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«Costui fu discepolo dello Angelico fra’ Giovanni, a ragione amato da lui, e da chi lo conobbe tenuto pratico di grandissima invenzione, e molto copioso negli animali, nelle prospettive, ne’ paesi e negli ornamenti» (Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani da Cimabue, insino a’ tempi nostri)

Sono pochi i dati biografici rimasti sul fiorentino Benozzo di Lese di Sandro, meglio conosciuto come Benozzo Gozzoli. Stretto collaboratore di Beato Angelico, anzi suo consocio, amava replicare i bambolotti dall’espressione un po’ esangue del maestro, senza riuscire a superarlo, senza mai spingersi oltre il confine. Tuttavia nelle sue prime opere riuscì a raggiungere un mirabile equilibrio tra la saldezza delle forme nella luce piena e un disarmante candore.

 

Narni

L’Annunciazione nella Pinacoteca di Narni

Una grande opera firmata

Questi caratteri si riconoscono perfettamente nelle opere umbre del pittore. Non solo nel ciclo delle storie della vita di San Francesco, affrescate nell’omonima chiesa di Montefalco, ma anche nell’Annunciazione della Vergine, una pala d’altare ritrovata a Narni e tuttora conservata nella Pinacoteca del paese.
L’opera è una grande tempera su tavola, larga 117 centimetri e alta 142, di attribuzione certa, in quanto firmata dallo stesso pittore che, lungo il bordo inferiore del tendaggio di broccato dietro la Vergine, ha inciso in maiuscolo: «OPV[S] BENOTI[I] DE FLORENTI[A]». Questa non è l’unica iscrizione. Ne compare un’altra sul mantello della Vergine: «AV[E] REGINA».
I personaggi della pala, l’Arcangelo Gabriele e Maria, si trovano in un portico, del quale sono visibili due pilastri. La Vergine, con le mani incrociate sul petto, è inginocchiata su un piccolo sgabello, ricalcando il modello dell’Angelico nella terza cella del convento di San Marco a Firenze. Nella parte alta sono ancora parzialmente visibili i raggi di luce, probabilmente completati originariamente dalla figura, oggi perduta, dell’Eterno o della Colomba dello Spirito Santo che dall’alto illuminava la scena. La raffinatezza dell’opera trova riscontro nella cura e nell’eleganza dei dettagli, come ad esempio nelle lumeggiature delle unghie delle mani dei personaggi, nel realismo delle doppie chiavi e nella raffinata decorazione a intarsio del cassone ligneo che si trova alle spalle di Maria.

Danni e restauri

L’opera è molto danneggiata e ha subito diversi interventi di restauro (1901, 1933, 1947, 1952, 1988, 2002). La firma dell’autore era già visibile prima dell’intervento del 1988, anche se questa è la data che è sempre stata accettata per la scoperta dell’iscrizione. Già nel 1959, infatti, Castellani poteva notarla. Forse, però, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, a causa del cattivo stato di conservazione non era più facilmente leggibile, tanto che il Guardabassi attribuì la tavola a Pierantonio Mezzastris, mentre Eroli la riteneva più genericamente «di scuola umbra».
A restituirla al Gozzoli fu Pératé nel 1907, che la datò al 1450-1452. L’attribuzione al Gozzoli fu accolta anche da Gnoli, il quale successivamente collocò il dipinto intorno al 1449, ritenendola «la più antica opera del maestro fiorentino». Ancora oggi il dipinto viene datato intorno al 1449, in una fase precoce del soggiorno in Umbria del maestro fiorentino che si estese per un periodo di cinque anni. Nel 1449 il pittore è documentato a Orvieto, città non troppo distante da Narni che all’epoca rappresentava un importante centro dello Stato Pontificio, non troppo distante da Roma.
Per quanto riguarda la collocazione, il Guardabassi, alla fine dell’800, la colloca nella chiesa di Santa Maria Maggiore, oggi San Domenico, e scrive: «II Cappella. L’ingresso fu architettato sullo scorcio del XV secolo, alla bellezza delle linee corrispondono sculture ornamentali. Interno. Parete S: Tavola a tempra – l’Annunciazione; opera del Mezzasti». Da Eroli, invece, sappiamo che nel 1898 l’opera già non era più lì: «La seconda Cappella fu denudata de’ suoi ornamenti, come anco de’ quadri che l’abbellivano (…) Non men vaga una piccola tavola, che io vidi quivi appiccata in sulla parete destra dell’altare, avente in sé l’Annunziata, che non dubito attribuire alla scuola umbra; ma i tarli hanno fatto danno, e in breve perirà, se il Municipio, che oggi halla in custodia, non la cura e risana».

