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Prima edizione per Panorami d’Autore a Villa Fabri, rassegna di prosa estiva promossa dal Teatro Belli, in collaborazione l’associazione Magazzini Artistici di Narni e Roma e Povero Willy di Terni, con il patrocinio del Comune di Trevi.

In scena dal 17 al 20 agosto, sul palcoscenico a cielo aperto allestito nella splendida location del Ninfeo di Villa Fabri a Trevi, un ciclo di quattro spettacoli che vuol essere una sorta di proseguo della Stagione Teatrale invernale che si svolge al Teatro Clitunno di Trevi, così da consentire al pubblico trevano, e non solo, di fruire di ottimi spettacoli durante tutto l’arco dell’anno. Panorami d’Autore è una rassegna che predilige grandi testi e grandi artisti, e che racconta storie molto diverse tra loro, in modo da potersi rivolgere ad un pubblico ampio.

 

Il Sogno di Ipazia

IL PROGRAMMA

Si inizia il 17 agosto con La Signorina Else, capolavoro del grande autore austriaco Arthur Schnitzler. Else è un piccolo gioiello abbandonato in un salotto polveroso: ironica ed esibizionista, maliziosa e intraprendente, nel corso del suo flusso di coscienza rivelerà il suo stato di totale e spietata solitudine e di insoddisfazione nei confronti del tessuto umano che la circonda. Ad interpretare Else sarà Diletta Masetti, diretta da Claudio Jankowski.

Tra aneddoti, canzoni e poesie il 18 agosto spazio a È arrivato il Novecento, scritto e diretto da Tonino Tosto, un percorso tra musica e teatro che attraversa la storia dei mutamenti a cui assistette l’Italia con l’arrivo del Novecento, “il secolo dell’oro”. In scena Tonino Tosto e Susy Sergiacomo, accompagnati alla chitarra da Danielo Pace e al piano da Dario Troisi.

Il 19 agosto sarà la volta di Francesca Bianco con Il Sogno di Ipazia di Massimo Vincenzi, con la regia di Carlo Emilio Lerici, che ripercorre la storia di Ipazia, filosofa astronoma e matematica pagana vissuta ad Alessandria d’Egitto a cavallo tra 300 e 400, donna-simbolo per generazioni di donne, amatissima dal pensiero femminista per aver incarnato libertà e autonomia di pensiero in forme –possiamo dire oggi- moderne. Questo spettacolo ha collezionato più di 300 repliche in tutta Italia, diventando un piccolo “caso” nazionale.

Infine, a chiudere il sipario sulla rassegna il 20 agosto sarà un testo molto attuale, seppur scritto dopo l’inizio della Prima Guerra Mondiale, un’aperta critica all’assurda atrocità del conflitto bellico: Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, con Riccardo Leonelli, Germano Rubbi, Gisella Celentano, Giacomo Lucci. La regia è di Riccardo Leonelli.

 


Costo del biglietto unico per ogni spettacolo euro 10.

Informazioni e prenotazioni: 327 818 4788

A colloquio con il presidente dei Borghi più Belli d’Italia in Umbria, tra futuro e soluzione per evitare lo spopolamento di questi territori.

In questi ultimi anni, i borghi e le piccole realtà stanno vivendo una nuova giovinezza. Sono tornati – soprattutto a livello turistico – molto di moda. La riscoperta del loro territorio, dell’enogastronomia e della vita slow attraggono turisti,ma anche persone che decidono di abbandonare la città e trasferirsi in questi luoghi di pace e tranquillità. Tanti i vip – italiani e stranieri – che hanno scelto l’Umbria come rifugio dal caos cittadino. Ralph Fiennes, Daniele Bossari e la moglie Filippa Lagerback, Colin Firth, Ed Sheeran, Paolo Genovese, Susanna Tamaro, Mario Draghi, Luca Argentero… e tanti altri. Di queste realtà abbiamo parlato con Alessandro Dimiziani, vicesindaco di Lugnano in Teverina e, dal 2020, presidente del Borghi più belli d’Italia in Umbria. L’associazione – nata nel 2001- ha come obiettivo quello di proteggere, promuovere e sviluppare i comuni riconosciuti con tale denominazione; l’Umbria è la regione italiana che ne ha di più, ben 30, e rappresentano un vanto e un’attrattiva turistica anche dall’estero. Un patrimonio da salvare e promuovere.

 

Alessandro Dimiziani

Presidente come prima cosa: quali sono i requisiti per entrare nell’associazione dei Borghi più belli d’Italia?

La popolazione nel centro storico o nella frazione non deve superare i 2.000 abitanti, mentre nell’intero comune non si può andare oltre i 15.000 abitanti. Il borgo inoltre deve avere una presenza di almeno il 70% di edifici storici anteriore al 1939 e offrire qualità urbanistica, architettonica e promozione del territorio. Va detto che sono gli stessi borghi che fanno la richiesta e poi un comitato scientifico valuta gli oltre 90 parametri e delibera l’entrata del paese nell’associazione.

Con Stroncone – entrato da poco – nella regione si contano 30 borghi. Un record italiano che fa superare le Marche, ferme a 29…

Proprio alcuni giorni fa c’è stata l’ufficializzazione di Stroncone con la consegna della bandiera dell’associazione. Se consideriamo la grandezza del nostro territorio e il numero dei comuni inferiore rispetto alle Marche, la percentuale di borghi più belli è molto alta. Oltre a Stroncone gli ultimi entrati sono Monteleone d’Orvieto nel 2019 e Nocera Umbra nel 2020.

La rivista americana “The Travel” ha pubblicato da poco la classifica dei dieci borghi italiani preferiti dai turisti internazionali: al 9° posto c’è Monteleone d’Orvieto (unico umbro). Serve più marketing internazionale per l’Umbria?

Sicuramente, anche se non siamo messi male. I nostri social sono tra i primi in Europa per visualizzazione. Da poco abbiamo anche realizzato un video promozionale che presenteremo il 7 dicembre a Citerna, in cui sono riuniti e illustrati tutti i borghi: questo verrà utilizzato durante le presentazioni fuori regione.

 

Monteleone d’Orvieto. Foto by Enrico Mezzasoma

Quanto è importante il turismo di ritorno?                   

È importantissimo e da poco abbiamo creato un tavolo di lavoro per capire tutte le tappe da seguire e i vari passaggi da mettere in pratica.

Concretamente, come si svolge?

Abbiamo iniziato a lavorare sui registri comunali, chiedendo a ogni Comune di inviare i nomi dei concittadini residenti all’estero: si è visto che la maggior parte si trovano negli Stati Uniti, in Brasile, in Belgio e in Lussemburgo, sono circa 2000 persone. Con un protocollo, l’intervento del Ministero del Turismo e dell’associazione Italiani nel Mondo cercheremo di contattarli. A gennaio poi verrà organizzato un evento ad hoc a New York in cui sarà presente la nostra associazione e quella degli Italiani nel Mondo. È il primo passo per iniziare a capire come muoversi.

Il turismo nei borghi, in questi anni, è tanto di moda: come se lo spiega?

