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Sabato e domenica il gioiello – che secondo la leggenda apparteneva a Maria – sarà esposto al pubblico, con un evento eccezionale per sancire il legame con l’opera del Perugino.

Una calata straordinaria del Sant’Anello per omaggiare il ritorno a Perugia dello Sposalizio della Vergine. L’opera – portata via dai francesi nel 1797 – era stata dipinta dal Perugino agli inizi del ‘500 proprio per la cappella del Sant’Anello del Duomo di Perugia. Questo ritorno tanto atteso è il pezzo forte della mostra Il meglio maestro d’Italia. Perugino nel suo tempo che sarà inaugurata sabato 4 marzo, presso la Galleria Nazionale dell’Umbria.

Il Santo Anello

E proprio lo stesso giorno, alle ore 10.30, avverrà all’interno della Cattedrale una calata straordinaria dell’anello (tramite un meccanismo a forma di nuvola) che, secondo una leggenda, è il dono che Giuseppe fece a Maria per le loro nozze.
«L’anello e il reliquiario rimarranno esposti per tutta la giornata di sabato. In via del tutto eccezionale, il solo reliquiario, sarà poi esposto nelle sale del Museo del Capitolo» spiega l’architetto Alessandro Polidori, direttore dell’Ufficio diocesano per i Beni culturali ecclesiastici.
Si tratta – come detto – di un’esposizione straordinaria: infatti l’anello viene mostrato al pubblico solo in due occasioni ufficiali: il 29\30 luglio, data del suo trasferimento dal comune alla cattedrale (1488) e il 12 settembre per la festa del SS.mo nome di Maria.
«Sempre dal 4 marzo fino all’8 gennaio 2024, all’interno del Museo del Capitolo della Cattedrale di San Lorenzo, nella sala del Dottorato, avverrà la proiezione di un filmato di otto minuti realizzato in collaborazione con il giornalista Roberto Fontolan e con la voce narrante di Alessandro Haber. Il documentario racconta la vicenda e la storia del Sant’Anello: il suo arrivo a Perugia, la committenza dello Sposalizio della Vergine a Perugino e tanto altro» prosegue Polidori.

Lo Sposalizio della Vergine, olio su tavola, Perugino

Tra storia e leggenda

Quattordici chiavi servono per aprire le casseforti che contengono il Sant’Anello, che si trova all’interno della Cattedrale di San Lorenzo di Perugia. Un tempo erano conservate da istituzioni civili e religiose: il Comune, il Collegio della Mercanzia, il Collegio del Cambio; i maggiori conventi della città: San Francesco al Prato, San Domenico, Santa Maria Nuova, Sant’Agostino; il Vescovo e i Canonici della Cattedrale. Oggi sono nelle mani del Comune (8), della Mercanzia (1), del Cambio (1) e del Capitolo della Cattedrale (4) e l’apertura si svolge alla presenza di un rappresentante del Comune e del Capitolo, redigendo un verbale.
Il potere temporale e quello spirituale che si uniscono per un rituale condiviso e celebrare una tradizione più che una reliquia. L’anello di pietra rara – l’analisi gemmologica del 2004 l’ha determinata come calcedonio, varietà microcristallina del quarzo – viene attribuito, senza reale fondamento, all’anello di nozze tra Maria e Giuseppe. Le ragioni che ne hanno fatto il simbolo del matrimonio, sono oscure. Questo lo rende ugualmente un monile pieno di fascino, anche se la sua storia inizia con un furto e la sua datazione risale probabilmente, al primo secolo d. C.
Di certo si sa che l’anello, fino alla seconda metà del 1400, era custodito nella chiesa dei francescani di Chiusi, dalla quale fu prelevato da un certo frate Vinterio da Magonza, portato a Perugia nel 1473 e donato al Magistrato della città, Francesco Montesperelli, che lo fece conservare nella Cappella dei Decemviri al Palazzo dei Priori. L’intervento di Papa Sisto IV stabilì la sede a Perugia e mise fine ai litigi tra le due città. Nel 1488 il Sant’Anello venne poi trasferito nella Cattedrale di San Lorenzo e riposto in due grandi casseforti: la prima protezione è una maglia di ferro realizzata dai fabbri di Montemelino, la seconda è un massiccio baule in legno. Per aprire entrambi servono appunto le 14 chiavi.