Un problema di committenza

Se l’attribuzione dell’opera è certa, incerta è la committenza. La vicinanza di Narni con Orvieto ha sollevato il probabile legame con un’opera raffigurante l’Annunciazione, che era stata richiesta a Benozzo da una «domina Gianna Gregorii» e che era rimasta incompleta per l’insolvenza della committente. Benozzo allora cercò di cedere il dipinto all’Opera del Duomo di Orvieto, offrendosi di ultimare a sue spese il lavoro iniziato. Quelli accettarono l’offerta, dichiarandosi disposti a sostenere il costo dei colori, purché lo stemma di donna Gianna fosse sostituito con quello della Fabbrica del Duomo. Di questo dipinto tuttavia non si conosce né la sorte, né la tecnica esecutiva, ma non è escluso che l’opera fosse quella arrivata poi in modo sconosciuto a Narni.
Un’altra ipotesi è che Benozzo fosse entrato in contatto con i frati domenicani della chiesa di Santa Maria Maggiore di Narni per intermediazione dell’Angelico. In effetti, diversi elementi iconografici, uniti all’originaria collocazione all’interno della chiesa domenicana, portano a rendere più plausibile una committenza narnese. Alcuni dettagli apparentemente solo decorativi, hanno in realtà una funzione fortemente simbolica; se accettiamo la committenza narnese possono fornire importanti indizi non solo sulla committenza stessa, ma anche sulla destinazione dell’opera.

Significati simbolici


Particolare importanza riveste il motivo decorativo del tappeto ai piedi di Maria, costituito da uno stuolo di cani neri, posti tutto intorno alla Madonna, quasi schierati a sua difesa. È probabile che in essi vada vista un’allusione ai frati predicatori secondo un gioco di parole basato sul loro nome latino, Dominicanes; i seguaci di Domenico, infatti, si ritenevano Cani del Signore, appunto Domini canes, in quanto difensori dell’ortodossia cattolica, in particolare per la loro funzione di inquisitori delle eresie. Un altro elemento che rafforza questa tesi è fornito dal colore dei cani, neri con il contorno bianco. Questi sono degli stessi colori del saio indossato dai frati dell’ordine dei Predicatori. Del resto, come già detto, Benozzo era entrato in contatto con i domenicani grazie al suo lungo sodalizio con Beato Angelico, e con questo ordine rimase sempre legato, eseguendo per esso numerosi lavori in diverse città. Un altro elemento a favore della committenza narnese è dato dalla decorazione floreale presente sui pilastri del loggiato che divide l’Arcangelo Gabriele dall’Annunziata. Le foglioline sono chiaramente foglie di edera, raffigurate sia nella forma stilizzata, a cuore, sia in quella più naturalistica. La versione cuoriforme di queste è distintiva della casata degli Eroli e sono presenti nello stemma della nobile famiglia narnese che in questo periodo storico arricchì con molte opere d’arte le chiese cittadine. Dunque quella che sembrava solo una decorazione, probabilmente rappresenta un preciso riferimento alla committenza e pertanto è posto significativamente al centro dell’opera. È molto probabile quindi che il committente sia stato il cardinale Berardo Eroli che, dati i suoi stretti rapporti con alcuni dei maggiori esponenti del mondo politico e religioso del tempo (Niccolò V, i Medici a Firenze, Sant’Antonino Pierozzi, per esempio), potrebbe essere entrato in contatto con l’artista fiorentino e avergli affidato l’opera.