È inutile negarlo, la pandemia ha dato una grossa mano. Nel 2020 c’è stata un’invasione, ovviamente positiva, che ha premiato il lavoro di valorizzazione fatto negli anni precedenti. Oltre all’Italia turistica e famosa che tutti conoscono, c’è un’Italia da scoprire e da vivere, tra sentieri, prodotti tipici e cucina. Questo attira molto il turista, anche straniero; tra l’altro l’Umbria è l’unica destinazione italiana entrata nella lista Best in travel 2023 stilata dalla Lonely Planet. Per il nostro Paese il turismo è una risorsa importantissima sulla quale si deve puntare al massimo.

Se avesse a disposizione un tesoretto, quali sono le prime cose che farebbe?

I primi interventi sarebbero rivolti al miglioramento dei servizi: sociali, sanitari, alle infrastrutture, ma anche alla connessione internet per lo smart working. Un borgo non può essere escluso da questo; il turista, ma soprattutto chi decide di restare, chiede navette o bus di collegamento con la stazione più vicina. Molto di questo ancora manca. A Lungano in Teverina, ad esempio, molti americani e danesi si sono innamorati del luogo, dei paesaggi e, grazie a uno statuto comunale, hanno avuto in dotazione degli uliveti e quest’anno per la prima volta hanno raccolto l’oliva. Tutto questo è sicuramente un incentivo per restare nel territorio, ma i servizi devono essere presenti.

Ciò serve ad arginare lo spopolamento…

Combattere lo spopolamento – che è una vera piaga – è tra gli obiettivi dell’associazione. Per noi è come una lenta morte, dovuta al decremento demografico e alla mancanza di lavoro che porta i giovani a lasciare il borgo per trasferirsi in città o all’estero. È per questo che cerchiamo di bilanciare con il turismo di ritorno o con i nuovi residenti. Riallacciandomi alla domanda precedente, gli investimenti sarebbero fondamentali anche per la creazione di lavoro, in modo da incentivare i giovani a restare.

Potremmo raccontare l’Umbria attraverso i borghi: ce n’è uno che la rappresenta di più?

Tutti i borghi rappresentano l’Umbria, poi ci sono quelli che attirano più come Trevi e Spello, ma ultimamente anche quelli meno conosciuti si stanno facendo notare. L’Italia, ripeto, deve puntare su queste piccole realtà che sono un patrimonio fondamentale per il turismo, da nord a sud. In questo modo può primeggiare nel mondo.

 

Spello. Foto Enrico Mezzasoma

Ci sono in cantiere dei nuovi progetti?

Nel 2023 uscirà la nuova brochure con tutte le informazioni sui borghi – edita da Corebook – anche in lingua cinese. Stiamo lavorando anche con le comunità energetiche per installare le colonnine di ricarica per auto e biciclette. Si punta a promuovere e portare avanti interventi a 360° con attività, eventi e festival, cercando di coinvolgere tutti.

Facciamo un gioco: per ogni borgo mi dica un aggettivo e una caratteristica che lo contraddistingue.

Acquasparta (Rinascimento umbro), Allerona (la porta del sole), Arrone (Valnerina), Bettona (etrusco-romana), Bevagna (le Gaite), Castiglion del Lago (il Trasimeno), Citerna (Borgo dei Borghi. Nel 2023 parteciperà al programma di Rai3), Corciano (la costola di Perugia), Deruta (ceramica), Lugnano in Teverina (archeologia e biodiversità), Massa Martana (riscatto architettonico), Monte Castello di Vibio (il teatro più piccolo del mondo), Montecchio (olio e archeologia), Montefalco (Sagrantino), Monteleone d’Orvieto (balcone su tre regioni: Umbria, Toscana e Lazio), Monteleone di Spoleto (altezza e bellezza), Montone (storia e architettura), Nocera Umbra (la rinascita della bellezza), Norcia (norcineria e tartufo), Paciano (vista sul lago Trasimeno), Panicale (arte e bellezza), Passignano sul Trasimeno (oasi di bellezza), Preci (scuola chirurgica), Sangemini (il bello sopra l’industria), Sellano (le acque della Valnerina), Spello (colori), Stroncone (olio e architettura), Torgiano (vino), Trevi (fascia olivata), Vallo di Nera (enogastronomia ad alta quota).

 


Per saperne di più

In occasione dell’ottava edizione di Gustatrevi Mtb, la principale manifestazione sportiva della zona trevana che conta oramai centinaia di iscritti e appassionati, Valle Umbra Trekking, con il patrocinio del Comitato Regionale Umbro della FIE – Federazione Italiana Escursionismo, organizza una semplice ma suggestiva escursione per scoprire parte della Fascia Olivata, Patrimonio Agricolo di Rilevanza Mondiale iscritto nel registro della FAO.

L’escursione si terrà domenica 11 settembre con partenza alle ore 9.30 da piazza Garibaldi (Trevi, PG). Il percorso si sviluppa ad anello per 8 km circa ed è a partecipazione gratuita. Per i non tesserati FIE, è richiesto solo un contributo di 5 € per la polizza assicurativa da versare in loco prima della partenza.

La giornata fornirà l’occasione di scoprire i vari gioielli architettonici e storici ricompresi all’interno della Fascia Olivata, come l’acquedotto medievale, il Santuario della Madonna delle Lacrime, la Chiesa di Sant’Arcangelo, i resti della Chiesa di Santa Caterina e la trecentesca Fonte dei Cavalli, nonché di godere di un paesaggio pregevole e pressoché unico. Inoltre, grazie all’Azienda Agricola Venturini, i partecipanti potranno scoprire e conoscere le varie cultivar di olivo presenti lungo la Fascia che andranno ad attraversare. Al termine dell’escursione è possibile prendere parte al Pasta Party di Gustatrevi MTB, al costo aggiuntivo di 6 €.

 


Per iscriversi è necessario inviare un messaggio (SMS o WhatsApp) al 339.8978116 indicando Cognome, Nome e la dicitura “Tesserato FIE” nel caso si sia in regola con l’iscrizione annuale, oppure indicando anche data di nascita e codice fiscale per l’attivazione della polizza giornaliera

Una serie di appuntamenti imperdibili per il Tour estivo di Giovanni Truppi che partirà il prossimo 12 giugno da Cremona e approderà anche in Umbria il 26 agosto a Villa Fabri a Trevi nell’ambito della sesta edizione di Suoni Controvento, festival estivo di arti performative promosso da Aucma, che si realizza grazie al sostegno della Regione Umbria e della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia.

Il tour è organizzato da Ponderosa Music & Art. «Sono felicissimo di ospitare per il secondo anno consecutivo una manifestazione di grande interesse e prestigio culturale come Suoni Controvento – commenta il sindaco di Trevi Bernardino Sperandioche quest’anno porterà, nella splendida cornice di Villa Fabri, le note di Giovanni Truppi, reduce dal grande successo di Sanremo».