 

Rinviata la manifestazione: “Passignano sul Trasimeno – Un Natale spettacolare tra Rocca e Leggenda”.

L’evento di Passignano sul Trasimeno è stato rinviato a data da destinarsi. La leggenda di Agilla e Trasimeno e della loro sfortunata e triste storia, raccontata attraverso la proiezione di un ologramma, non sarà visibile – almeno per ora – lungo la riva del lago. Il pubblico avrebbe dovuto assistere al racconto proiettato su un particolare schermo, di 9 metri di altezza per 18 di ampiezza, formato dalla nebulizzazione delle acque del lago. «Alla luce delle linee guida uscite con il Decreto Festività, che pongono numerose restrizioni e anche veri e propri divieti nei confronti di eventi e feste che prevedono aggregazione, ci troviamo tutti assieme, Amministrazione e Organizzatori, a dover prendere una decisione che abbiamo provato a non prendere fino all’ultimo: dobbiamo annullare l’evento previsto a Passignano. Una decisione sofferta che ci riempie di delusione, ma questo patrimonio di esperienza, collaborazione e laboriosità al servizio della comunità di Passignano non andrà dispersa. Lo spettacolo Tra Rocca e Leggenda potrà essere ripreso in qualsiasi momento appena la situazione lo permetterà, e insieme potremo progettare, ideare e creare eventi per il borgo e la sua comunità» ha spiegato il Comune di Passignano che, insieme alla Regione Umbria, alla Provincia di Perugia e al Gal – Trasimeno Orvietano promuovono l’evento ora rimandato.

Tutto questo e molto altro, prenderà vita nei prossimi mesi – forse in primavera – in base alle future direttive Covid. 

Gli aggiornamenti quotidiani e l’eventuale nuova data potranno essere seguiti sulle pagine Facebook e Instagram Natale a Passignano e nel sito internet www.nataleapassignano.it

 

C’è chi ricorda una storia, avvenuta qualche anno fa nei boschi di Villamagna, nei pressi della cittadina di Scheggia. Oddo Brunamonti, un abitante del borgo, raccontò di aver avuto un incontro inverosimile con una strana creatura, mai vista prima.

Era maggio del 1997 quando Oddo andò nel bosco a fare un po’ di legna e, mentre lavorava, si accorse che tra gli alberi vicini c’era una strana ombra appartenente a qualcuno che si nascondeva dietro un cespuglio. Oddo pensava fosse un animale e un po’ preoccupato dalle dimensioni della sagoma avvistata, salì in auto, accese il motore e a quel punto, mentre faceva manovra con la sua vettura, saltò fuori dal cespuglio uno strano essere: un bipede robusto e possente, alto circa un metro e ottanta, con le forti braccia protese verso l’alto, con grosse fauci spalancate, il corpo ricoperto da peli scuri, che emise un forte e spaventevole urlo acuto.
Oddo scappò velocemente con la propria autovettura e dopo essere arrivato a casa, trafelato e impaurito per l’incontro, confidò l’accaduto ai propri familiari e poi, da loro consigliato, andò dai Carabinieri a raccontare che cosa gli fosse successo.
In conseguenza della sua testimonianza, ci furono immediate ricerche e sopralluoghi, durante i quali furono trovati dei ciuffi di peli scuri impigliati nei rami degli alberi e una grossa e profonda impronta, in cui si distinguevano tre dita nella parte anteriore e uno sperone in quella posteriore. Si presunse, dalla grandezza e dall’avvallamento dell’orma, che l’animale potesse pesare 180 chilogrammi circa. Un vero mistero di un essere che solo a descriverlo risulta inquietante, figuriamoci per il povero Oddo, che improvvisamente se lo era trovato davanti, a brevissima distanza e subendo un’aggressione.

