raccontiamo, le esponiamo ma in primis le conserviamo.
In un’intervista parlava di voler realizzare un museo non solo accessibile, ma anche accogliente: è riuscito nel suo intento?
Lo spero, me lo dovete dire voi (ride). L’intento è di dare la possibilità a tutti di godere della nostra esposizione con molta serenità; con opere che siano ben distanziate e non troppo fitte; spiegate in modo chiaro e con un linguaggio semplice; ben illuminate e con delle sedute molto comode e diffuse lungo il percorso. Inoltre, dare la possibilità di ricaricare il cellulare, di avere informazioni supplementari, insomma, abbiamo provato a rendere il museo – che è un museo storico – un luogo contemporaneo. Questo si unisce a tutta una serie di attività proposte questi anni: concerti, presentazioni e spettacoli. L’obiettivo è diventare un centro di produzione di arti contemporanee, invece di un semplice luogo che espone il suo patrimonio e alle 19 chiude il portone.
Sala 1, L’arte del Duecento in Umbria. Credits Marco Giugliarelli
I visitatori hanno apprezzato il nuovo allestimento?
È molto apprezzato dal pubblico che ce lo dice e lo scrive nei commenti, ma anche dalla critica: ne hanno parlato tutti in maniera molto lusinghiera. Per tre riviste importanti come ArtsLife, Artribune e Il Giornale dell’Arte siamo stati dichiarati Museo dell’anno 2022, mentre Apollo Magazine di Londra ci ha inserito nella short list dei 5 musei del 2022. È una bella soddisfazione.
E in termini di numeri come sta andando?
L’anno migliore che abbiamo avuto negli ultimi 15 anni è stato il 2019, anche perché avevamo in esposizione la Madonna Benois di Leonardo. Oggi, confrontandoci con quell’anno, abbiamo un aumento del 7%-8%, quindi vuol dire che rispetto alla media siamo oltre il 25%. Devo dire che sta andando molto bene!
Qual è l’opera di maggior attrazione, anche se non è la più famosa?
Sicuramente Piero della Francesca e la grande croce di 5 metri dipinta del Maestro di San Francesco che accoglie i visitatori nella Sala 1, che ha un forte impatto. Ma anche il giovane Perugino è molto apprezzato.
Sala 13, Polittico di Sant’Antonio di Piero della Francesca. Credits Marco Giugliarelli
Non possiamo non parlare del Perugino: quest’anno ricorrono i 500 anni dalla sua morte e in Galleria sono presenti oltre 20 opere. Si tratta sicuramente il luogo più adatto per celebrarlo.
Esatto. Abbiamo la collezione più vasta al mondo delle sue opere, oltre al fatto che è nato a Città della Pieve e che ha lavorato per più di vent’anni nella sua bottega a Perugia. Si faceva chiamare lui stesso Perugino, quindi non poteva che essere qui la mostra celebrativa.
Da marzo infatti è prevista un’esposizione curata da lei e da Veruska Picchiarelli dal titolo: Il meglio maestro d’Italia. Perugino nel suo tempo in occasione della quale torna a Perugia lo Sposalizio della Vergine. Ci racconti questo evento.
Dal 4 marzo all’11 giugno 2023 la Galleria celebra, con una grande mostra, Pietro Vannucci, il più importante pittore attivo negli ultimi due decenni del Quattrocento. Il progetto espositivo, composto da oltre settantacinque opere, ha scelto d’individuare solo dipinti del Vannucci antecedenti al 1504, anno nel quale lavorava a tre commissioni che segnano il punto più alto della sua carriera: la Crocifissione della Cappella Chigi in Sant’Agostino a Siena, la Lotta fra Amore e Castità già a Mantova, ora al Louvre di Parigi, e soprattutto lo Sposalizio della Vergine per la cappella del Santo Anello del Duomo di Perugia, oggi nel Musée des Beaux-Arts di Caen (Francia). L’opera è stata requisita dai francesi nel 1797 e non è più tornata a Perugia; è stata esposta in Italia solo una volta alla Pinacoteca di Brera nel 2015. Torna nella città d’origine dopo due secoli. Saranno presenti anche altri artisti suoi contemporanei come Raffaello, Botticelli e Ghirlandaio. Ma l’obiettivo dell’esposizione è quello di far vedere il Perugino migliore: nei suoi cinquant’anni di carriera, gli ultimi 20 non sono di livello, quindi ci soffermiamo sui primi anni. Ci piaceva l’idea di rivalutare l’artista, non perché è stato un ottimo allievo di Verrocchio o il maestro di Raffaello, ma per quello che lui stesso ha realizzato. Negli ultimi 20 anni del ‘400 era molto richiesto: ha affrescato la Cappella Sistina, ha lavorato in Piemonte, in Lombardia, a Venezia, in Romagna, a Napoli, a Roma, a Siena, a Firenze e a Perugia, creando un vero linguaggio nazionale. L’esposizione rifletterà sul ruolo che ha effettivamente svolto nel panorama artistico contemporaneo e sul rapporto che lo ha legato ai protagonisti di quell’epoca, seguendo geograficamente gli spostamenti del pittore o delle sue opere attraverso l’Italia.
Mi piace molto il titolo: Il meglio maestro d’Italia. Perché questa scelta?