 


Museo della Città

via Aurelio Saffi, 1 – Narni (TR)

Orari di apertura:
aprile-giugno
dal martedì alla domenica, festivi e prefestivi 10.30-13.00/15.30-18.00
chiuso il lunedì
settembre
tutti i giorni 10.30 – 13.00 / 15.30 – 18.00
ottobre-marzo
venerdì, sabato, domenica, festivi e prefestivi 10.30-13.00/15.00-17.30
Chiuso il 25/12. Il 01/01 solo orario pomeridiano.

Telefono: 0744 717117

E-mail: narni@sistemamuseo.it


Bibliografia:

G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue a’ tempi nostri, Firenze, per i tipi di Lorenzo Torrentino, 1550

E. Lunghi, Benozzo Gozzoli a Montefalco, Assisi, Editrice Minerva, 2010

A. Novelli, L. Vignoli, L’arte a Narni tra Medioevo e Illuminismo, Perugia, Era Nuova, 2004

B. Toscano, G. Capitelli, Benozzo Gozzoli allievo a Roma, maestro in Umbria, Silvana Editoriale, 2002

INGREDIENTI
  • 400 g di farina di granoturco
  • 2 uova
  • qualche cucchiaio di farina di frumento
  • 2 cucchiai di semi di anice
  • 4 cucchiai di zucchero
  • 2 cucchiai di Mistral
  • 1 scorza grattugiata di limone non trattato (solo la parte gialla)
  • olio o strutto per friggere
  • sale

 

PREPARAZIONE:

Portate a ebollizione un litro e tre quarti d’acqua leggermente salata, versatevi a pioggia la farina di granoturco e, sempre mescolando fate cuocere per una quarantina di minuti, aggiungendo un po’ di acqua calda, se necessario, perché dovrete ottenere una polenta ben cotta ma morbida. Toglietela dal fuoco, unite il Mistral, la scorza grattugiata di limone, l’anice, lo zucchero, le uova e un po’ di farina di frumento. Buttate questo composto in olio bollente o in strutto ben caldo a cucchiaiate, estraete e passate le frittelle su carta da cucina che ne possa assorbire l’olio in eccesso.

 

 

Le frittelle di farina di granoturco si gustavano il giorno di San Giuseppe in alcune zone dell’assisano. Questa particolare ricetta viene da Capitan Loreto, dove vengono chiamate frittelle di polenta.

 

Per gentile concessione di Calzetti-Mariucci editore

 

«Il compito di un arbitro è quello di far parte dello spettacolo e quello di non farsi ricordare»

Queste le parole di Fabrizio Saltalippi, perugino di 55 anni, di cui trentanove passati con il fischietto al collo ad arbitrare partite di pallavolo. Gli restano solo tre mesi di attività, poi se ne andrà in pensione, ma nel suo palmarès ci sono 500 gare in serie A, 180 gare internazionali, tre Europei e due Mondiali. Una vera eccellenza umbra di questo sport.

pallavolo-arbitro

Fabrizio Saltalippi, 55 anni

Qual è il suo legame con l’Umbria?

È un legame fortissimo. Sono nato e cresciuto a Perugia, e tuttora ci vivo. Anche se sono vent’anni che lavoro fuori, sia in Italia sia all’estero, non ho mai pensato di lasciare questa città. Non me ne andrei per nulla al mondo.

Lei, lo scorso agosto, è stato designato per arbitrare la partita inaugurale del Campionato Europeo di Pallavolo in Polonia: come si affronta – psicologicamente e fisicamente – un evento del genere?

Questa partita è stata importante per due motivi: il primo perché era la gara inaugurale di un Europeo, quindi aveva un impatto mediatico di alto livello e grande importanza; il secondo perché la Polonia ha avuto la brillante idea di giocarla – per battere il record di presenze – nello stadio di calcio di Varsavia, davanti a un pubblico di sessantacinquemila spettatori. Un ambiente del genere, ovviamente, mette pressione, quindi conta molto il nostro allenamento, che ci aiuta a mantenere la concentrazione e a gestire l’ansia. Durante la partita ti senti responsabile di quello che accade e speri che tutto vada nel modo migliore. In quell’occasione andò tutto liscio, anche se la Polonia perse 3-0 contro la Serbia. Mi ricordo che i primi 5 o 6 punti furono un po’ difficili, poi è iniziata la routine e la partita si è trasformata in una normalissima gara, una delle tante arbitrate.