Sulle tracce della strana creatura

Qualche tempo prima di questo avvistamento, sempre in zona, si dice che si era visto uno strano animale aggirarsi nei pressi di una stalla, che poi si scontrò violentemente con il cane da pastore messo a guardia del ricovero, che rimase ucciso nella lotta per difendere la proprietà dalla mostruosa creatura. Il cane maremmano fu trovato morto, con la testa frantumata.
Così come, sempre in quel periodo e nella stessa zona, una quarantina di pecore furono rinvenute uccise, con un dettaglio anomalo sulla loro morte: avevano il cranio fracassato. I predatori abituali degli ovini, che siano i lupi o l’orso, non straziano in questo modo le loro vittime.
Lo strano mostro o presunto tale, sembra che fu intravisto da lontano anche da un cacciatore e da un motociclista. I due certamente non ebbero un raccapricciante incontro a breve distanza come quello del Brunamonti ma scorsero nel bosco una sagoma inusuale, probabilmente del misterioso animale.
In tutta questa vicenda, pare che ci furono delle pressioni su Oddo da parte di alcuni personaggi equivoci, per tacitarlo e anzi per fargli affermare che si era sbagliato nel riferire ciò che aveva visto. Avrebbe dovuto dire che quello che aveva visto era un orso e null’altro. Ma Brunamonti rimase fermo nei suoi convincimenti.
Nel contempo durante le notti di quel periodo, da numerose persone erano state udite delle strane urla provenienti dai boschi del comprensorio scheggino, e tra la gente del posto si iniziava a respirare un’aria di grande tensione.
Alle investigazioni sull’anomala creatura parteciparono forze dell’ordine, militari, esperti scientifici e veterinari, tutti coadiuvati nelle ricerche da un aeromobile. Un giorno, un pastore vide trasportare con un elicottero una grande cassa, che fu portata via dopo averla caricata sul velivolo nei pressi di una casa abbandonata che si trovava ai margini di un esteso bosco, poco lontano dalla zona oggetto delle minuziose ricerche. Chissà che cosa conteneva quella voluminosa cassa
Da quel momento, nella zona non accadrà più nulla di strano e tutto il personale militare e civile impiegato nelle ricerche abbandonerà la zona senza dare spiegazioni. Da allora non ci sarebbero più state notizie di avvistamenti di quello strano essere mostruoso, sul quale, ancora oggi si fanno svariate supposizioni della sua provenienza e origine: infatti si ipotizza che potesse essere un alieno o un esperimento di laboratorio o un mutante. Di certo Oddo Brunamonti, scomparso qualche tempo fa, quel giorno nel bosco prese un grande spavento e per questa storia fu anche deriso e screditato, forse per celare un segreto.
A distanza di tempo, qualcuno dei suoi denigratori ha iniziato a ricredersi… La comprova, al prossimo avvistamento!

Tra la Valdichiana – che fu denominata il granaio dell’antica Roma, dove si snodava il navigabile fiume Clanis (oggi sostituto in parte dal Canale Maestro della Chiana) che veniva usato da Etruschi e Romani per trasportare le derrate alimentari fino alla Città Eterna – e l’altrettanto prezioso e ricco lago Trasimeno, si racconta di una terribile creatura leggendaria: la Marroca.

In questi territori, tra Umbria e Toscana, si narra di un animale ripugnante, un meticcio tra una serpe e una lumaca, dotato di lunghi tentacoli, che vive abitualmente nell’acqua stagnante. La Marroca è un essere capace di emettere strani suoni e borbottii per attirare a sé le vittime e, quando una persona si avvicina troppo ai bordi dell’acqua, l’afferra con le sue potenti propaggini e la trascina nella sua sinistra tana per poi, con calma, succhiarle il sangue.