Il meglio maestro è una frase che il banchiere Agostino Chigi scrive il 7 novembre 1500 a suo padre Mariano quando viene a sapere che vuole commissionare un’opera al Perugino. Nella lettera indirizzata al padre dice: «Quando vuol far di sua mano è il meglio maestro d’Italia». Da un lato è un gran complimento, dall’altro lo accusa di far lavorare molto la bottega e di fare poco lui. Noi abbiamo eliminato la prima parte e lasciato il meglio maestro d’Italia perché – come le dicevo – per un certo periodo, dal Piemonte alla Calabria, tutti dipingevano come il Perugino. Negli ultimi vent’anni del ‘400 e non ce n’era per nessuno. Era il numero uno.
Pietro di Cristofori Vannucci detto il Perugino, Adorazione dei Magi, 1475. Credits Haltadefinizione®
Ci saranno altre iniziative organizzate della Galleria sempre per celebrare Vannucci?
È previsto un docufilm, che uscirà nelle sale cinematografiche ad aprile, prodotto dalla Ballandi e diretto da Giovanni Piscaglia, con Marco Bocci come protagonista, che anche noi abbiamo contribuito a produrre. Poi facciamo un podcast con Chora Media, uno speciale su IlGiornale dell’Arte e tante altre iniziative per promuovere quest’anno speciale. A settembre sono previste altre due esposizioni più piccole. Diciamo che il 2023 sarà un anno tutto dedicato a Pietro Vannucci!
Se pensi al Perugino pensi a Perugia e all’Umbria, ma nei suoi quadri si riscontrano realmente questi luoghi?
Di norma si dice che i suoi paesaggi sono paesaggi del Trasimeno, ma è vero fino a un certo punto. Sono soprattutto d’invenzione, con degli specchi d’acqua che possono richiamare anche il lago. Anche le architetture sono molto di fantasia, però chiaramente un po’ di Umbria c’è senz’altro. Soprattutto c’è la cultura del suo tempo e del suo territorio e i costumi dell’epoca.
Sala 20, Ductus. Roberto Paci Dalò. Credits Marco Giugliarelli
Il museo ha altri progetti in programma?
Faremo, insieme a Umbria Jazz, la mostra per il cinquantenario della manifestazione e i soliti due concerti al giorno con loro; poi c’è la stagione con l’Umbria che spacca e ovviamente la nostra programmazione musicale ad agosto. Quest’anno però vogliamo concentrarci in particolare sulle attività espositive visto il grande lavoro di restyling che abbiamo realizzato.
«I miei clienti sono prevalentemente turisti inglesi, gente facoltosa che ha una seconda casa in Italia o che l’affitta per un breve periodo».
Alessio Berionni
Il giovane chef Alessio Berionni, classe 1991, ha le idee ben chiare su quello che vuole: «Non aprirò mai un ristorante». Partito da Gualdo Tadino dov’è nato, dopo varie esperienze in Inghilterra, è tornato in Italia per diventare un personal chef, uno chef privato che si affitta per un certo periodo di tempo o per un evento privato. «Penso a tutto io, dalla ricerca delle materie prime locali, alla pulizia dopo ogni pasto».
Ci spieghi come prima cosa, che cos’è un personal chef?
Si tratta di uno chef privato che lavora su chiamata e che è disponibile per tutto il periodo della vacanza del turista, sia italiano sia straniero. È un servizio a 360 gradi, dalla spesa alla pulizia finale della cucina e della tavola.
Chi sono i suoi clienti?
Prevalentemente sono turisti inglesi, gente abbastanza facoltosa che ha una seconda casa in Italia o che l’affitta per un breve periodo. Mi occupo della colazione, pranzo e cena; oppure semplicemente di preparare una cena per un particolare evento.
Ci può svelare qualche nome?
Da poco ho lavorato per l’attore Marco Filiberti, ma più che altro sono persone straniere del mondo della finanza e dell’imprenditoria.
Cosa racconta la sua cucina?
Racconta il mio viaggio dall’Italia – in particolare dall’Umbria e dalla Toscana – fino all’Inghilterra. Racconta la semplicità della cucina umbra rivisitata da incursioni inglesi.
Anatra e barbabietole
Qual è il piatto che la contraddistingue maggiormente?
Sicuramente il Pork belly (la pancia di maiale della cinta senese) preparato in stile britannico. È un piatto che faccio di frequente.
Si parla spesso di cucina moderna e tradizionale, quale predilige?
Il mio è uno stile contemporaneo, ma rimango comunque fedele alle tradizioni che ogni territorio trasmette.
Ha mai pensato di aprire un ristorante tutto suo?
Assolutamente no, perché vedo tanti colleghi che passano l’intera giornata nel ristorante, trasformandolo nella loro prima casa. Nel mio caso decido come organizzarmi e sono più libero. Quando ho lavorato nei ristoranti ero lì 18 ore al giorno e vedevo pochissimo la mia famiglia.
Come si descriverebbe?
Sono una persona molto pignola e precisa, mi piace portare a termine velocemente quello che faccio. Ovviamente ho una grande passione per la cucina.
È una passione che ha fin da piccolo?
Ha preso vita nella cucina di mia nonna, dove ogni domenica la guardavo impastare e chiudere i cappelletti con assoluta precisione e attenzione ai sapori semplici e perfetti. Mi sono diplomato all’istituto alberghiero di Assisi e ho iniziato a lavorare nei migliori ristoranti della mia zona. Mi piaceva molto anche giocare a basket, ma ho deciso di lasciarlo per andare in Inghilterra: lì ho iniziato a lavorare in un ristorante italiano, dove ho fatto la gavetta, poi sono approdato in un ristorante inglese, fino ad arrivare in quelli stellati, come Gringling Gibbons (3 stelle Michelin) e Stapleford Park – luxury country house (2 stelle Michelin). Ho lavorato al fianco di Alaine Ducasse e Gordon Ramsay. Nel 2019 con in mio bagaglio culturale, lavorativo e una famiglia sono tornato in Italia e mi sono messo in gioco come personal chef.