Ad accompagnarlo sul palco una formazione rinnovata composta da Alessandro Asso Stefana (Vinicio Capossela, PJ Harvey, Guano Padano, Mike Patton) alla chitarra, Fabio Rondanini (Calibro 35) alla batteria e Luca Cavina (Calibro 35) al basso. In scaletta troveranno spazio tanti brani della decennale carriera del cantautore napoletano, a partire dalle canzoni contenute nell’antologia Tutto L’Universo (Virgin Records/Universal Music Italy), un compendio della sua essenza artistica che contiene anche il singolo presentato al 72esimo Festival di Sanremo Tuo padre, mia madre, Lucia e che il 13 maggio uscirà in una speciale edizione in doppio vinile contenente anche Nella mia ora di libertà, cover del brano di De André interpretata insieme a Vinicio Capossela con la speciale partecipazione di Mauro Pagani, e una pubblicazione curata da Andrea Colamedici di Tlon.

 

Giovanni Truppi, foto by Mattia Zoppellaro

 

Ma non solo, il pubblico avrà la possibilità di ascoltare dal vivo anche molti pezzi inediti, che riveleranno in anteprima le nuove strade artistiche, come sempre mai scontate, che Giovanni sta percorrendo. Un’occasione preziosa per poter ascoltare la musica passata, presente e futura di Truppi, e apprezzarne la magia nel modo migliore: dal vivo.

La sua abilità come musicista, che sia al pianoforte o alla chitarra, e il suo magnetismo come performer si affiancano e completano infatti da sempre la sua rara capacità di scrittura e composizione.  Il suo è un carisma raro, pronto a portare lontano l’ascoltatore, accompagnandolo in un viaggio musicale vario e in costante evoluzione, capace di attingere da linguaggi diversi come il jazz, il rock, il punk e la canzone d’autore e unendoli a un’inventiva metrica e a parole capaci di tratteggiare universi straordinariamente umani e sfaccettati, di scavare a fondo tra i sentimenti, anche quelli più dolorosi, per poi risollevarsi abilmente tra ironia e idealismo. Evento realizzato in collaborazione con il Comune di Trevi.

 


Prevendite su circuito TicketItalia e TicketOne

Sito ufficiale Suoni Controvento www.suonicontrovento.com

Trevi è stata selezionata dal programma televisivo Rai, Kilimangiaro, per l’edizione 2021/22 “Borgo dei Borghi” come rappresentante della regione Umbria.

Sono rimasti ancora pochissimi giorni per votare, è possibile farlo fino al 3 aprile. “Se non l’avete ancora fatto – spiega il Sindaco Bernardino Sperandio – vi esortiamo a farlo, perché questo programma è l’occasione giusta e unica per dare una grande visibilità al nostro borgo e a tutta la regione Umbria”. Si può fare nel sito https://www.rai.it/borgodeiborghi/

 

Perché votare Trevi?

Trevi è quel borgo arroccato che rapisce lo sguardo di chi visitando o attraversando l’Umbria si dirige verso Spoleto, o al contrario, la risale da Sud a Nord. Trevi, al centro del cuore verde d’Italia, inerpicato su di un colle cinto di ulivi, rapisce lo sguardo e il cuore con la sua forma a chiocciola e quello skyline, che dal campanile e dalla grossa cupola in bronzo del duomo di Sant’Emiliano, scende e si allarga quasi a diventare un tutt’uno con il promontorio che lo sorregge. Sempre desta stupore quando dal basso lo si guarda, ogni volta si rimane colpiti, anche chi vi è nato ne rimane eternamente meravigliato e non si stanca mai di ammirarlo.

E salendo su quel colle, man mano che ci si avvicina, il campanile diventa sempre più imponente e Piazza Garibaldi, tra le tante attività locali, vi accoglie con un grande benvenuto. Parcheggiata l’auto vi ritroverete in un luogo incantato dove il tempo sembra essersi fermato, un borgo che girando su se stesso da vita ad un concatenarsi di vie, vicoli e viette, piazze e piazzette, chiese, torri e parchi che sembrano terrazze sulla Fascia Olivata. E poi immaginate questi luoghi inebriati dai profumi e dai sapori dei prodotti locali, l’Olio extravergine di oliva in primis, principe di queste colline, il sedano nero, signore delle piane, il buon vino e il tartufo. Riuscite a immaginarlo?

 

Inaugura oggi la XIX edizione della Mostra Mercato Nazionale del Libro Antico e della Stampa Antica, al Palazzo Vitelli a Sant’Egidio di Città di Castello.

La manifestazione, in programma fino a domenica 1 settembre, non è solo l’occasione per ammirare manoscritti e stampati di pregevole foggia provenienti da tutta la Penisola, ma anche per ricordare la grande tradizione tipografica tifernate come della regione intera. È così che anche noi ci apprestiamo a ricordarne le pietre miliari, in un elenco che non ha la pretesa di essere esaustivo, ma solo uno stimolo per la curiosità del lettore.

Il museo vivente: la Tipografia Grifani-Donati

L’interno della Tipografia Grifani-Donati

A Città di Castello l’attività di stampa fa rima con la Tipografia Grifani-Donati, che nel 1799 si impianta nei locali soprastanti la chiesa di San Paolo a seguito del trasferimento da Assisi di Francesco Donati e di Bartolomeo Carlucci. Fino a quel momento, la produzione era stata di carattere esclusivamente religioso, nonché piuttosto scarsa.
La tipografia si distinse ben presto per le pubblicazioni di pregio, a seguito anche dell’introduzione – nel 1817 – dei caratteri bodoniani; nel 1842, con il torchio di legno, comincia a stampare Le Memorie Ecclesiastiche e Civili di Città di Castello, ventotto fascicoli scritti dal vescovo Giovanni Muzi.
Attualmente, la tipografia è il museo vivente più antico dell’Umbria, nonché l’unico in Europa ancora in attività a usare la calcografia, la litografia e la tipografia, condotte con metodi artigianali. Oltre ai numerosi torchi antichi, la Tipografia Grifani-Donati può vantare ben 536 casse di caratteri in lega, legno e rame, fregi cliché, silografie e galvanotipie, tutti originali.

 

Immutato nel tempo: il Museo dello Stabilimento Tipografico Pliniana

Una delle macchine conservate presso il museo dello Stabilimento Tipografico Pliniana

Poco più a nord, a Grifani-Donati si affianca il Museo dello Stabilimento Tipografico Pliniana di Selci Lama, nel Comune di San Giustino, certamente più recente (nasce infatti nel 1913), ma non per questo meno pregevole. Nel 1922 si aggiudica la stampa della rivista «Il Foro Veneto», alla quale succederanno l’Archivio Segreto Vaticano, l’Istituto Storico per il Medioevo, il Centro Storico Benedettino, il Seminario Vescovile di Padova e la Deputazione di Storia Patria per l’Umbria.
Oggi, tutti i vecchi macchinari sono lì al loro posto, così come l’inchiostro che ancora impregna il rullo della macchina a piombo, dismesso negli anni Novanta di fronte alla modernizzazione. Sono ancora lì le cassettiere ripiene di caratteri di piombo divisi per tipologia e dimensione, le matrici provenienti dall’Inghilterra, i cliché in zinco, i manuali e gli strumenti per la manutenzione.

 

L’editio princeps della Divina Commedia

Il colophon della Divina Commedia stampata a Foligno.