La Marroca

È un animale nato dalla fantasia popolare che è servito da spauracchio nei confronti dei bambini per tenerli lontani dagli specchi melmosi della palude chianina, specialmente di notte.
Si tenga presente che la Valdichiana, nel corso dei secoli, da una fertilissima pianura è passata a essere a una vasta palude, talvolta insalubre. Per cause diverse o per scopi militari, il fiume Clanis fu ostruito a valle dal Muro Grosso, nei pressi di Fabro, prima dagli antichi Romani e poi dagli orvietani, provocando un progressivo allagamento del fondovalle chianino fino a divenire una palude insalubre. Per tale motivo i popoli si spostarono sempre più in collina, fin quando la conclusione della bonifica della Valdichiana, avvenuta intorno al 1870 e durata circa un secolo, con le sue opere idrauliche riportò la vivibilità nella piana delle Chiane, precedentemente impaludata. L’amore e il senso di protezione per i propri figli, affinché non si avvicinassero ai pericolosi acquitrini e alle malsane acque paludose chianine specialmente di notte, indussero la creazione della storia leggendaria della Marroca.

La leggenda racconta…

In qualche casa si racconta di Albo, un bambino che fu catturato da una Marroca, la lumaca-serpente con i tentacoli, ma venne salvato dal proprio cane, che purtroppo rimase ucciso nello scontro con la mostruosa creatura. Si narra che Albo, per lo spavento, tornò dai propri genitori con i capelli completamente bianchi.
Una testa scolpita su pietra arenaria, visibile nell’Antiquarium del Municipio di Baschi (TR), viene chiamata La Marroca e nella Tuscia viterbese assume le sembianze di una strega, mentre le analoghe Biddrina e Occhiomalo sono diffuse rispettivamente in Sicilia e in Maremma.
La diffusione dei racconti contadini della Chiana potrebbe essersi attuata a seguito dei pellegrini passanti sul tratto chianino della Via Romea-Germanica, destinati prima a Roma e poi, tramite la via Appia, verso il meridione italiano e quindi in Terra Santa. Il racconto della Marroca, nella vita agreste della Valdichiana, si è sopito a seguito dello spopolamento delle campagne avvenuto nel secolo scorso, così come molte delle tante leggende contadine legate alla vita di campagna.
La Valdichiana Umbra e quella Toscana, non sono solo terre ricche di cultura, storia, arte ed enogastronomia ma anche di favole, novelle e racconti che avvolgono nell’incognito e nel mistero la bellezza carismatica delle Chiane e aumentano l’attrattività di questi meravigliosi luoghi.

Nella Tabula Cortonensis, manufatto in bronzo del II secolo a.C., per la prima volta in assoluto appaiono il nome etrusco del lago Trasimeno – chiamato Tarsminass – e il riferimento ad alcuni possedimenti terrieri, in particolare a un vigneto.

La tabula è stata ritrovata spezzata in 8 parti, di cui solo una è dispersa. È ospitata presso il MAEC, il celebre Museo dell’Accademia Etrusca di Cortona ed è la terza scrittura etrusca conosciuta più lunga per i suoi contenuti. Si tratta di un «atto giuridico di 40 righe in lingua etrusca, che riporta l’arbitrato relativo ad una eredità contestata di un importante patrimonio fondiario dislocato tra il Lago Trasimeno e Cortona» (Massimo Pittau).