Piccione affumicato con frutti di bosco
Cosa consiglierebbe alle nuove generazioni del settore?
Prima cosa di viaggiare e di vivere la cucina con passione senza trascurare la vita privata: è quella che ci permette di essere veramente realizzati. Il successo non è farsi conoscere dai media o dalle varie guide gastronomiche, ma è sentirsi soddisfatti dopo aver creato qualcosa che veramente rispecchia quello che sei e che fai!
Quali sono i suoi progetti futuri?
Quando ho iniziato il mio viaggio culinario mi ero promesso di scoprire ogni ingrediente, penso di essere al 60% e quel 40 che manca è il carburante che mi manda avanti. Quando cucino è come se avessi una tela bianca che cerco di riempire nel miglior modo possibile. Cucinare per me è un modo per viaggiare, rilassarsi e sparire allo stesso tempo; in futuro vorrei andare avanti come personal chef e migliorare in ogni aspetto, sia culinario sia di vita privata.
«È stimolante lavorare in questa regione perché, oltre a essere un autentico paradiso di natura incontaminata, bellissimi borghi e cittadine affascinanti, è anche una regione ricca di storia, tradizioni e arte in tutte le sue espressioni».
Umbro di nascita, Armando Moriconi ha il suo atelier a Foligno, dove vive e lavora tra attrezzi del mestiere e calchi a cui dare forma e sostanza. È proprio nel suo studio, nel cuore dell’Umbria, che le sue sculture e installazioni prendono vita.
Alla scultura lei approda da giovanissimo, portavoce di uno stile scultoreo primitivo e istintuale, esperto conoscitore di tutte le tecniche nella lavorazione dei materiali. Ci racconta come nascono le sue opere?
Le mie opere nascono da visioni interiori; un po’ riflettendo come Henri Focillon: «la forma fintanto che non vive nella materia, è una visione dello spirito». Per me la scultura è pensiero, visione, segue poi il processo di lavorazione, ma è come respirare, c’è la gioia non la fatica. L’idea nella materia marmo vive di luce propria, respira, emana luce, comunica. All’inizio, circa nel 1995, dall’idea passavo direttamente alla lavorazione del blocco di marmo, tracciavo giusto qualche riferimento sulle facce del blocco avendo ben in mente la forma da cercare al suo interno. Si trattava di forme non articolate ma semplici, essenziali. Negli anni successivi, con l’evolversi della ricerca che mi portava a sviluppare forme organiche con più dinamismo plastico e tensioni, ho iniziato ad adottare un metodo diverso, andando dall’idea all’argilla e sviluppandola al meglio, per poi iniziare a trasferire il progetto sul blocco di marmo mediante la tecnica di cavar punti, con uno strumento particolare che ha degli snodi in ottone. Su un’estremità scorre un’asta appuntita in acciaio che tocca i punti indicandone le loro rispettive profondità; questo viene ripetutamente trasferito dal bozzetto al blocco in fase di lavorazione per evidenziare la quantità di marmo da rimuovere in quel determinato punto, avendo cura di non andare oltre altrimenti si compromette l’esito dell’intero lavoro. Per quanto riguarda la creazione delle mie opere in bronzo, si entra nel magico e affascinante spazio della fusione a cera persa: viverla e attuarla in prima persona in tutte le sue fasi è un’esperienza unica. Si apprendono nuovi modi di operare, quelli che potrebbero sembrare errori tecnici in molti casi si rivelano fantastiche sorprese che stimolano la ricerca artistica e aprono nuove possibilità espressive. Attraverso l’esperienza di fonditore e formatore ho appreso tante cose utili per sviluppare nuovi progetti, come quello attuale sull’archeologia del tempo. Mentre i lavori in ceramica si concretizzano in modo più diretto rispetto al marmo e bronzo: lavorare l’argilla per me è fondamentale, sia come studio per generare poi opere in marmo o bronzo, sia per creare opere finite con smalti oppure trattate con procedimenti di ossidoriduzione e in terzo fuoco.
Quanto è fondamentale per lei lavorare nel suo atelier? Da dove trae ispirazione?
Il mio atelier è immerso nella natura, da un lato ci sono gli alberi di ulivo, dei vitigni di Trebbiano, Grechetto e Merlot, un orto grande dove si alternano vari ortaggi di stagione che coltivo insieme a mio padre. È fondamentale per me lavorare in questo contesto, dove la natura favorisce la mia ispirazione; blocchi di marmo, di onice, quando la luce del sole li coglie i loro spigoli si illuminano così da far sembrare che al loro interno ci sia un’anima. Lavorare nel proprio studio ti fa accorgere anche di progetti incompiuti e lasciati a metà strada o in attesa di ripresa. Ogni volta che finisco una scultura non vedo l’ora di fotografarla, in questo contesto la fotografia diventa uno strumento divulgativo ed espressivo che contribuisce ad accrescere il mito dell’arte, Mi piace fotografare lo sviluppo dei miei lavori e metterli in relazione con l’ambiente, spesso in situazioni di luce suggestiva.
