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«Vivere a Deruta significa vivere in Umbria e a essere altrettanto importante per me è l’eredità artistica che ci hanno lasciato Perugino, Alberto Burri e Leoncillo Leonardi».

Nato a Terni e cresciuto a Deruta, Attilio Quintili si forma come artigiano ceramista, ma fin da subito orienta la sua ricerca artistica verso un linguaggio contemporaneo. Ciò che lo affascina è la materia e le reazioni che si possono generare dall’incontro con altre forze; in particolare, dal 2012 l’artista inizia ad applicare cariche esplosive nel blocco di argilla, rileggendo in maniera fortemente personale la ricerca dell’informale verso nuovi modi di trattare la materia. Anche se studia la precisa collocazione delle cariche per orientarne l’esplosione, l’argilla si squarcia e si plasma con risultati imprevedibili: il risultato finale è una scultura complessa che si presenta come un’analisi allo stesso tempo sul pieno e sul vuoto, sul frammento e l’assenza, spingendo la conversazione su un piano più concettuale.

 

 

Lei è umbro di nascita. Si forma a Deruta come artigiano e ceramista e poi orienta la sua ricerca artistica verso il linguaggio contemporaneo. Quanto è stata importante per la sua formazione la città di Deruta, da secoli impregnata di arte?

Sono nato a Terni, mi sono trasferito pochi anni dopo a Deruta, ho imparato l’arte della ceramica nella fabbrica di mia madre, che proviene da una famiglia derutese di lunga tradizione ceramica. Mi sono specializzato nella tecnica del Lustro che ho lasciato – anche se non definitivamente – nel 2012 per intraprendere un personale percorso artistico. Per rispondere alla domanda: Deruta con la sua storia e la sua tradizione mi hanno influenzato molto. Vivere qui però significa anche vivere in Umbria e a essere altrettanto importante per me è l’eredità artistica che ci hanno lasciato Perugino, Alberto Burri e Leoncillo Leonardi. Credo comunque che nel mio percorso artistico l’influenza maggiore sia arrivata dalla grande spiritualità che l’Umbria e suoi santi emanano.

Le sue opere ceramiche spesso si aprono dall’interno: è la materia che accetta lo squarcio. Fontana spesso dichiarava “la mia arte è portata sulla filosofia del niente, che non è un niente di distruzione, ma un niente di costruzione”. Anche lei, tramite la materia “costruisce” nuovi possibili spazi? Ci racconta come “costruisce” le sue opere?

Le mie sculture prendono forma attraverso un’esplosione: è la deflagrazione a disegnare la forma. In nessun modo vengono toccate dalle mie mani, il risultato è una forma che la mente non può nemmeno immaginare. Ogni scultura è una nascita – o meglio una rinascita – dando vita a un nuovo ciclo vitale. L’apporto e la volontà dell’artista, e prima ancora dell’uomo, è insignificante nel mio lavoro. La forma che si genera nelle sculture rimanda direttamente a una nuova vita senza alcun legame apparente con la precedente. L’assenza di una forma riconosciuta predispone il fruitore ad abbandonare le certezze apparenti della mente in favore delle apparenti incertezze di altri livelli di percezione, che possono coincidere con il niente che però, per rispondere alla sua domanda, non prevede né costruzione né distruzione.

 

 

Attraverso la lavorazione della ceramica e attraverso l’utilizzo del lustro, nel tempo le sue opere sono state realizzate con tecniche non ceramiche, perfettamente espressive del suo pensiero. Inoltre, nelle sue opere è forte il connubio tra spiritualità e materia. Da dove trae ispirazione per la loro realizzazione?

La ceramica è una tecnica che utilizzo perché funzionale al mio percorso artistico. Trovo la ceramica, con le sue implicazioni, perfettamente significativa a esprimere la relazione, che è l’obiettivo della mia ricerca, fra spiritualità e materia. Il percorso di conoscenza, in vita, è una costante mediazione fra gli opposti e di conseguenza un lavoro costante fra la spiritualizzazione della materia e la materializzazione dello spirito.

Vorrei concludere chiedendole di lasciarci con una parola su cui meditare, che per lei rappresenti il connubio tra la sua arte e l’Umbria.

Il silenzio.

Deruta, insieme a Gualdo Tadino, Gubbio e Orvieto costituisce uno dei quattro centri di antica tradizione ceramica.

A Deruta le prime attestazioni della produzione ceramica risalgono alla seconda metà del Duecento; infatti, in un documento del 1277 si richiede la fornitura di mattoni da eseguire ad modum mattorum Dirupta, cioè secondo le misure e la qualità di Deruta, mentre è del 1296 la testimonianza di una zona – oggi identificata tra Perugia e Todi – denominata terra vasaria, che denota in modo inequivocabile l’esistenza di una produzione di laterizi e terrecotte.

 