 

Tabula Cortonensis

 

L’influenza dell’etrusca città di Cortona arrivava, con il suo territorio, fino al tratto spondale lacustre che va da Tuoro a Borghetto. Nelle 7 parti della tabula a noi giunte, al di là della loro importanza linguistica, scientifica e storica, ci preme sottolineare l’importanza del Tarminass per gli Etruschi; un lago, unitamente alla Val di Chiana, ricco e generoso dal punto di vista alimentare (pesce, olio, vino e grani).
Infatti nella sacralità della civiltà etrusca il mangiare era considerato un fatto religioso e il vecchio lago Trasimeno era ritenuto un luogo sacro: era considerato la rappresentazione terrena della volta celeste.
Secondo l’etruscologo Giovanni Colonna l’immagine del lago Trasimeno è stata trasposta nel fegato di Piacenza o fegato etrusco; è un modello bronzeo di fegato di pecora con iscrizioni, suddiviso in settori riservati alle diverse divinità. Era usato dai sacerdoti etruschi, gli aruspici, per leggere le viscere degli animali sacrificati per ricavarne auspici.
Gli Etruschi consideravano il Trasimeno il luogo d’unione tra le dodecapoli di Cortona, Chiusi e Perugia dove fiorivano gli scambi commerciali, l’artigianato, la pesca e l’agricoltura. A proposito di coltivazioni, nella tabula cortonensis si fa riferimento a un vigneto: è il più antico atto notarile della storia del vino. È stato questo documento che, nel 2015, ha aperto la mostra Arte e Vino che si è svolta a Verona, un evento importantissimo collegato all’Expo. Ricordiamo che gli Etruschi consumavano grandi quantità di vino in varie occasioni; avevano l’usanza di miscelarlo, anche per coprirne i difetti, con acqua e con miele, insieme a spezie, fiori o formaggio.
Della magnificenza del Tarminass se ne accorse, come raccontato nel XVI secolo da Matteo dall’Isola nella sua Trasimenide, anche Trasimeno, il principe etrusco figlio del Re Tirreno, che si innamorò della ninfa lacustre Agilla. I due giovani vissero una bellissima e struggente storia d’amore sulle rive lacustri che finì tragicamente con la scomparsa, tra le acque del lago, del giovane principe.
Si racconta che, ancora oggi, la triste ninfa stia cercando il suo amato: quando un’onda fa muovere repentinamente una barca non è altro che Agilla che sta cercando tra le acque il suo Trasimeno e quando le foglie al vento si muovono provocando un suono simile a un lamento, pare che sia la dolce ninfa che piange il suo amato… ascoltare per credere.

Papa Francesco ha acquistato terre in Umbria? Così sembra. Sembra, ma in realtà si tratta di una fake news, anche se tutto lascia credere il contrario.

Terre che fino al 1860 sono state sotto la giurisdizione dello stato della Chiesa adesso sono Del Papa. Un chiarimento si impone. Del Papa è il nome del titolare di una società che si chiama Terre Del Papa, la quale ha acquistato all’asta circa 300 ettari di terra nella zona del castello di Sismano, ad Avigliano Umbro. Papa Francesco non è della partita.

 

Quercia ballerina

 

Non è più della partita nemmeno il principe Corsini, che ha venduto all’asta quelle terre che un suo antenato aveva acquistato all’Asta della Candela nel 1607. Trecento ettari sono tanti e visti dall’alto sembrano immensi. Il colpo d’occhio si ha arrivando da un tratto della via Amerina: si esce dal bosco dopo la salita, dopo aver superato un ponte romano, dopo aver incontrato una quercia molto insolita che crede di essere un rampicante. Potenza della natura: insetti, parassiti e clima hanno trasformato una possente quercia in una gaia ballerina. Comunque, finita la salita si raggiunge la chiesetta della Mestaiola e lì si apre un panorama vastissimo che spazia da Todi a Terni, dai monti Martani al Terminillo.