Quanto è stato importante per lei e per la sua arte lavorare in questa regione?
È stimolante lavorare in questa regione perché, oltre a essere un autentico paradiso di natura incontaminata, bellissimi borghi e cittadine affascinanti, è anche una regione ricca di storia, tradizioni e arte in tutte le sue espressioni. In Umbria si può contemplare Giotto, Perugino, Beato Angelico, Piero della Francesca, Dottori, Leoncillo, Burri, Afro e musei e siti archeologici di grande importanza. L’Umbria è anche la regione di San Francesco, in particolare la mia città, Foligno, fu a lui la più cara e vicina dopo quella di Assisi.
Solitamente concludiamo questa chiacchierata con una domanda: se ci lascia con una parola su cui meditare che per lei rappresenti il connubio tra la sua arte e l’Umbria.
La parola armonia, intesa come connessione tra la mia energia creativa e il territorio in cui vivo e lavoro, ma anche come equilibrio plastico nelle mie opere.
Ottico, astronomo e meccanico italiano, è stato uno dei primi ad aver sviluppato la tecnologia necessaria per produrre strumenti ottici scientifici e ad aver inventato la prima smerigliatrice e lucidatrice per lenti.
Grazie a Giuseppe Campani – nome sicuramente sconosciuto ai più – furono individuati e visti per la prima volta gli anelli di Saturno. Nato a Castel San Felice (vicino a Spoleto) nel 1635, in gioventù si trasferì a Roma, dove si distinse come orologiaio, meccanico e ottico. Inizialmente lavorò con i fratelli maggiori Matteo, parroco e cultore di meccanica, e Pier Tommaso, orologiaio del Vaticano. Negli oltre cinquant’anni di attività, Giuseppe produsse molti strumenti ottici che portarono grandi rivoluzioni.
Telescopio attribuito a Campani
Su tutti ci furono i microscopi composti e i cannocchiali dotati di lenti di eccellente fattura. I suoi cannocchiali infatti si rivelarono più lunghi e potenti di quelli costruiti da Christiaan Huygens (1629-1695) e da Eustachio Divini (1610-1685). Nel 1663-1664 inventò uno speciale oculare per cannocchiali, il cosiddetto oculare di Campani. Fra gli acquirenti dei suoi strumenti c’erano personalità di spicco come i cardinali Francesco Barberini e Flavio Chigi, il principe Agostino Chigi, il Granduca di Toscana Ferdinando II (1610-1670) e Jean-Baptiste Colbert (1619-1683). Alcuni suoi telescopi, utilizzati anche da Giovanni Domenico Cassini (1625-1712), furono acquistati da Luigi XIV per l’Osservatorio di Parigi, inaugurato nel 1667 e diretto dallo stesso Cassini.
Orologio notturno di Giuseppe Campani
Campani si dedicò anche alle osservazioni astronomiche, rilevando – forse prima di Cassini – la rotazione di Giove e la suddivisione degli anelli di Saturno. Inoltre, si deve a Giuseppe e ai suoi fratelli Matteo e Pier Tommaso anche l’invenzione della clessidra a mercurio e dell’orologio notturno. Secondo alcuni esperti infatti i fratelli Campani diedero vita al miglior orologio a pendolo notturno (detto della morte), silenzioso e illuminato grazie a una lampada a olio: il re di Spagna e il granduca di Toscana furono tra i loro committenti e la presentazione a papa Alessandro VII, gli procurò grande notorietà: alcuni degli orologi prodotti all’epoca sono ancora conservati in Vaticano, nel palazzo reale di Dresda e nel museo municipale di Ginevra.
Giuseppe Campani nel 1953 venne definito, dalla National Association of watch and clock collectors, il principale inventore europeo e i suoi strumenti sono oggi conservati, oltre che presso il Museo Galileo di Firenze, anche presso il Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi, l’Observatoire National di Parigi, il Medical Museum of the Armed Forces Institute of Pathology di Washington e in altri importanti centri.
L’attrice di Foligno promuove la regione negli Usa, dove vive dal 2012. Da poco ha recitato nell’ultimo film di Pupi Avati e con nostalgia racconta la sua amicizia con Ivana Trump.
Eleonora Pieroni
La potremmo definire la nostra italiana in America, anche se è ben lontana dal personaggio di Alberto Sordi nel film del 1967. Eleonora Pieroni infatti è un’attrice, modella e presentatrice nata a Foligno, da cui è scappata a 20 anni per rincorre il sogno americano – e ce l’ha fatta – e ora si trova dopo 10 anni a essere il volto dell’Umbria e dell’Italia negli USA, la Madrina internazionale della Quintana di Foligno e la Madrina dei Borghi più Belli d’Italia per la nostra regione. «Alla fine tutto torna, sapevo che prima o poi avrei amato e promosso l’Umbria. A 20 anni mi stava stretta, dovevo e volevo fare un mio percorso» ci dice durante una lunga chiacchierata via zoom dalla sua casa di New York. Nonostante le bizze dalla connessione – Perugia-New York non sono proprio vicine – abbiamo parlato di tante cose. Non solo di Umbria, ma anche di progetti passati e futuri e della grande amicizia che aveva con Ivana Trump. Ne parla con un filo di commozione: «Era la mia mamma americana. Rimarrà sempre nel mio cuore. Sogno di essere come Ivana un giorno, di riuscire a fare anche solo la metà delle cose che ha fatto lei».
