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San Giustino

comuni umbri

PROVINCIA:

Terni

WEB:

Per informazioni turistiche:

IAT del Comprensorio Alta Valle del Tevere
Corso Cavour 5 – Città di Castello
Tel. 0758554922
E-mail: info@iat.perugia.itinfo@iat.citta-di-castello.pg.it

San Giustino

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Panoramica di San Giustino
Foto di Enrico Mezzasoma
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Castello Bufalini
Foto di Enrico Mezzasoma
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Castello Bufalini
Foto di Enrico Mezzasoma
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Museo storico scientifico del tabacco
Foto di Enrico Mezzasoma
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Museo storico scientifico del tabacco
Foto per gentile concessione del comune
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Museo storico scientifico del tabacco
Foto per gentile concessione del comune
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Museo storico scientifico del tabacco
Foto per gentile concessione del comune
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Veduta di Cospaia
Foto per gentile concessione del comune
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Rievocazione storica Repubblica di Cospaia
Foto per gentile concessione del comune
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alla scoperta del borgo

«L’aspetto della regione è piacevolissimo, immagina: un anfiteatro immenso, quale soltanto la natura può creare. Una vasta e aperta pianura cinta dai monti; questi ricoperti fin sulla cima di antiche e maestose foreste, dove la cacciagione è varia e abbondante. Lungo le pendici delle montagne i boschi cedui digradano dolcemente fra colli ubertosi e ricchissimi di humus, i quali possono gareggiare in fertilità coi campi posti in pianura […] In basso l’aspetto del paesaggio è reso più uniforme dai vasti vigneti che da ogni lato orlano le colline, e i cui limiti, perdendosi in lontananza, lasciano intravedere graziosi boschetti. Poi prati ovunque, e campi che solo dei buoi molto robusti con i loro solidissimi aratri riescono a spezzare; quel tenacissimo terreno, al primo fenderlo, si solleva infatti in così grosse zolle che solo dopo nove arature si riesce completamente a domarlo. I prati, pingui e ricchi di fiori, producono trifoglio e altre erbe sempre molli e tenere, come se fossero appena spuntate, giacché tutti i campi sono irrorati da ruscelli perenni. Eppure, benché vi sia abbondanza d’acqua, non vi sono paludi, e questo perché la terra in pendio scarica nel Tevere l’acqua che ha ricevuto e non assorbito…. […] A ciò, naturalmente, si aggiungono la salubrità della regione, la serenità del cielo, e l’aria, più pura che altrove.»
(Lettera di Plinio il Giovane a Domizio Apollinare, Libro V, epist. 6)

I primi insediamenti dell’estremo comune a nord della regione si devono far risalire agli Umbri come attestato dal ritrovamento di numerosi bronzetti.  In epoca romana – con il nome Meliscianum dalla ninfa Melissa il cui nome significa “produttrice di miele” ed evoca una zona in cui l’apicoltura era senz’altro largamente praticata – divenne un importante centro commerciale lungo la via Tiberina. Del periodo romano è notevole attestazione la grandiosa villa rustica che Plinio il Giovane fece costruire intorno al 100 d.C. In seguito la villa venne distrutta e il territorio devastato dai Goti di Totila.

Il nome odierno di San Giustino, dal santo martirizzato a Pieve de’ Saddi ai tempi dell’imperatore Marco Aurelio, appare per la prima volta in un diploma del 1027. Il territorio di San Giustino fu per secoli conteso tra Arezzo, Città di Castello e San Sepolcro. I primi signori del luogo furono Oddone e Rinaldo di Ramberto, i quali nel 1218 si sottomisero a Città di Castello. A seguito della sottomissione del 1262 Città di Castello lo fece munire, ma durante la sede papale vacante, a seguito della morte di Clemente IV, San Sepolcro mise a ferro e fuoco il territorio distruggendo anche il fortilizio. Una volta ricostruito il Castello, esso fu dato in custodia nel 1393 alla famiglia Dotti, fuoriuscita da San Sepolcro, con l’impegno che venisse usato per la difesa di Città di Castello. Dopo alterne vicende -in cui a più riprese il palazzo Dotti venne distrutto e ricostruito- la famiglia Dotti lo restituì al comune di Città di Castello nel 1481. A questo punto il governatore papale di Città di Castello invitò suo fratello, Mariano Savelli, valente architetto, a predisporre il progetto per la trasformazione della dirupata fortezza in potente palazzo che doveva rivelarsi inespugnabile e munito di un imponente fossato. I lavori vennero iniziati, ma mancando i fondi per portarli a termine Città di Castello lo diede nel 1487 a un facoltoso possidente, Niccolò di Manno Bufalini, dottore in utroque iure e familiare di Sisto IV, di Innocenzo VIII e di Alessandro VI, perché portasse a termine i lavori. Tanti furono i servizi e meriti nei confronti della Santa Sede che nel 1563 Giulio Bufalini e il figlio Ottavio ebbero dal Papa il titolo di conti e a loro venne assegnato il feudo e il territorio di San Giustino. Durante il periodo napoleonico San Giustino, staccato da Città di Castello, divenne comune autonomo, ma fu soppresso con la fine di Napoleone per venire definitivamente riconosciuto con motu proprio di Leone XIII nel 1827. San Giustino fu il primo comune umbro ad essere occupato dai Piemontesi del generale Fanti l’11 settembre 1860.