Una nuova coltura di olivi

Su quelle terre si costruisce il futuro per rilanciare l’olio italiano. Il futuro ha l’aspetto di olivi piccoli, ma innumerevoli. Del Papa ne ha fatti piantare 400.000, rigorosamente allineati, che scendono da tutti i lati delle colline. Si tratta di un nuovo cultivar che non cresce molto, rimane piccolo favorendo la raccolta delle olive con le macchine. Questo cultivar ha delle caratteristiche totalmente diverse dai tradizionali olivi umbri. Non solo è piccolino, ma cresce e va a frutto in due anni soltanto, però avrà vita breve: vent’anni. Il panorama umbro cambierà molto passando dalla visione degli olivi secolari a questi giovanetti di corta esistenza. Il panorama cambierà, ma già tante volte è cambiato. All’epoca di San Francesco gli olivi erano pochi, poi a metà Ottocento Papa Pio IX ne ha fatti piantare 362.000. Poi è stata la volta della vigna. Venticinque anni fa il Sagrantino era un solo un vino locale, adesso è diventato famoso e le vigne si sono moltiplicate. Poi c’è stata la coltivazione estesa del tabacco, che adesso è molto ridotta. Insomma, l’aspetto della natura selvatica e addomesticata varia con il clima e con l’economia delle zone.
Questi piccoli olivi rappresentano il nuovo che avanza anche dal punto di vista dell’irrigazione. Il nostro clima è sempre più secco e il sole implacabile fa evaporare l’acqua d’irrigazione. La società che gestisce queste piante ha introdotto una tecnica d’irrigazione copiando quello che la natura fa già spontaneamente a Pantelleria. Le vigne di Pantelleria non vengono mai irrigate perché il terreno che sopra è polvere, venti centimetri più giù è umido. La vigna cresce bene malgrado la siccità e i venti fortissimi che battono l’isola.

 

Olivi Del Papa

La leggenda di Eurosia

Il terreno tra Avigliano Umbro e il Castello di Sismano si prestano a introdurre la nuova tecnica di irrigazione. Questi olivi saranno bagnati mediante sub-irrigazione, cioè l’acqua arriverà alla pianta da sotto terra, così manterrà il terreno umido e in inverno non gelerà. L’estremante nuovo si congiunge con l’estremamente antico di Pantelleria.
La zona è inoltre ricca di leggende, in particolare quella della Mestaiola di Santa Eurosia. La cappellina che si incontra viaggiando lungo la via Amerina è dedicata alla santa spagnola o forse slava Eurosia.
La leggenda vuole che, mentre i Saraceni sui monti Pirenei avevano già cominciato a torturarla, sia scoppiato un violento temporale e un fulmine sia caduto vicino alla ragazza senza farle niente. I Saraceni si spaventarono, ma continuarono il lavoro e la decapitarono. Da allora Eurosia, divenuta santa, è considerata la protettrice della grandine e dei fulmini e basta dire il suo nome per sedare le tempeste. Quindi la presenza della cappellina è quanto mai idonea per assicurare la sopravvivenza del nuovo impianto.

#MeuAyrton – Ayrton Senna alla velocità del cuore è la mostra fotografica inaugurata a Todi durante il Todi Festival, visibile dal 24 agosto al 9 settembre 2019.

La mostra è stata allestita nel Nido dell’Aquila, anzi nel Torcolarium, l’ambiente dove le monache lucrezie presiedevano alla torchiatura delle olive e dell’uva. È un luogo magico legato alla leggenda dell’aquila tuderte.

 