Eleonora qual è il suo rapporto con l’Umbria, visto che dal 2012 vive negli Stati Uniti?
Ho lasciato l’Umbria e Foligno 10 anni fa perché in quel momento odiavo questi luoghi, non mi vergogno a dirlo. L’Umbria non mi permetteva di raggiungere i miei obiettivi, di arrivare dove volevo, in primis nel mondo della moda e dello spettacolo. Dicevo sempre: «L’Umbria è bellissima e si vive bene, ma è una regione per vecchi». Il mio sogno si poteva realizzare solo tra Roma e Milano, avevo paura di restare intrappolata qui. A 20 anni non apprezzavo la mia regione; ha iniziato a mancarmi quando sono andata a fare la modella a Miami: lì era tutto meraviglioso però sentivo la nostalgia delle mie origini. Devo dire che l’amore per l’Umbria è venuto crescendo.
Quindi è un amore nato con il tempo…
Sì. Oggi se chiudo gli occhi e mi immagino un posto dove stare serena e tranquilla sicuramente è un prato, dove guardare il cielo, nella campagna umbra. Per ritrovare in qualche modo questo, ogni giorno vado a fare una passeggiata a Central Park: ho proprio il bisogno di stare in mezzo al verde, agli alberi e alla natura. A casa mia a New York c’è Umbria dappertutto, ci sono dei paesaggi verdi, ho sempre una piantina di basilico o di aloe a portata in mano, e nella credenza tengo le lenticchie di Castelluccio, che considero l’elisir di lunga vita. E proprio in America è partito il desiderio di raccontare le mie origini, di raccontare la Quintana, di raccontare Foligno e l’Umbria.
Come si parte da Foligno alla volta degli Stati Uniti?
Si parte con tantissima paura, con tanto coraggio, adrenalina, un pizzico di pazzia e con una dose incredibile di ambizione. Ho avuto la visione di vedere me stessa proiettata nel mondo che volevo e questo mi ha spinto a partire. Inoltre, fondamentale è saper prendere il treno che passa in quel momento.
Il suo treno quand’è passato?
È passato una mattina mentre ero a scuola a Spoleto come maestra di sostegno: mi ero appena laureata e avevo accettato un incarico a tempo determinato, soprattutto per la gioia dei miei genitori. Era un periodo un po’ particolare della mia vita e dopo tanti anni in giro per l’Europa come modella, il lavoro a scuola era il coronamento dei miei anni di studio e poi, volevo vivere il mestiere dell’insegnante, che devo dire, è uno dei più belli al mondo. Era novembre e a metà mattina mi è arrivata una telefonata: «Pronto Eleonora ricordi quel meeting? Ti hanno scelta come modella per un progetto a Miami! Devi partire tra 20 giorni! Pronto Ele ci sei? Sei ancora lì?». Sono rimasta in silenzio per 3 minuti poi ho balbettato: «Wow grazie, ma ci devo pensare». Ero frastornata e mi confidai coi miei colleghi, in primis col maestro Francesco. È stato lui a dirmi che dovevo prendere al volo quel treno e che se non l‘avessi preso lui stesso mi avrebbe cacciato a calci nel sedere dalla porta. E così fu! Devo dire però che sono stati diversi i fattori che si sono allineati come sostiene la legge dell’attrazione dell’universo che è la mia filosofia di vita. Tutto è iniziato a 15 anni quando ho iniziato a sfilare per grandi marchi nazionali e internazionali tra cui: Ferragamo, Scervino, Roberto Cavalli, Cruciani, Brunello Cucinelli e Fendi che era prodotta dall’azienda Roscini a Spello. In contemporanea mi sono laureata all’Università in Scienze della Formazione con specialistica in psicologia – la mia famiglia, molto tradizionalista, ci teneva che mi laureassi – e ho iniziato a muovere i primi passi nel mondo dello spettacolo tra Roma e Milano. Non mi fermavo mai. Ho sempre perseguito con passione e grande determinazione i miei obiettivi: volevo sfilare e raggiungere la moda a livelli internazionali. Volevo che la mia esistenza avesse un significato al di là dei confini nazionali, o nella moda o nello spettacolo, ma questo volevo! Alla proposta di Miami ho saltato dalla gioia perché era il mio sogno, però allo stesso tempo avevo anche tanta paura: era la mia grande occasione quindi ho preso e sono partita, sono rimasta in Florida anche dopo che il progetto era terminato e da lì tante altre nuove conoscenze e opportunità sono arrivate, tra cui l’uomo della mia vita, Domenico.
Modella, attrice, presentatrice e anche cantante: qual è il lavoro che preferisce?
Quello che mi dà più soddisfazione è sicuramente il cinema, ma anche la conduzione. Sono due parti del mio lavoro che mi piacciono tantissimo. La modella fa parte di un periodo importante della mia vita che mi ha dato tante soddisfazioni… tutto è iniziato lì. Per quanto riguarda la musica, non mi definisco una cantante: ho inciso la canzone Volare perché rientra un po’ nell’immaginario dell’italiano in America, è stato un gioco, incentivata da un produttore italiano.
Ci racconti…
Nel 2016 a Miami e a New York iniziavo a essere riconosciuta agli eventi e ai party del jet set americano, era il momento in cui iniziavo a condurre i primi Festival, ero identificata come la bella italiana in America. Ricordo che a una festa di italo-americani iniziai a ballare il mambo emulando Sofia Loren e così da lì si è creato il cliché di Elleonora Lora the Italian beauty (gli americani non pronunciano bene il mio nome). L’idea di Volare è stata lanciata da un amico produttore musicale italiano e da mio marito Domenico Vacca, che è il mio mentore e una grande fucina di idee, poi è stata post prodotta da Ben DJ e distribuita da un’etichetta di Las Vegas.