Ma la storia della produzione tipografica in Umbria inizia molto prima, almeno l’11 aprile del 1472, quando viene stampata a Foligno l’editio princeps della Divina Commedia. La prima copia a stampa dell’opera dantesca sembra aver visto la luce nella casa dell’orafo e zecchiere pontificio Emiliano Orfini, fondatore, assieme al trevano Evangelista Angelini, della prima società tipografica della città. Per molto tempo si è ritenuto che socio fondatore fosse anche il maguntino Johannes Numeister, ma da un contratto per la fornitura di carta recentemente rinvenuto sembra che fosse solo un abile copista, sebbene i debiti che contrasse furono la causa della fine dell’attività.
Ma torniamo alla splendida editio princeps della Commedia. Nei rari esemplari completi, usciti originariamente dai tipi folignati in 800 copie di 252 carte – di cui la prima e l’ultima bianche, così come quelle terminali della prima e della seconda Cantica – si nota il nitido disegno in chiaroscuro delle maiuscole romane, senza dubbio opera dell’orafo Orfini. Pregevoli sono anche l’architettura della pagina, divisa in tre colonne di trenta righe – corrispondenti a dieci terzine – con spaziature e interlinee che la rendono compatta e solenne, così come la carta, ordinata appositamente da Numeister ai monaci benedettini che gestivano le cartiere di Pale e Belfiore.
La stessa qualità non risulta però nella composizione, dove appaiono numerosi refusi, errori di lettura, ripetizioni, trasposizioni di versi e lacune, specie nell’ultima parte del testo. Mancano altresì i segni di interpunzione. Tutto ciò è dovuto al fatto che l’opera fu copiata dal cosiddetto Codice Lolliano, conservato nella biblioteca del Seminario di Belluno.

In arte scripturarum librorum: il primato trevano

La società tipografica folignate fu però solo la seconda in Umbria. È infatti a Trevi, piccolo borgo produttore di olio, che si deve il primato mondiale, almeno dal punto di vista dell’assetto societario: il notaio che si occupò della redazione dell’atto, data l’assenza di precedenti, non sapeva come identificare la produzione della costituenda e così scrisse semplicemente «in arte scripturarum librorum», cioè l’arte di scrivere libri. Che la società sia durata soltanto un anno, o che abbia edito solo due incunaboli, è di rilevanza secondaria: ciò che conta è che, accanto ai centri di produzione nazionale come Venezia, Roma e Subiaco che in quegli anni si andavano affermando, pure l’Umbria tentò di far sentire la sua voce e, puntando più sulla qualità che sulla quantità, in qualche modo sembrò riuscirci.

«Il sol, la luna ed ogni sfera or misura Barbanera, per poter altrui predire, tutto quel che ha da venire»: l’almanacco di Barbanera

«Uscito dalla stamperia di Pompeo Campana, con la bisaccia stretta al corpo, il venditore raggiunse con passo rapido Piazza Grande. Brulicante di gente, la Piazza accoglieva quel giorno i banchi della Fiera di Santo Manno. Era il 15 settembre del 1761. Tra mercanzie di ogni genere, broccati e monili, l’ambulante decise di attendere il momento migliore per tirare fuori quel carico per lui tanto prezioso. Una giornata calda e limpida aveva infatti spinto compratori e curiosi, di Foligno e di fuori città, a trascorrere alla fiera le prime ore del mattino. La campana della Cattedrale batté le dieci. All’ultimo rintocco un richiamo attraversò l’aria: Barbanera! Barbanera di Foligno! Santi, fiere, tempo e lune. E per tutti, il Discorso generale del famoso Barbanera, per l’anno 1762».

Un almanacco Barbanera del 1780

È impossibile parlare di Foligno senza citare Barbanera, lunario uscito per la prima volta nel 1761 dai tipi di Pompeo Campana. Barbanera, in quanto astronomo, astrologo e filosofo eremita era rappresentato con compasso, cannocchiale, mappa coeli, libri e sguardo rivolto al cielo, secondo l’iconografia del solitario misuratore del tempo che osserva le stelle per dedurre i ritmi dell’anno e previsioni di pratica utilità, che realmente egli dispensava a chi gli avesse chiesto consiglio.
Nel 1761 decise di affidare le sue considerazioni a un unico foglio da affiggere alla parete, un lunario ricco di informazioni e decorato da pregevoli xilografie che, in poco tempo, trovò ampia diffusione in tutta Italia come strumento per le attività agricole e per la conoscenza delle previsioni del tempo, dei santi, delle feste e degli eventi. Dal 1793, all’unico foglio da parete si aggiunse il libretto, più ricco di contenuti e di maggiore maneggevolezza.
Specchio dei tempi, il Barbanera contava, tra i più affezionati lettori, nientemeno che Gabriele D’Annunzio, che così sorprendentemente scrisse in una lettera del 1934 indirizzata al parroco di Gardone Riviera:

«La gente comune pensa che al mio capezzale io abbia l’Odissea o l’Iliade, o la Bibbia, o Flacco, o Dante, o l’Alcyone di Gabriele D’Annunzio. Il libro del mio capezzale è quello ove s’aduna il “fiore dei Tempi e la saggezza delle Nazioni”: il Barbanera

Nel 2015, l’UNESCO ha iscritto la Collezione di almanacchi Barbanera, conservata a Spello presso la Fondazione omonima, nel Registro della Memoria Mondiale.

 


FONTI:

http://www.unicaumbria.it/musei/museo-della-tipografia-grifani-donati/
http://www.tipografiagrifanidonati.it/
http://www.unicaumbria.it/musei/museo-dello-stabilimento-tipografico-pliniana/
http://www.pliniana.it/it/photogallery/il-museo_15.html
https://www.sistemamuseo.it/ita/3/mostre/647/trevi-umbria-trevi-culla-del-libro/#.XWT1WXtS9PY
www.barbanera.it

Quattro sedi espositive, settanta dipinti e una trama d’itinerari che si dipana in Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo: queste le coordinate della mostra Capolavori del Trecento. Il cantiere di Giotto, Spoleto e l’Appennino.

Una grande esposizione in Umbria per raccontare un secolo di capolavori – curata da Vittoria Garibaldi, Alessandro Delpriori e Bernardino Sperandio – che resterà aperta al pubblico fino al 4 novembre 2018 nei comuni di Trevi, Montefalco, Spoleto e Scheggino.
Settanta dipinti imperdibili a fondo oro su tavola, sculture lignee policrome e miniature che raccontano le bellezze dell’Appennino centrale e la civiltà storico-artistica, civile e socio-religiosa dell’Italia nel primo Trecento.
Nello Spazio Arte Valcasana di Scheggino è possibile godere di uno sguardo corale ed emozionante sull’insieme delle chiese, delle pievi, degli eremi e delle abbazie in Umbria, Marche, Abruzzo e Lazio dove gli artisti di cultura giottesca hanno lavorato tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento. Edifici connessi attraverso itinerari organizzati che permettono di scoprire luoghi e opere d’arte incantevoli.