Castello Bufalini costituisce senz’ombra di dubbio l’emblema di San Giustino. Il castello vede le sue origini nel fortilizio militare della famiglia Dotti. Restituito a Città di Castello nel 1478 dopo che a più riprese era stato attaccato e distrutto, nel 1487 il legato pontificio di Città di Castello lo donò a Niccolò di Manno Bufalini perché egli terminasse i lavori di ricostruzione iniziati su progetto di Mariano Savelli, fratello del governatore, con l’obbligo in caso di guerra di difendere Città di Castello e di accogliere le truppe e i capitani che il comune avrebbe inviato a difesa del luogo e dei suoi abitanti. Il Bufalini, su nuovo progetto redatto da Camillo Vitelli, trasformò il vecchio fortilizio in una vera e propria fortezza circondata da un fossato, dotata di un mastio e quattro torri, camminamenti merlati e ponte levatoio.
Il Rinascimento portò alla trasformazione della fortezza in villa signorile. Gli autori di tale trasformazione furono i fratelli Giulio I e Ventura Bufalini dal 1530 comproprietari e residenti nel castello. I lavori, eseguiti tra il 1534 e il 1560, riguardarono sia la ristrutturazione esterna dell’edificio sia la nuova disposizione e l’ammodernamento degli spazi interni. Il progetto iniziale che prevedeva la sistemazione del cortile interno, la costruzione delle finestre inginocchiate, la realizzazione di una delle due scale a chiocciola e una nuova distribuzione degli ambienti, probabilmente si deve a Giovanni d’Alessio d’Antonio, detto Nanni Ongaro o Unghero (Firenze 1490-1546), architetto fiorentino della cerchia dei Sangallo, al servizio del granduca di Toscana Cosimo I, ma i lavori proseguirono anche dopo la sua morte. Per la decorazione pittorica viene chiamato Cristoforo Gherardi (San Sepolcro 1508-1556), detto Il Doceno, che dipinge cinque stanze con favole mitologiche e decorazioni a grottesca, lavorando dal 1537 al 1554. Alla fine del Seicento, il castello fu interessato da una nuova fase di lavori su commissione di Filippo I e Anna Maria Bourbon di Sorbello. Su progetto di Giovanni Ventura Borghesi (Città di Castello 1640-1708), il palazzo venne trasformato in villa di campagna con giardino all’italiana. L’ultima vicenda costruttiva del castello ha avuto luogo dopo la Seconda Guerra mondiale, in quanto non uscì incolume dai bombardamenti che interessarono la zona. Nel 1989 Giuseppe Bufalini lo cedette allo Stato. Con l’integrità dei suoi arredi, il castello costituisce oggi un raro esempio di dimora storica signorile.