Eleonora Pieroni durante la Quintana di Foligno
È Ambasciatrice d’arte Made in Italy e della cultura italiana negli Stati Uniti per aver portato una delegazione della Quintana a sfilare a New York in occasione del Columbus Day del 2017…
È un titolo che mi è stato conferito dal sindaco di New York, Eric Leroy Adams ed è collegato a quest’evento del 2017 e anche all’evento di promozione della regione Puglia, che è la mia seconda terra, avvenuto nel 2018. Non lo devo dire io, però credo che non ci siano altri personaggi che si sono così impegnati a promuovere l’Umbria all’estero; ho fatto e faccio una promozione volontaria voluta e ideata da me. Il mio obiettivo è quello di raccontare agli americani la mia terra, Foligno e la Quintana.
Ora è anche madrina dei Borghi più Belli d’Italia per la regione Umbria, lei che dai borghi in qualche modo è scappata. È una bella coincidenza…
È verissimo. La vita è un circolo e secondo la legge dell’universo se tu visualizzi delle cose alla fine le attiri. Io avevo visualizzato il mio ritorno in Umbria, me lo aveva predetto anche un veggente, perché, diciamoci la verità, ci si sta bene, ma volevo tornare dopo aver fatto un mio percorso. È il suggerimento che do a tutti i giovani. Comunque sono felicissima di questa nomina perché richiama un po’ la mia natura e stiamo lavorando a dei progetti molto interessanti dedicati anche al turismo di ritorno, ossia invitando gli italiani che vivono fuori Italia (più di 80 milioni) a riscoprire i borghi e le loro città natali ormai dimenticate. In pratica promuovere un turismo sostenibile e delle proprie radici.
Da occhio umbro ma che vive all’estero: c’è qualcosa che manca alla regione e ai suoi borghi per fare quel passo in più e diventare famosa come la Toscana?
In realtà c’è quasi tutto, vanno migliorate solo alcune cose, come ad esempio le infrastrutture, i collegamenti ferroviari e alcuni servizi. Inoltre, andrebbero più approfonditi il marketing e la comunicazione per il turismo. Qualcosa si sta muovendo – Paola Agabiti e la presidente Donatella Tesei stanno facendo un ottimo lavoro – è stato creato anche un nuovo logo, ma occorre una visione più internazionale per puntare sul turismo di lusso che cerca sempre posti esclusivi e di nicchia. Non solo per i clienti italiani, ma anche provenienti dall’estero, per questo già anni fa avevo puntato sull’Umbria poiché è come una piccola Svizzera con paesaggi bellissimi e una qualità della vita altissima, l’evento della Quintana a NY è stato in fondo un evento precursore del turismo delle radici. A proposito del turismo delle radici e del ritorno, ti anticipo che il 2024 sarà l’anno del turismo del ritorno.
Parliamo ora del suo ultimo film “Dante” di Pupi Avati dove interpreta una suora: le scene del suo personaggio sono state girate proprio a Foligno. È stato emozionante?
Assolutamente sì. È stata una grande gioia. Pensa al caso: sono scappata da Foligno e poi a distanza di anni la vita mi ha portato a girare un film proprio lì, a Palazzo Trinci. Sono la suora che accompagna Dante a incontrare Papa Bonifacio VIII. È stato un piccolo ruolo che però mi ha dato grande gioia, perché è una partecipazione in un film importante che rimarrà nella storia, diretto da un maestro del cinema come Pupi Avati e che racconta la Divina Commedia e Dante Alighieri, due capisaldi della letteratura italiana. È stata una grande esperienza, abbiamo girato molto in Umbria, il 90% delle scene sono ambientate tra Foligno, Bevagna, Perugia, Spoleto e tanti borghi dell’Umbria. Inoltre, è stato bello aver rincontrato il costume designer Andrea Sorrentino e Sergio Castellitto, che avevo premiato durante il Festival Italy on screen Today che ho condotto a New York qualche anno fa.
Ce l’ha un aneddoto su Pupi Avati da raccontare?
La prima volta che l’ho incontrato sono rimasta sbalordita perché nel suo ufficio ha appesa la bandiera americana e sulla scrivania tiene la fotografia della sua casa americana. Era destino. Poi durante un meeting mi disse: «Andiamo a girare in Umbria e mi dicono che tu sei la madrina dell’Umbria e che la rappresenti anche in America». Insomma, è stato molto carino ed è stato per me una fonte di saggezza da cui imparare.
Come si descriverebbe in tre parole?
Sensibile, generosa e solare: amo la vita in tutte le sue sfumature!
Ha dei progetti in cantiere?
Ne ho diversi, sia nel cinema sia per quanto riguarda il mio ruolo di Ambasciatrice dei Borghi italiani. Come dicevo prima ci sono in campo progetti culturali che puntano sul turismo di ritorno e sulla promozione dei Borghi più belli d’Italia e li sto seguendo per quanto riguarda i due mondi: Italia e America. A gennaio 2023 a New York riceverò una nomina molto importante dalla CIM-Confederazione italiani nel mondo.
La Quintana a New York
Ha ancora il sogno nel cassetto di aprire una masseria?