La sconosciuta leggenda della fondazione di Todi

Lo stemma di Todi, quello che si trova anche sulle porte di tutti i castelli che sono stati sotto la sua giurisdizione, è rappresentato da un’aquila ad ali spiegate che regge un drappo tra le zampe. La presenza di un drappo è insolita e non ci sono tracce storiche che lo giustifichino. Nel XVII secolo hanno elaborato una leggenda, che purtroppo non ha avuto un cantore come Virgilio e si è limitata a essere immortalata in due affreschi che si trovano nella sala grande del Palazzo dei Priori a Todi.
La leggenda narra che un giorno di 2.700 anni fa, più o meno quando veniva fondata Roma, un gruppo di uomini Veii-Umbri capeggiati da Tudero si riunirono per fare un picnic. Dovevano prendere una decisione importante: volevano fondare una città, la loro città.
Questi uomini sapevano già allora che se pranzi sul prato ti devi difendere dalle formiche che amano appassionatamente partecipare ai pranzi campestri. Questo gruppetto di uomini di un mondo remoto, prima di iniziare a discutere e a mangiare, distesero sul prato una tovaglia. Gli storici non dicono se portava già i disegni tipici della tessitura umbra, ma questo esula dal racconto. Mangiarono, discussero e presero la decisione di costruire la città ai piedi della ripida collina che li sovrastava.
Si stavano concedendo un momento di relax quando sopra di loro apparve l’ombra di un’aquila. Il grande uccello cominciò a girare in tondo tenendo d’occhio la scena, poi scese in picchiata, afferrò la tovaglia e riprese il volo verso la collina, portandosela dietro.
Gli uomini rimasero stupefatti, «Un’aquila che ruba una tovaglia deve avere un significato», si dissero. Tudero e i suoi seguirono le evoluzioni dell’aquila e ritrovarono la tovaglia in un punto estremo della collina, dove nidificava. Era un segno evidente degli dei. La città andava costruita lassù. E lassù si trova ancora oggi. All’inizio la chiamarono Tuder, come il fondatore, ma nel tempo è diventata Todi e conserva il ricordo dell’aquila con il drappo nel suo stemma.

 

Mostra dedicata a Senna

Il nido dell’aquila e la mostra su Ayrton Senna

«E il nido?», vi chiederete.
Il luogo del nido c’è ancora.
Richiede di essere trovato perché nessuna aquila nidifica in un luogo accessibile. Se salite la collina a piedi, vi accorgerete subito di quanto sia ripida; poi, arrivati in cima, mettetevi davanti al Duomo, girate a sinistra poi ancora a sinistra e poi a destra, seguite la strada in discesa fino a una porta con tettoia. Siete arrivati al monastero delle Lucrezie: entrate e vi troverete nel Nido dell’Aquila.
L’uccello maestoso se n’è andato via, lasciando al suo posto un luogo che è stato di preghiera e adesso è di cultura. Varcata la porta, vi troverete nel chiostro delle Lucrezie e sarete attratti dal panorama che domina la valle del Tevere, e dal prato del picnic. È un chiostro anomalo perché la parte porticata è piccola, mentre al primo piano si apre un grande loggiato. Se riuscirete a trovare lo stemma dell’aquila, lì troverete anche il nido e la mostra con le foto del pilota brasiliano.
Ayrton Senna è stato fotografato per anni da Paola Ghirotti, che l’ha seguito attorno al mondo cogliendo le sfumature delle emozioni di un uomo che stava per diventare un mito. I numerosi primi piani del pilota mostrano un viso bello, serio, concentrato. Mai sorridente. Dicono che fosse allegro, ma in pista dominava la concentrazione.
Forse portava in sé la saudade brasiliana. Ayrton ha sentito profondamente la responsabilità della ricchezza e in un’intervista disse: «I ricchi non possono vivere su un’isola circondata di povertà. Noi respiriamo tutti la stessa aria. Bisogna dare a tutti la stessa possibilità».
La Fondazione che porta il suo nome in 30 anni ha fatto studiare a 25 milioni di bambini.
«Il mio nome è Ayrton e faccio il pilota
e corro veloce la mia strada
anche se non è più la stessa strada».

 

La primavera sta arrivando: già si sente nell’aria un accenno di nuovi profumi e si vedono i primi fiori, tutto torna alla vita uscendo dal proprio letargo. Compresi noi, che abbiamo passato l’inverno a spostarci da una casa ad un’altra, a un locale o un cinema, finalmente usciamo. E perché non andare a vedere uno spettacolo che ricomincia all’aperto?
Nel cuore della Valnerina ci aspetta la Cascata delle Marmore.