Dal bruno a blu cobalto

Nel Trecento a Deruta troviamo attestate organizzazioni di tipo cooperativistico con produzioni di oggetti d’uso quali catini, scodelle, boccali e piatti, ma ancora dipinti nei soli colori di bruno e verde ramina su uno smalto di fondo biancastro. I motivi decorativi sono ancora molto semplici: elementi geometrici-floreali e, talvolta, raffigurazioni zoologiche e antropomorfe.
L’introduzione del blu, del giallo e dell’arancio coincide con il periodo di massimo splendore della produzione derutese che si attesta tra la fine del Quattrocento e la metà del Cinquecento. Nelle produzioni di questo periodo troviamo il blu cobalto intenso e diluito che si alterna in genere al giallo su uno smalto impreziosito da sovrapposizioni. I soggetti iconografici diventano molto più elaborati e raffinati e si ispirano spesso alle opere pittoriche dell’artista perugino Bernardino di Betto detto il Pinturicchio.
Anche le piastrelle raggiungono grande raffinatezza. Ne sono esempi notevolissimi il magnifico pavimento della Cappella Baglioni nella Chiesa di Santa Maria Maggiore di Spello o l’antico pavimento della Chiesa di San Francesco di Deruta, i cui frammenti con le loro splendide sfumature del blu e i raffinatissimi disegni catturano lo sguardo del visitatore che lo osserva dalle teche del Museo Regionale della Ceramica.
Accanto alla produzione di vasellame da tavola e oggetti d’uso comune, una consistente fetta di artigiani si dedica in questo periodo alla produzione di ceramica ornamentale come piatti da pompa o coppe amatorie. Il blu utilizzato dai ceramisti derutesi era ricavato dall’ossido di cobalto e veniva prodotto direttamente nelle botteghe che ne facevano uso.

Il colore della sfera religiosa e femminile

Il blu in tutte le sue sfumature, molto usato nel periodo del massimo splendore della ceramica di Deruta, diviene quasi colore obbligato per opere che rappresentano santi e madonne, che dovevano essere installate in un contesto religioso o che rappresentavano la sfera femminile. Il blu, sinonimo di cielo, acqua, serenità e pace, infatti, è da sempre associato alla sfera religiosa ed è presente nelle iconografie di tutto il mondo; per i primi cristiani era sinonimo di Dio Padre, nel corso del tempo è andato rappresentando sempre di più la Vergine Maria, simbolo della femminilità e delle qualità connesse alle donne quali la compassione, la devozione, la fedeltà, la maternità. Le decorazioni in blu su ritratti di donna erano omaggio alla bellezza e alle qualità finora citate. Non a caso nei numerosissimi ex voto che troviamo nel Santuario della Madonna dei Bagni (o del Bagno), il blu è il colore predominante.

 

Verso la monocromia turchina

Nel Seicento inizia la decadenza qualitativa e quantitativa della ceramica derutese e il blu diventa prevalentemente monocromia turchina con soggetti floreali, tralci e uccelli ricchi e articolati che tendono a ricoprire in fitte trame tutto il manufatto, probabilmente su imitazione della ceramica olandese che si ispirava a sua volta alla raffinatezza della porcellana cinese e alle ceramiche medio-orientali di Persia e Turchia. Nel secolo seguente raffinate decorazioni in bianco e blu continuano a ornare tavole di nobili e ricchi borghesi della regione.

Ispirazione per artigiani e artisti: il Museo regionale della Ceramica di Deruta

È il più antico museo italiano dedicato alla ceramica; è stato fondato nel 1898 per iniziativa del notaio derutese Francesco Briganti con l’intento di fare un museo «da servire agli artisti derutesi, alla storia dell’arte ed al decoro della patria illustre delle majoliche» tant’è che nel primo appellativo, Museo artistico per lavoranti in maiolica, è contenuta la missione del museo, ancora estremamente attuale: luogo di conservazione della memoria storica, di cultura, ma anche modello e fonte di grande ispirazione per artigiani, artisti e designer.
Il museo, ospitato nel trecentesco complesso conventuale San Francesco, conserva più di seimila opere, dalla ceramica arcaica fino ai giorni nostri. In più, all’interno di una torre metallica di quattro piani, è organizzato un deposito di opere ceramiche di vari periodi provenienti anche da collezioni private e sempre aperto al pubblico. Una curiosità: nel deposito sono conservati esempi di preziosi packaging in ceramica realizzati per una nota industria dolciaria perugina.
Molte opere colpiscono il visitatore per la raffinatezza del decoro, la minuziosità del dettaglio, l’uso del colore come esempio della più altra espressione del bello nella ceramica artistica.

 

Un unicum di stile: il pavimento della Chiesa di San Francesco

Rinvenuto nel 1902 durante i lavori di restauro della chiesa, è sicuramente una delle opere più significative della collezione museale. È composto da duecento mattonelle di forme diverse, quadrate e rettangolari a componimento di una cornice, ma quelle che destano più stupore sono a forma di stella a otto punte e a croce obliqua, che si intersecano perfettamente. I motivi decorativi riportati sono assai diversi fra loro, figure sacre e profane nelle mattonelle a stella, arabeschi e girali in quelle a croce. Questa straordinaria opera si attribuisce a Nicola Francioli detto il Co, figlio di una delle famiglie più antiche di vasari derutesi; il ritrovamento di una mattonella con la data 1524 fa presumere l’anno di realizzazione del manufatto, uno dei momenti più fiorenti per attività produttiva e artistica derutese. L’utilizzo dei colori, la varietà dei soggetti raffigurati e dei paesaggi collinari rappresentati, fanno pensare ad una chiara ispirazione alle opere del Perugino. La forma delle mattonelle invece, unica e inedita per l’occidente cristiano, è una chiara evocazione dello stile moresco penetrato nella cultura derutese della ceramica. Infatti molte pavimentazioni islamiche dell’epoca o più antiche riportano forme simili. Da notare anche la somiglianza con gli azulejos portoghesi e spagnoli, sottili lastre di argilla smaltata e decorata, prodotti dai vasari della penisola iberica sotto l’influenza musulmana, nelle quali il blu costituisce la nota predominante.

 


FONTI:

Museo Regionale della Ceramica di Deruta

BUSTI-F. COCCHI, Museo regionale della ceramica di Deruta : ceramiche policrome, a lustro e terrecotte di Deruta dei secoli XV e XVI, Perugia : Electa-Editori umbri associati,1999

www.museoceramicadideruta.it

www.ceramicamadeinumbria.it

www.madonnadelbagno.it

www.scuoladarteceramica.com