I visitatori di queste mostre hanno il privilegio di ammirare lavori che per la prima volta sono visibili dal vasto pubblico, come i due dossali esposti nell’appartamento di rappresentanza di Sua Santità il Pontefice, entrambi provenienti da Montefalco e restaurati per l’occasione dai magistrali laboratori dei Musei Vaticani; oppure lo straordinario riavvicinamento del Trittico con l’Incoronazione della Vergine del Maestro di Cesi e il Crocifisso con il Christus triumphans, dipinti entrambi per il monastero di Santa Maria della Stella di Spoleto, oggi divisi tra il Musée Marmottan Monet di Parigi e il Museo del Ducato di Spoleto. Per la prima volta, dall’inizio dell’Ottocento, sono tornati vicini e insieme.
Montefalco e Trevi sono i borghi che ospitano due dei quattro poli espositivi.

Montefalco, Complesso Museale di San Francesco

Montefalco ha riabbracciato per l’occasione tre opere trecentesche importantissime, delle quali la città è stata privata dai saccheggi napoleonici e dalla dispersione del patrimonio mobile che ne seguì: il grande dossale che un tempo si trovava sull’altare maggiore della Chiesa di San Francesco, opera del Maestro di Fossa; la tavola per l’altare della Cappella di Santa Croce nella Chiesa di Santa Chiara di Montefalco, opera più alta del più giottesco dei pittori spoletini, il Maestro di Cesi; lo stendardo processionale con la Passione di Cristo, in origine posto anch’esso nella chiesa di San Francesco a Montefalco. La mostra è l’occasione per ricostruire, con un’operazione virtuosa, i contesti originali e dare conto al visitatore dell’importante stagione trecentesca vissuta dal borgo umbro.

Trevi, Museo di San Francesco

Nella Chiesa di San Francesco è conservata una splendida e gigantesca croce sagomata databile intorno al 1317. Si tratta di un’opera straordinaria per conservazione e qualità, dipinta da uno dei maggiori protagonisti di quella stagione, il Maestro della Croce di Trevi (che prende il nome proprio dalla sua opera più rappresentativa), lo stesso amato da Roberto Longhi, che lo aveva battezzato come Maestro del 1310. Nella stessa sede è esposto il corpus delle opere del Maestro di Fossa, personalità altissima capace di muoversi a valle della cultura di Giotto, di diventare un grande artista di Spoleto e un faro per tutta l’arte fino al Quattrocento.

Il tartufo e i salumi di Norcia, i formaggi di Vallo di Nera, i vini di Montefalco, Torgiano e Corciano, così come l’olio di Castiglione del Lago, di Lugnano in Teverina eTrevi: l’Umbria da gustare.

Nulla rappresenta l’Umbria come la varietà e la genuinità dei prodotti enogastronomici: legumi e cereali, ma soprattutto il frutto delle trasformazioni operate dall’uomo – formaggi, salumi, prodotti panificati, olio, vino. Una rosa di alimenti che, soli, rappresentano una regione estremamente legata alla terra, perfetta espressione del paesaggio che la caratterizza.
Una convinzione diffusa vuole che i cosiddetti piatti tipici siano anche antichi, frutto di una lunga tradizione locale e rurale. In realtà, i cibi giunti fino a noi dal passato sono ben pochi: sicuramente non figurano tutti quegli ingredienti provenienti dal Nuovo Mondo – patate, pomodori, mais, fagioli, cioccolato – che in Europa trovarono larga diffusione solo dal 1800 e che pure costruiscono l’elemento principale di piatti definiti locali o rurali. Anzi, molti di questi prodotti erano appannaggio delle classi più abbienti, che però erano solite gustarsi pietanze molto ricche e speziate, frutto di cotture multiple, in cui venivano occultati non solo il sapore e l’aspetto naturale, ma anche la tipicità e la logica della stagioni. Così, quella che oggi viene romanticamente considerata tradizione enogastronomica, il realtà non è che il retaggio degli ultimi due secoli, specie del periodo tra le due guerre.


La vera cucina rurale e regionale nasce nel XVIII in Francia, dove cominciano a essere sperimentate preparazioni più semplici ma, paradossalmente, più dotte, caratterizzate da alimenti freschi, verdure, erbe aromatiche e da una separazione ben netta tra i sapori. Prima che il nostro orgoglio nazionale ne esca ferito, c’è da specificare che i nostri connazionali parteciparono a questa rivoluzione proponendo una cucina ancor più garbata e semplice, ponendosi per la prima volta il problema dell’identità culinaria e delle tradizioni locali. Lentamente nacquero i primi ricettari, dove la nuova gastronomia francese o francesizzante si mescolava alla cucina popolare delle occasioni solenni – feste, riti propiziatori, occasioni di aggregazione legate a particolari momenti dell’anno. Si sa, il cibo da sempre stimola i rapporti umani, al punto che eventi come la vendemmia, la battitura del grano, la raccolta dello olive o l’uccisione del maiale si traducevano in occasioni di convivialità, veri e propri esempi di compenetrazione tra territorio e enogastronomia.

Il maiale e il tartufo

I ricchi, abituati alla cacciagione, consideravano il maiale cibo da poveri. In realtà, le famiglie che potevano permetterselo, si assicuravano nutrimento per un anno: il maiale, insieme ai suoi derivati, era un ottimo ricostituente per i contadini provati dalle fatiche agricole. Norcia, famosa oggi come allora per la presenza dei norcini, è stata da tempo associata ai salumi grazie all’uso attento delle tradizionali tecniche di lavorazione della carne – peraltro mutuate sulle procedure dei chirurghi preciani, veri e propri pionieri nel trattamento dei mali che da sempre affliggono l’uomo. Tra i prodotti più celebri spicca il Prosciutto di Norcia IGP, ma non mancano insaccati e prodotti caseari – si pensi alla grande mostra mercato Fior di Cacio, che anima il borgo di Vallo di Nera con degustazioni, cooking show, laboratori per bambini e con la maxi ricotta presentata dai Cavalieri della Tavola Apparecchiata – spesso arricchiti anche dal tartufo che, proprio a Norcia, veniva un tempo cacciato con le scrofe, attirate dall’androsterone presente nel tartufo come nel feromone dei maschi. I Romani, che ne erano ghiotti, lo chiamavano funus agens, perché provocava indigestioni mortali, mentre, in epoca moderna, si pensava che avesse delle proprietà afrodisiache, forse proprio per quella stessa analogia tra il maiale e l’uomo da cui a Norcia nacque il mestiere del chirurgo.