La villa, sorta su un preesistente fortilizio romano, fu progettata dagli architetti Antonio Cantagallina di San Sepolcro e da un certo Bruni di Roma su commissione di Carlo Graziani di Città di Castello. I lavori iniziati nei primi anni del Seicento furono portati a termine nel 1616. La struttura, a pianta quadrangolare, si sviluppa su tre livelli, sormontata da una torretta di 17 metri di altezza. Il piano terra è decorato da archi murati al cui centro si aprono finestre e nicchie che evocano la regolarità di un portico. Il piano nobile è caratterizzato da un ampio loggiato con elegante balaustra e colonne in pietra serena. L’ingresso laterale immette nella galleria carraia, costruita con volte a botte, che consentiva l’accesso al coperto delle carrozze e collegava tra di loro la casa colonica e la chiesetta dedicata alla Santa Maria Lauretana. L’edificio, che costituisce uno splendido esempio di villa nobiliare tardo rinascimentale è circondato da un parco di 6 ettari di superficie recentemente recuperato e nella parte frontale si può ammirare un meraviglioso esempio di giardino all’italiana. Dal 1981 è proprietà del Comune di San Giustino che ha provveduto al restauro funzionale dell’edificio. Oggi la casa colonica è adibita ad attività socio-culturali. La chiesetta invece è oggi usata dal Comune di San Giustino per la celebrazione dei matrimoni civili. I locali di villa Magherini Graziani ospitano il Museo Pliniano e dal febbraio 2016 anche la mostra permanente Iperspazio di Attilio Pierelli (Sasso di Serra S. Quirico 1924-Roma 2013). L’artista, fondatore del Movimento Artistico Internazionale Dimensionalista, ha dedicato gran parte della sua produzione alla visualizzazione del concetto di spazio relativo alla quarta dimensione geometrica e alle geometrie curve non euclidee e a Villa Magherini Graziani è possibile ripercorrere le diverse stagioni creative dell’autore dalle Piastre inox, ai Nodi, ai Cubi attraverso cui l’artista negli anni ha dialogato con l’iperspazio.

È uno dei sette musei italiani dedicati al Tabacco. Sorto nella sede dell’ex Consorzio Tabacchicoltori di San Giustino, ad opera dell’omonima Fondazione (costituitasi nel 1997), ha lo scopo di far conoscere l’importanza storica che la tabacchicoltura ha avuto – ed ha – nello sviluppo sociale ed economico della zona. Nell’Alta Valle del Tevere infatti la coltivazione del tabacco costituisce una tradizione che deve essere tramandata e diffusa. Non è un caso che proprio a San Giustino si trovi un museo dedicato al Tabacco, infatti nella penisola italiana le prime coltivazioni di una certa importanza per scopi commerciali dell’erba tornabuona – così chiamata perché i primi semi furono portati in Toscana dal vescovo Niccolò Tornabuoni alla fine del Cinquecento – risalgono agli inizi del Seicento e risiedono proprio nella Repubblica di Cospaia, un piccolo territorio oggi frazione di San Giustino.

Il museo comprende uffici, essiccatoi, sale di cernita: luoghi di grande fascino dove si rievoca una lunga storia di fatica e lavoro, ma anche di emancipazione, storia che ha avuto nelle donne del XX secolo le principali protagoniste. Le lavoratrici dei tabacchi, infatti, al pari delle operaie tessili, sono tra le prime donne che, abbandonato il tradizionale lavoro casalingo, vengono inserite nelle grandi industrie.

Cospaia, oggi frazione di San Giustino, è l’ultima località a nord dell’Umbria. La sua storia – la storia di un piccolissimo stato indipendente tra tre grandi potenze (lo Stato della Chiesa, il Ducato di Urbino e il Granducato di Toscana) a lungo in lotta tra loro – merita di essere raccontata. Cosimo dei Medici aveva concesso un prestito di 25.000 fiorini a Eugenio IV per il Concilio ecumenico che nel 1431 aveva indetto a Basilea, chiedendo in garanzia la giurisdizione su Borgo San Sepolcro. Alla morte del Papa il prestito non era stato restituito e così i due Stati mandarono i loro geometri a delimitare i rispettivi confini. I geometri lavorarono senza mai vedersi e così i toscani stabilirono i confini sul Rio della Gorgaccia, i pontifici sul Rio Ascone. Il territorio compreso dunque tra i due fiumi, la collina di Cospaia, rimase pertanto indipendente. Dal 1441 al 1826 Cospaia «trascorse quattro secoli senza avere capi, o leggi, o consigli, o statuti, o soldati, o esercito, o prigioni, o tribunali, o medico, o tasse. Sopravvisse secondo il buonsenso degli anziani. Non ebbe pesi e misure». Perfino la posizione del parroco, che si occupava anche di tenere il registro delle anime e di fare il maestro del paese, denunciava indipendenza, egli infatti non sottostava a nessun vescovo. L’indipendenza finì con l’accordo dell’11 febbraio 1826 con il quale Leone XII e Leopoldo I si spartivano il territorio. Cospaia il 28 giugno 1826 fece atto di sottomissione allo Stato pontificio e ogni cospaiese a “risarcimento” della perduta libertà ebbe un papetto, ossia una moneta d’argento con l’effigie di Leone XII. Ancora oggi il 28 giugno di ogni anno viene celebrata la “ex Repubblica di Cospaia”.