È un veterano di questi eventi, ha rappresentato l’Italia in tre Europei e due World Cup: cosa pensa quando entra in campo durante queste manifestazioni?

Non ho mai sentito lo stress e la tensione prima di una gara, ma solo la voglia di scendere in campo e il piacere di divertirmi e far divertire. Il compito dell’arbitro è quello di far parte dello spettacolo, di dare la possibilità al pubblico di godere di una bella partita, il tutto senza farsi notare. Se un arbitro, a fine gara, non viene ricordato vuol dire che ha fatto un ottimo lavoro.

Quando toglie la divisa stacca col mestiere di arbitro, oppure ripensa a qualche eventuale errore o decisione presa durante una gara?  

Appena si toglie la divisa c’è un calo di tensione e l’adrenalina si libera, ma non si smette di pensare alla gara, anzi, avviene la revisione critica. Riguardo il video della partita per vedere se e dove ho sbagliato: in particolare mi concentro sulle situazioni contestate in campo perché, se sono effettivamente degli errori, mi servono per crescere ed per evitare di ripeterli, se invece la mia decisione era corretta è una gratificazione personale, e anche quella aiuta molto.

La pallavolo in Umbria, soprattutto a Perugia, ha seguito e sta ottenendo buoni risultati: possiamo considerarla un’eccellenza del territorio?

La pallavolo è sicuramente un’eccellenza, basta pensare a tutto quello che ha vinto in passato la Sirio Perugia o a quello che sta facendo ora la Sir Safety Umbria Volley. Occorre però potenziare le serie minori, ripartendo dalle fondamenta.

Come ad esempio i settori giovanili?

Esatto. Questo è fondamentale. Vanno attirati i giovani, distratti purtroppo dal calcio. Una volta un ragazzo che superava il metro e ottanta giocava per forza a pallavolo, ora invece, può giocare anche a calcio. Questo sport ne risente.

Un consiglio a un giovane che vorrebbe iniziare la carriera di arbitro.

Amare questo sport, quasi più di un giocatore, al di là degli obiettivi che si possono raggiungere. Avere passione, entusiasmo e la voglia di entrare a far parte del gioco stesso. L’arbitro non è un’entità staccata, fa parte della partita e dello spettacolo a tutti gli effetti.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Verde, unica, splendida.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

Le bellezze architettoniche. Quando all’estero mi domandano dove abito, mi rendo conto che in pochi conoscono l’Umbria, allora gli spiego che questa è la terra degli Etruschi, un popolo più antico di quello romano. Spero di incuriosirli…

La luce colorerà il buio”: è questo il motto della mostra, per riportare nelle regioni terremotate la luce della vita. Il progetto artistico, ideato da Rosaria Mencarelli, realizzato da Paola Mercurelli Salari con la direzione artistica di Gisella Gellini e Claudia Bottini, in collaborazione con Fabio Agrifoglio, presidente della Fondazione Mario Agrifoglio e degli studenti del corso Light Art e Design della Luce del Politecnico di Milano, è nato a pochi mesi dal sisma del 2016 per sostenere il recupero del patrimonio culturale danneggiato attraverso una raccolta fondi finalizzata al restauro. 
L’allestimento è stato affidato all’exhibition designer Gaetano Corica, autore anche del progetto foto-video dell’esperienza, video a cura di Cecilia Brianza.

Inaugurata durante il Natale 2017, la mostra è stata concepita fin da subito come un grido di speranza: Il buio non esiste, è soltanto l’assenza della luce. Attraverso le opere di Black Light Art, il pubblico è stato stimolato a una differente percezione della luce, come veicolo di messaggi emotivi e culturali, con una forma di comunicazione immediata e partecipativa.  
Ideata come una mostra itinerante esposta a Milano e a Como, raggiunge ora la Rocca Albornoziana di Spoleto, entrando in dialogo con la Light Art del Palazzo Ducale di Gubbio e mettendo per la prima volta in sinergia due strutture del Polo museale dell’Umbria. Visto il grande successo di pubblico, Lightquake 2017 a Spoleto è stata prorogata fino all’8 Aprile! 
 