Il vino

L’Umbria può vantare ben due DOCG in ambito vinicolo: il Sagrantino di Montefalco e il Torgiano Rosso Riserva. Montefalco si è caratterizzato fin dal passato per la cura del vigneto, geneticamente poco produttivo – negli anni Sessanta era quasi scomparso – e per la produzione di un vino rosso rubino dipinto anche da Benozzo Gozzoli nel ciclo ispirato alla vita di San Francesco, posto proprio nella chiesa di San Fortunato, nel centro cittadino. Il prodotto di questi uvaggi puri o misti, ma al cento percento provenienti da vitigni autoctoni, trova largo impiego non solo negli abbinamenti, ma anche nella preparazione stessa di primi piatti e cacciagione. Dal canto suo, Torgiano Riserva, che per disposizione del disciplinare deve essere sottoposto ad almeno tre anni di invecchiamento – dei quali sei mesi in bottiglia, di vetro tipo bardolese o borgognotta – è perfettamente indicato per pastasciutte, pollame nobile, arrosti e formaggi stagionati. Viene anche diluito e utilizzato per comporre delle opere inedite: ogni anno, gli artisti di Torgiano dipingono infatti i vinarelli, sorta di acquerelli color borgogna venduti per sostenere le attività culturali del borgo.
Tutte queste roccaforti di produzione sono comprese in specifici itinerari, la cui chiave di volta è l’eccellenza: Torgiano è compreso sotto la Strada dei Vini Cantico, mentre l’Associazione Strada del Sagrantino abbraccia Montefalco e le sue colline.
Ma i percorsi non finiscono qui: la Strada del Vino Colli del Trasimeno comprende, ad esempio, i borghi di Corciano – definita anche città del pane per la sua lunga tradizione produttiva ma, prima di tutto, animata dall’annuale Castello diVino, ricco di concorsi a tema e degustazioni – e Castiglione del Lago, famosa anche per la regina in porchetta, la carpa del lago aromatizzata al prosciutto.
Non possiamo certo dimenticarci del vin santo, produzione che risente della vicina Toscana, ma che a Citerna trova, nella sua variante affumicata, la denominazione di Presidio Slow Food. Essendo questa una zona da lungo tempo votata alla coltivazione del tabacco, per ottimizzare gli spazi sia le foglie sia i grappoli venivano appesi alle travi, in modo che entrambi potessero seccarsi grazie ai camini o alle stufe. Il fumo che, inevitabilmente, si sprigionava, finiva per donare alle uve quel tipico retrogusto di affumicatura che ancora oggi caratterizza la produzione citernese.

L'olio

L’Umbria e il suo cuore verde sono stati declinati in modi innumerevoli: dalle foreste all’ombra che esse generano, il nome stesso della regione parla di vegetazione, rigogliosa e fresca. Ma come non pensare al verde-argenteo degli olivi che presidiano i pendii?
Per Trevi passa la fascia olivata, una zona, posta a trecento metri di altitudine e lunga 35 km, iscritta nel catalogo dei Paesaggi Rurali Storici per il modo in cui ha cambiato non solo il paesaggio, rendendolo caratteristico, ma anche le vite degli uomini che da tempo se ne prendono cura. La conseguente produzione di olio la annovera, a buon diritto, tra le Città dell’Olio, tra le quali spicca anche il borgo di Lugnano in Teverina: luoghi in cui la tradizione olivicola fa rima con ambiente, con territorio e con un patrimonio umano da tutelare.
Ma che fa il paio, soprattutto, con un’attività antichissima, testimoniata dagli ultimi baluardi di un tempo che fu: olivi millenari, come quello a Villastrada, nel borgo di Castiglione del Lago, o quello a Bovara di Trevi, vecchio 17 secoli, sul quale sembra che fu decapitato nientemeno che il vescovo Emiliano, poi divenuto santo.

«Il (vero) paesaggio è esteso e armonioso, tranquillo, colorato, grande, variato e bello. È un fenomeno principalmente estetico, più vicino all’occhio che alla ragione, più apparentato al cuore, all’anima, alla sensibilità e alle sue disposizioni che allo spirito e all’intelletto, più vicino al principio femminile che a quello maschile. Il vero paesaggio è il risultato di un divenire, qualche cosa di organico e vivente. Ci è più familiare che estraneo, ma più distante che vicino, manifesta più nostalgia che presenza; ci eleva al di sopra del quotidiano e confina con la poesia. Ma anche se ci rimanda all’illimitato, all’infinito, il paesaggio materno offre sempre all’uomo anche la patria, il calore e il riparo. È un tesoro del passato, della storia, della cultura e della tradizione, della pace e della libertà, della felicità e dell’amore, del riposo in campagna, della solitudine e della salute ritrovata in rapporto alla frenesia del quotidiano e ai rumori della città; deve essere attraversato e vissuto a piedi, non rivelerà il suo segreto al turista o all’intelletto nudo.» (Gerhardt Hard)[1]

Associazione Nazionale Città dell’Olio

Foto di Bernardino Sperandio, Sindaco di Trevi

 

Considerato da Simmel come «un’opera d’arte in statu nascendi»,[2] il paesaggio esiste sulla base di tre condizioni sine qua nonnon può realizzarsi senza un soggetto, senza la natura, e senza il contatto tra i primi due. La relazione, in particolar modo, si esprime attraverso i segni, le costruzioni create dall’uomo sul territorio e poi attraverso l’agricoltura,[3]
cartina tornasole della felicità di tale unione. Ma la relazione può essere anche quella data dal visitatore che, con il suo sguardo curioso, caratterizza una zona, legandone i tratti significativi con il concetto di tipicità. 

La pianta della civiltà

Tra Spoleto e Assisi, dove milioni di olivi si susseguono per circa trentacinque chilometri, questa duplice tipologia di relazione trova la sua forma più alta. Nella Fascia Olivata, tesa a settecento metri d’altitudine, la storia dell’olivicoltura inizia infatti molto tempo fa. L’olivo è, per Fernand Braudel, la «pianta della civiltà», perché delimita lo spazio del Mediterraneo antico; l’olio era utilizzato come condimento, per i riti religiosi, ma anche nella farmacopea e per l’illuminazione. Nell’Editto di Rotari (643 d.C.), invece, per chi avesse abbattuto un olivo spettava una pena di tre volte superiore rispetto a quella comminata a chi avesse abbattuto un qualsiasi altro albero da frutto. Infine, secondo Castor Durante da Gualdo Tadino (1586), qualche oliva a fine pasto favoriva la digestione.[4]
Ma senza spendere troppo tempo tra i libri, basta fare una visita a Bovara, nei pressi di Trevi, e ammirare il retaggio di tale tradizione con i propri occhi. Il maestoso Olivo di Sant’Emiliano, con i suoi nove metri di circonferenza e cinque di altezza, è un esemplare vecchio di ben diciassette secoli. Tralasciando per un attimo la storia della decapitazione di Sant’Emiliano, Vescovo di Trevi –legato, almeno secondo un codice del IX secolo, alla pianta e poi decapitato – gli studi hanno infatti dimostrato che si tratta di un genotipo particolare, molto resistente che, come tutti i suoi simili, dopo i primi ottocento anni di vita ha visto la parte interna del suo fusto marcire e le parti esterne dividersi, ruotando in senso antiorario.[5]