Sì, ce l’ho ancora. Vedo che si è informata bene su di me! (ride). Per ora ho comprato una masseria in Puglia e ho iniziato a fare dei lavori di ristrutturazione, a Trani invece stiamo realizzando un hotel di lusso. Sto mettendo in atto il turismo di ritorno anche nella mia vita! Vorrei anche un agriturismo in Umbria dove fare il vino, l’olio, il miele e i prodotti naturali che a me piacciono tanto.
Non posso non chiederle di Ivana Trump: com’è nata la vostra amicizia?
La incontrai per la prima volta a Saint Tropez. Poi la vera conoscenza avvenne durante una cena a Miami alla quale andai con mio marito Domenico Vacca. Domenico è stato il suo stilista personale per anni, ed erano legati da una grande amicizia; pensa che tutte le foto che si trovano di Ivana sul web sono quelle in cui indossa i tailleur coloratissimi di Domenico. Teneva molto a farmi conoscere Ivana perché voleva in qualche modo la sua approvazione. Da quel momento abbiamo iniziato a frequentarci.
Cosa ha rappresentato per lei?
Per me Ivana è stata veramente tanto importante. Era una fonte d’ispirazione e di grande motivazione. La guardavo e pensavo: «Voglio essere come lei». È stata la mia mamma americana nei momenti di solitudine e quando ancora non conoscevo nessuno a New York, lei c’era sempre. Non era solo una donna bellissima, ma anche una donna rigorosa, intelligente, una businesswoman, una campionessa di sci; ha scritto tre libri, aveva una sua linea di moda e degli alberghi col marito Donald Trump. Una vera icona degli anni 80.
Cosa facevate insieme?
Pranzavamo insieme almeno una volta alla settimana da Cipriani, il ristorante vicino a Central Park. Ci incontravamo a casa sua, facevamo una passeggiata e andavamo a pranzo insieme e poi la riaccompagnavo. Questa era la nostra routine. Stavamo ore e ore a parlare, io spesso prendevo appunti, ho un diario dove conservo tutti i suoi consigli e le sue frasi. Quando penso a lei mi si scatena un turbinio di emozioni, giusto qualche giorno fa mentre sistemavo la casa ho ritrovato delle foto e, sotto le note alla radio di Franck Sinatra, sono scoppiata in un pianto ininterrotto, mi fa tanto male pensare che non ci sia più, ha creato in me una rottura incredibile, mi aveva promesso tante cose, avrebbe dovuto essere presente a tanti nostri momenti belli. Ivana rimarrà sempre nel mio cuore, e se lascerò un segno nella storia di New York sarà anche grazie a lei.
«È troppo naturale in ciascuno l’amore verso la Patria. Questo amore sì giusto, e sì naturale deve spronare ogni Cittadino a soccorrere la madre Patria in tutte le sue indigenze, a difenderla nei suoi pericoli, e nei suoi diritti; a procurarne i vantaggi, e gli avanzamenti, e finalmente a esaltarla, abbellirla, e a esporre al pubblico ogni suo pregio, e ornamento». (Fabio Alberti).
Giuseppe Corradi
Nasce a Bevagna il 21 ottobre 1830, da Innocenzo Corradi che in quel periodo esercitava la chirurgia come condotto, proprio in questa città. Il padre Innocenzo vinse la condotta chirurgica di Bevagna nel 1829 e vi si stabilisce con la moglie Vincenza Moreschini, abitando in Palazzo Ciccoli (ora Nalli- Fraolini).
Dopo aver compiuto gli studi di filosofia a Jesi e frequentato le scuole degli Scopoli a Firenze, studiò Medicina nell’Università di Pisa e all’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Manifestò fin da principio la sua passione per la Chirurgia, seguendo l’esempio del padre. Nel 1854 entrò nella Clinica Chirurgica di Firenze diretta da C. Burci che lo scelse quale allievo prediletto e gli affidò l’insegnamento di Medicina Operatoria e Patologia Chirurgica. In questi anni perfezionò le proprie capacità tecniche e si dedicò in particolare allo studio sugli organi genito urinari. Nel 1869 a Parigi l’Acadèmie Imperiale de Mèdicine gli attribuì l’ambito premio d’Argenteuil per un lavoro sui restringimenti d’uretra.