 

Cascata delle Marmore | foto di Giovanni Bicerna

Un'antica opera di ingegneria

Forse non tutti sanno che essa è frutto di un disegno ingegneristico risalente al 290 a.C., quando il console Manio Curio Dentato ordinò lo scavo di un canale che facesse defluire le acque del fiume Velino nella valle reatina, convogliandole fino alla rupe di Marmore, da dove le fece precipitare ed unire al corso del fiume Nera, con un salto di 165 metri. Questo lavoro fu fatto proprio per bonificare il Velino, che all’epoca formava una palude stagnante e perciò possibilmente pericolosa per la popolazione per via della malaria.

La Cascata oggi

La Cascata viene oggi utilizzata per la produzione di energia elettrica da parte della centrale di Galleto ed è per questo che il rilascio dell’acqua viene controllato; ci sono precisi giorni e momenti dell’anno in cui si può ammirare nella sua piena bellezza, che vanno soprattutto da marzo a ottobre, insieme a giorni di festività negli altri mesi. Interessante scoprire che il luogo ospita uno dei Centri di Educazione Ambientale che sono dislocati da qui alla valle del Nera e di Piediluco, territori che rientrano nella Rete Ecologica Europea Natura 2000 del Progetto Bioitaly, il cui obiettivo è lavorare per diffonde un turismo ecosostenibile, attraverso la conoscenza, la tutela e la promozione del territorio per favorirne al meglio lo sviluppo.

Una curiosità: il nome Marmore deriva dai sali di carbonato di calcio che si vanno a sedimentare sulle rocce della montagna che protegge le acque e il cui riflesso alla luce del sole li fa assomigliare a cristalli di marmo. Ad aggiungere magia, oltre al paesaggio incantevole, c’è il folletto della Cascata, Gnefro, che racconta la leggenda di Marmore ai bambini che intraprenderanno con lui la Fantapasseggiata.

I Percorsi

Ma da passeggiare, nel parco, ce n’è anche per i grandi, che possono scegliere tra sei percorsi diversi per nome, per ambiente e per intensità. L’Antico Passaggio è il primo percorso che è stato fatto, che collega le due vie di accesso alla Cascata, il Belvedere Inferiore con il Belvedere superiore e non è molto facile da percorrere, ma è da qui che si accede al Balcone degli Innamorati, quindi mettersi buone scarpe da trekking e gambe in spalla!

 

Cascata delle Marmore | Foto di Enrico Mezzasoma

 

L’anello della Ninfa è il percorso più semplice, permette di avvicinarsi il più possibile alla cascata grazie alle scalette e ai ponticelli di legno da cui è composto e in più si può ammirare una delle 300 grotte naturali che sono dislocate nell’area.

L’Incontro delle Acque è il sentiero che viaggia a ridosso dei canyon che il Nera ha scavato nella roccia fino all’incontro con il Velino, ed è il percorso usato per la Fantapasseggiata. In più, è la zona migliore per vedere gli appassionati di canoa e rafting che sfidano le acque.

La Maestosità è l’unica via che permette di ammirare per intero i tre salti di cui la Cascata è composta, per questo è definito come percorso turistico per eccellenza. C’è una visione completa dello spettacolo.

La Rupe e l’Uomo è tra tutti il percorso più lungo, che parte dal belvedere superiore e si sviluppa lungo ciglio della rupe di Marmore, mostrando vari panorami tra cui la Conca ternana, fino alle gole di Ferentillo. Con le guide, da qui si possono visitare alcune delle grotte naturali più suggestive.

Infine I Lecci Sapienti, pensato per esperti perché va dal basso in alto e viceversa attraverso parti molto ripide e sconnesse ed è l’unico percorso in cui non si vede la cascata, ma le condotte delle vecchie centrali idroelettriche.

Un consiglio su quando andarci? D’estate, nei periodi più caldi. Rimarrete sbalorditi dal microclima che l’unione tra fitta natura ed acqua ha creato. Crederete veramente alla magia…e anche a Gnefro!

 

Per saperne di più su Terni