Un paesaggio unico

Gli olivicoltori sanno che queste zone dell’Umbria, infatti, richiedono una cultivar piuttosto resistente, capace di aggrapparsi a terreni asciutti, poco adatti a mantenere l’umidità. Il Muraiolo è stato dunque designato come la pianta ideale per scongiurare il rischio idrogeologico della zona e, al tempo stesso, per donare quell’olio tipico dal sapore piccante e amaro, ingentilito da note di erbe aromatiche.[6]
La sua coltivazione ha altresì modificato il territorio, rimodellandolo, formando una fascia continua verso l’alto a spese del bosco. L’ha caratterizzato con ciglioni, lunette e terrazzamenti, rendendolo riconoscibile al punto da permetterne l’iscrizione nel catalogo dei Paesaggi Rurali Storici, insieme agli Altopiani plestini, i campi di Farro di Monteleone di Spoleto, le colline di Montefalco, la rupe di Orvieto, il Poggio di Baschi e i Piani di Castelluccio di Norcia.[7]
Obiettivo che segue l’iscrizione all’Associazione Nazionale Città dell’Olio – che riunisce tutti i Comuni, le Province, le Camere di Commercio e i GAL che producono seguendo dei valori ambientali, storici, culturali o incentrati sulle DOP – e prelude al riconoscimento della zona come Paesaggio Alimentare FAO (sarebbe il primo in Europa) e poi come sito UNESCO 
Il pericolo maggiore in cui il paesaggio può incorrere – non venire iscritto nella memoria collettiva ed non essere quindi riconosciuto come caratteristico di una determinata zona del Pianeta – è dunque scongiurato: non c’è persona, sia essa nata in quel luogo o proveniente da lontano, che possa prescindere ora la Fascia Olivata dalle città di Assisi, Spello, Foligno, Trevi, Campello sul Clitunno e Spoleto.  

 

arte

Foto di Bernardino Sperandio, Sindaco di Trevi

Garanzie

L’obiettivo non è tuttavia quello di ridurre il territorio a museo, ma di metterlo in relazione con il suo retaggio culturale e comunitario, anche per preservarlo dai cambiamenti che potrebbero distruggerlo. Non sono infatti così lontani gli anni della Prima Guerra Mondiale, quando gli olivi venivano tagliati per supplire alla mancanza del carbone nelle fabbriche del Nord; o le terribili gelate del 1929 o del 1956, che portarono ad una significativa contrazione della produzione. Non sono lontani nemmeno gli anni Sessanta, quando la moda vessava l’olio d’oliva in favore di quello di semi, come pure non sono scomparse le difficoltà a reperire manodopera per ogni raccolta autunnale. Tanto più che i dettami stabiliti dalla Cooperativa di Olivicoltori di Trevi, nata nel 1968 per superare la dimensione familiare, sono molto severi: tutte le olive devono provenire dal territorio in questione, devono essere raccolte a meno e consegnate al frantoio dopo poche ore dalla raccolta, per essere poi molite nel giro di dodici ore per mantenere i giusti livelli di acidità e ossidazione.  
Non c’è spazio per l’industrializzazione e la produzione di massa: questa Fascia si mantiene aderente alla genuinità delle cose antiche nello stesso modo in cui avvolge i versanti collinari, anche quelli più aspri. In questo modo anche il visitatore potrà goderne, magari passeggiando lungo il Sentiero degli Olivi tra Assisi e Spello, o lungo quello di Francesco di cui l’olivo stesso è simbolo. Potrà ricollegare senza indugio le argentee chiome al sapore piccante della bruschetta con l’olio nuovo –l’Oro di Spello[7] – che gli si riverserà in bocca, donandogli la stessa consapevolezza e saggezza di quegli antichi popoli del Mediterraneo che preservarono la civiltà donando alla terra alberi di oliva.

 


[1]G. Hard, Die «Landschaft» der Sprache und die «Landschaft» der Geographen. Semantische und forschunglogische Studien, Bonn Ferd-Dümmlers Verlag, 1970, in M. Jakob, Il Paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009.
[2]G. Simmel, Philosophie der Lanschaft, in M. Jakob, Il Paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009.
[3] M. Jakob, Il Paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009.
[4] Ulivo e olio nella storia alimentare dell’Umbria, in www.studiumbri.it
[5] TreviAmbiente > paesaggi da gustare, 2015
[6] Umbria: protezione di un’origine, a cura di D.O.P. Umbria, Consorzio di tutela dell’olio extra vergine di oliva, 2014.
[7]Da www.reterurale.it
[8] L’Oro di Spello è una manifestazione annuale che riunisce la Festa dell’Olivo e la Sagra della Bruschetta.

 


 

L’articolo è stato promosso da Sviluppumbria, la Società regionale per lo Sviluppo economico dell’Umbria

 


 

 

Per saperne di più su Trevi Per saperne di più su Spello

Giovanni di Pietro detto Lo Spagna per l’origine spagnola della sua famiglia (Spagna 1470 – Spoleto 1528) è tra i protagonisti dell’arte pittorica umbra tra XV e XVI secolo. Meno conosciuto rispetto ad altri seguaci del Maestro umbro Pietro Vannucci (per citare i suoi allievi più celebri: Pinturicchio e Raffaello), è un artista interessante e molto gradevole che vale la pena approfondire.

Il Maestro

Il giovane Giovanni si trovava probabilmente a Firenze intorno al 1493 quando Pietro Vannucci, detto Il Perugino, era tra i quattro maestri più in vista della città insieme a Botticelli, Filippino, e Ghirlandaio. Perugino assunse in quegli anni un ruolo di guida aprendo bottega presso l’Ospedale di Santa Maria Nuova; il suo laboratorio era tra i più attivi e frequentati anche da numerosi allievi che da tutta Europa giungevano per imparare «la grazia che ebbe nel colorire in quella sua maniera» (G.Vasari, 1568). Questo ci fa pensare che il nostro artista potrebbe essere entrato qui in contatto con il maestro umbro, diventandone in seguito allievo e collaboratore.

Influssi e primi lavori

Quando nel 1501 Perugino aprì bottega a Perugia, ricco comune che voleva rinnovarsi nello stile e nel gusto contemporaneo che proprio l’artista, originario del contado perugino, aveva con successo elaborato nella grande Firenze, Giovanni lo seguì, entrando in contatto probabilmente anche con Raffaello, altro giovane seguace del Perugino. Col Maestro, Giovanni lavorerà al ciclo di affreschi per il Convento francescano di Monteripido del quale rimane un affresco staccato con San Francesco che riceve le stimmate, conservato alla Galleria Nazionale dell’Umbria, che si trovava sul timpano della facciata della chiesa.
La critica è concorde nel vedere nello stile pittorico di Giovanni di Pietro
un‘adesione forte a modelli perugineschi, passaggio fondamentale per la formazione del pittore e per ottenere commissioni, ma anche l’abilità di saper raccogliere l’influsso di Raffaello, mantenendo allo stesso tempo un linguaggio personale, semplice e ricco di finezze coloristiche e di grazia. Alcune sue opere sono oggi parte delle collezione dei musei più importanti del mondo, per citarne alcuni: Londra (National Gallery), Parigi (Musèe du Louvre), Roma (Pinacoteca dei Musei Vaticani).

Dai primi passi al successo

Agli inizi del 1500 l’ambiente perugino è sotto il controllo della bottega del Vannucci e, come altri collaboratori del Perugino – tra cui Pinturicchio – lo Spagna si dovrà trasferire in cerca di lavoro per poter creare un proprio entourage. Sarà in altri centri umbri che decollerà la sua carriera artistica.