Nel 1870 vinse il Primo Premio al Concorso Riberi indetto dalla R.Accademia di Medicina di Torino, presentando un trattato sulle malattie degli organi genito urinari. Nell’ottobre del 870 fu chiamato a fondare e a dirigere a Roma la I Clinica Chirurgica di cui gli fu riconsegnata la Cattedra di professore ordinario nel 1873. Contemporaneamente aveva vinto anche il concorso per la cattedra di Firenze e, con una decisione mediata anche da alcune sventure familiari, volle tornare alla Clinica dove aveva svolto le prime tappe della sua carriera. Prima di tornare a Firenze, in perfetto accordo con lo spirito che animò tutta la sua opera di chirurgo moderno, progressista e innovatore, ma anche di attento osservatore delle altrui esperienze, si recò a Vienna e a Berlino per frequentare le cliniche dirette da Billroth e da Langenbeck. Nel 1874, dopo tanti anni di esperienza in chirurgia urologica, pubblicò il primo volume del Trattato sule malattie degli organi orinari. Nel 1884 compare sulla rivista medica Lo sperimentale la sua dotta monografia Sui progressi della Litotripsia. Nel 1882 fu uno dei 7 fondatori della Società Italiana di Chirurgia. L’opera scientifica del Corradi fu attiva e gloriosa perché si devono a lui lavori pregevolissimi e la modifica e realizzazione di nuovi strumenti atti a migliorare continuamente la tecnica chirurgica. Scrisse molto sui restringimenti uretrali e fece costruire un uretrotomo dilatatore con pregi incontrastabili e molteplici; a lui si deve la cura degli angiomi con la compressione e la galvanocaustica; fu l’iniziatore dell’asepsi facendo costruire delle cassette di rame, dentro cui depositava il necessario per le medicazioni, le quali messe in stufe apposite, le portava ad alta temperatura; propugnò quale metodo di cura dei calcoli, la litotrisia rapida facendo costruire apparecchi appositi, fra i quali una comune siringa metallica a becco, che poteva diventare eretta, ben fenestrata, da poter permettere il passaggio anche di grossi calcoli. Dopo la perdita della moglie avvenuta nel 1887, ridusse le proprie attività, finché nel 1893 affidò al suo allievo Colzi la gestione dell’Istituto, lasciando definitivamente la Direzione nel 1897 e divenendo professore emerito. Si spense a Firenze il 9 maggio 1907 dopo anni di gravi infermità. Nel 1989, a Bevagna, fu fondata su iniziativa del prof. Andrea Trenti e del dott. Leonello Petasecca Donati, chirurgo bevanate, l’associazione Giuseppe Corradi che di anno in anno ha conferito premi a medici e scienziati di indubbio valore, creando un appuntamento importante sul piano nazionale e internazionale. Nel 1990 l’Amministrazione di Bevagna fece apporre nella casa natale del Corradi una lapide con su scritto: A Giuseppe Corradi, insigne scienziato, fondatore della Società Italina di Chirurgia, primo clinico chirurgo di Roma Italiana, a eterno ricordo, i cittadini posero. Bevagna 8 maggio 1990.
Domenico Bertini
Nato a Bevagna il 24 febbraio 1924, da Leonardo e Domenica. Laureatosi a Perugia all’inizio degli anni Cinquanta, entrò a far parte dell’Istituto di Patologia Chirurgica di quell’Università, diretto da Luigi Tonelli che seguì poi a Pisa e a Firenze. Sotto la guida del maestro fu rapida la sua formazione culturale e professionale, dotato di grande capacità lavorativa e di una propensione alla chirurgia, tanto da rendere semplici gli interventi più complessi. All’inizio degli anni Settanta, quando ancora erano rari in Itala gli interventi di chirurgia vascolare arteriosa ricostruttiva e si erano appena formate le scuole di chirurgia vascolare milanese, con Edmondo Malan, e romana, con Paride Stefanini, Luigi Tonelli volle che anche Firenze avesse un centro universitario dedicato a tale specialità. Iniziò così l’attività di Domenico Bertini come chirurgo vascolare, dapprima accanto al maestro, poi autonomamente con sempre maggior fervore ed entusiasmo. Nel 1971 gli venne conferito l’incarico dell’insegnamento di Chirurgia vascolare il 1° novembre 1975 fu nominato professore straordinario e poi ordinario di questa disciplina nell’Ateneo fiorentino, posizione che mantenne fino al suo collocamento fuori ruolo nel 1996. Nel 1980 fondò anche la Scuola di specializzazione in Chirurgia vascolare. A partire da quegli anni ebbero inizio gli interventi di chirurgia dei tronchi sopraortici e furono messe a punto le tecniche di monitoraggio dell’attività cerebrale durante i clampaggi mediante lo studio dei potenziali evocati. Tale approccio rappresentò una razionale metodica per una chirurgia sempre più scevra da complicanze. Altrettanto importante fu la semplificazione degli interventi sull’aorta addominale, i cui tempi operatori sotto le sue mani esperte e sicure si accorciarono significativamente. Raggiunse un ruolo di primissimo piano a livello toscano e nazionale grazie agli ottimi risultati dell’impressionante numero di interventi che lui e la sua scuola hanno eseguito: più di 7000 disostruzioni carotidee e oltre 6000 rivascolarizzazioni aortoiliache, per patologia aneurismatica e obliterante. Morto a Firenze il 4 giugno 1997 e sepolto nella sua Bevagna.
I modi gentili e l’atteggiamento umile esaltavano ancor di più le sue grandi doti umane e chirurgiche. Pur vivendo a Firenze le visite e le soste nella sua Bevagna erano frequenti. Aveva un ambulatorio in cui, insieme alla moglie, pediatra, ha visitato quasi tutti i bevenati. Molti bevanati si recavano, invece, a Firenze accompagnati dal tassista Brandi Luigi.
Nel 1989 è stato premiato dall’ Associazione Giuseppe Corradi appena sorta a Bevagna e che negli anni ha conferito premi a medici e scienziati di indubbio valore.
L’Università di Firenze ha instituito, per commemorare la sua figura, il Premio di laurea Prof. Domenico Bertini attribuito alla miglior tesi di specializzazione in Chirurgia vascolare. L’Amministrazione Comunale di Bevagna gli ha intitolato una via del paese.
Riferimenti bibliografici
Andrea Trenti, Leonello Petasecca Donati. Giuseppe Corradi. Il clinico chirurgo di Roma
Giovanni Spampatti. Giuseppe Corradi ed il suo contributo alla chirurgia delle vie urinarie
Carlo Pratesi. Domenico Bertini. La razionalizzazione della Chirurgia vascolare