Rilevante è la città di Todi, bella ed elegante cittadina che domina la valle del Tevere: nel 1507 venne stipulato a Todi il contratto tra il pittore e gli osservanti della chiesa di Montesanto per la creazione di una pala d’altare raffigurante l’Incoronazione della Vergine (Todi, Museo civico) (fig.1), completata nel 1511 quando il pittore vi andrà ad abitare e a costituire una società. Oltre alla pala di Montesanto, Giovanni lavorò nel duomo dove affrescò diverse cappelle (tra gli anni 1513 e 1515) decorando anche l’organo (1516). Rimangono due tavole con S. Pietro e S. Paolo e un lacerto di affresco raffigurante una Trinità (quarta navata sulla destra, Cattedrale di Santa Maria Annunziata, Todi).

Altro importante centro umbro per la carriera de Lo Spagna è la città di Trevi, borgo che da un’altura del monte Serano, domina splendidamente la valle spoletina, dimora di potenti famiglie locali. Qui l’artista è chiamato da Ermodoro Minerva, ambasciatore di Ludovico Sforza, per decorare la Cappella di San Girolamo nella chiesa di S. Martino. La lunetta con la Vergine in gloria con i Santi Girolamo, Giovanni Battista, Francesco e Antonio da Padova datata 1512 è un affresco con evidenti richiami perugineschi, paesaggio ideale e ameno, ma dai colori più decisi. Per la stessa chiesa realizzerà nel 1522 una imponente pala d’altare con Incoronazione della Vergine (ora alla pinacoteca del Complesso museale di San Francesco) ricca di toni puri, raffinati e cangianti, solida costruzione delle figure, materie e oggetti attentamente descritti con resa illusionistica, derivata dal prototipo di Filippo Lippi nel Duomo di Spoleto (1467-69) e da un’Incoronazione della Vergine del Ghirlandaio, che realizzò a San Girolamo a Narni nel 1486; entrambe furono da riferimento anche per Raffaello nel 1505 per la pala di Monteluce a Perugia. Sempre a Trevi il maestro spagnolo, oramai richiesto e apprezzato in tutta l’Umbria, decorerà la chiesa della Madonna delle Lacrime tra 1518 e 1520 con riferimenti allo stile del richiestissimo Raffaello, in particolare nella scena del Trasporto di Cristo, dove c’è un forte richiamo al capolavoro del maestro urbinate eseguito per la cappella Baglioni di Perugia nel 1507, oggi alla Galleria Borghese a Roma. Testimonianza dell’evoluzione dell’artista spagnolo quindi in continuo e rapido rinnovamento, stimolato da continuo studio e approfondimento, al passo con le richieste delle committenze più facoltose.

Nel 1516 gli venne concessa la cittadinanza spoletina, testimonianza del fatto che Giovanni risiedeva a Spoleto già da diversi anni. Il 31 agosto 1517 viene nominato capitano dell’Arte dei Pittori e degli Orefici, conferma del riconoscimento del ruolo di caposcuola. Dal 1516 in poi la sua attività è attestata a Spoleto e nei centri circostanti, sia su base documentaria, sia attraverso un nutrito gruppo di opere, nelle quali traspare la presenza di aiuti e l’attività di una bottega che ne aveva assimilato la maniera.
Tra le opere più
interessanti e significative, la Madonna Ridolfi, una Madonna con il Bambino tra i Santi Girolamo, Niccolò da Tolentino, Caterina e Brizio, commissionata da Pietro Ridolfi, governatore di Spoleto dal 1514 al 1516 (Spoleto, Palazzo comunale) e le Virtù dipinte per la Rocca, staccate nel 1824 e ricomposte in un monumento dedicato a Leone XII (Palazzo comunale). La disposizione e l’iconografia delle tre figure allegoriche, la Giustizia in alto, con la Carità e Clemenza ai lati, suggeriscono la destinazione verso un ambiente con funzioni giudiziarie.

Spoleto – San Giacomo

Nella Carità, concepita secondo una composizione rotante, e nella Clemenza, caratterizzata da uno scorcio che conferisce efficacia retorica a gesti e posture, si riflettono soluzioni elaborate da Raffaello negli anni romani, suggerendo così una cronologia abbastanza avanti nel tempo.
Lungo la via Flaminia, poco lontano da Spoleto, per la chiesa di
San Giacomo Apostolo, protettore dei pellegrini, nel 1526 Giovanni di Pietro è chiamato a decorare l’abside e due cappelle. Nel catino raffigura una Incoronazione della Vergine e sulla parete San Giacomo e il Miracolo dell’impiccato e il Miracolo dei galli. Straordinaria ricchezza di dorature, colori e ornamenti a grottesca, affollato di figure e scenicamente complesso: qui Lo Spagna raggiunge uno degli esiti più alti della sua attività, una rara testimonianza umbra della maniera moderna.

In questi anni, insieme alla bottega, Lo Spagna lavorò in Valnerina: nella chiesa di S. Michele Arcangelo a Gavelli, ove vi sono affreschi datati 1518 e 1523; a Visso nella chiesa di S. Agostino; a Scheggino, dove, infine nel 1526 sottoscrisse il contratto per la decorazione della tribuna della chiesa di S. Niccolò per la quale gli furono offerti 150 fiorini.

Eredità

Lo Spagna morì forse di peste, nell’ottobre del 1528: il decesso è attestato da una carta dell’Archivio capitolare di Spoleto che riferisce che nel giorno 9 di quel mese vennero ricevuti i ceri per la cerimonia funebre: «die 9 octobris, havemmo per la morte dello Spagna pictore quatro torcie» (Gualdi Sabatini, 1984, p. 395).

Dono Doni fu il seguace più noto, ma non il solo a raccoglierne il testimone, la sua fiorente bottega costituisce ancora oggi un aspetto caratterizzante del patrimonio artistico della zona spoletina e della Valle del Nera. Tra i collaboratori vanno ricordati Giovanni Brunotti e Isidoro di ser Moscato, Giacomo di Giovannofrio Iucciaroni (1483-1524 circa) attivo in Valnerina; Piermarino di Giacomo che nel 1533 terminò gli affreschi di Scheggino.

 

PER INFO:

TodiMuseo civico (chiuso lunedì, orari 10.00-13.00/ 15.00-17.30), Cattedrale di Santa Maria Annunziata (apertura orario continuato 9.00-18.00), uff. turistico tel. 075 8942526

TreviPinacoteca complesso museale di San Francesco (aperto da venerdì a domenica dalle 10.30-13.00/ 14.30-18.00), altri spazi apertura su richiesta. ProTrevi tel. 0742 781150

SpoletoPalazzo Comunale (orari da lun a ven 9.00-13.00, lun e gio 15.00-17.00), uff. turistico tel.  0743218620/1

 

 


Fausta Gualdi Sabatini, Giovanni di Pietro detto Lo Spagna, Spoleto, Accademia Spoletina, 1984.
Pietro Scarpellini, Perugino, Electa, MIlano 1984.
Perugino: il divin pittore, cat. della mostra a cura di Vittoria Garibaldi e Federico Francesco Mancini, (Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria 2004), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2004.
Giovanna Sapori, Giovanni di Pietro: un pittore spagnolo tra Perugino e Raffaello, Milano, Electa, 2004