Light Art

Gli artisti che esplorano le valenze artistiche della luce nera a Spoleto sono: Mario Agrifoglio, Nino Alfieri, Alessio Ancillai, LeoNilde Carabba, Claudio Sek De Luca, Giulio De Mitri, Nicola Evangelisti, Maria Cristiana Fioretti, Federica Marangoni, Yari Miele, Ugo Piccioni, Sebastiano Romano. Importante la figura di Mario Agrifoglio, artista che ha fatto della Black Light il fulcro della sua sperimentazione artistica. 
Ma che cosa è Black Light Art? Le radiazioni ultraviolette non sono direttamente percepite dall’occhio, si evidenziano solo quando colpiscono superfici coperte da particolari pigmenti, provocando la fluorescenza di alcuni materiali e dando vita all’effetto metamerico (ovvero la trasformazione di un colore sotto luce solare in qualunque altro colore sotto luce nera). Le opere sembrano così emergere dal buio, per approdare a orizzonti visivi inusitati, caricandosi di una forte valenza spettacolare e, soprattutto, interattiva. 

La relazione tra la luce e l’oscurità

La luce, o meglio, la relazione fra luce e oscurità, fra buio e illuminazione, diventa elemento suggestivo e suggestionante per la ricerca artistica contemporanea. L’Ambiente spaziale a luce nera di Lucio Fontana, realizzato alla Galleria del Naviglio di Milano nel 1949, non è solo la prima esemplificazione di Black Light Art ma è anche il primo tentativo di superamento dello spazio attraverso l’utilizzo della luce. Questo environnement di cartapesta, vernice fosforescente e luce di Wood, presenta grandi forme astratte, organiche, allungate e colorate, appese al soffitto violaceo. Le forme fluorescenti diventano l’unico punto di riferimento della sala. Uno spazio artistico costruito artificialmente che si estende e mira a essere un mondo in sé, un luogo sperimentale dove lo spettatore deve essere co-autore e consapevole fruitore. Per questo è importante citare Giuseppe PinotGallizio e la sua pioneristica Caverna dell’Antimateria: ambiente guscio, un antimondo atomico dove giocano al suo interno la luce di Wood, componenti elettroniche e musicali, esposta alla galleria Drouin di Parigi nel 1959. In Italia, nel frattempo, la Black Light Art si arricchisce delle esperienze dell’arte programmata e cinetica dello Spazio elastico di Gianni Colombo, 1967. All’interno di quest’opera il movimento degli elastici, visto attraverso la luce di Wood, crea nel pubblico sorprendenti effetti di disorientamento. Colombo descrive Spazio elastico come uno stato semi onirico, «che subisce osmosi dimensionale continue… espandendosi in ogni direzione». Negli stessi anni, Dan Flavin aveva sviluppato molte delle sue sculture con tubi fluorescenti creando, nel 196,8 una intera galleria di luce ultravioletta a Documenta 4, a Kassel. 
La dimensione immateriale di queste storiche installazioni è perfettamente ricreata nelle sale della Rocca grazie alla luce nera di Wood, che muta i colori e la percezione delle opere degli artisti. Ogni spettatore entrandovi sarà solo con se stesso; al limite tra conscio e inconscio vivrà una nuova esperienza sensoriale e visiva, poiché come scrisse Padre Kircher nell’Ars Magna Lucis et Umbrae del 1646, «Nulla è visibile in questo mondo se non alla condizione di una luce mescolata di tenebre».  
 


 

Info e prenotazioni 

Sistema Museo | 340 5510813  

www.sistemamuseo.it 

Facebook e Instagram | Lightquake 2017 Spoleto-Gubbio 

 

Per saperne di più su Spoleto

Il  pittore inglese Graham Dean, plasma «magnifiche modelle, atleti, incredibili feticisti del bondage, gemelli omozigoti, individui con imperfezioni fisiche» usando i loro corpi come «veicoli d’espressione»[1]. Attraverso i suoi incredibili e innovativi acquerelli, narra emozioni, idee e ricordi, giocando con i contrasti e con strati innumerevoli. Guardando ai suoi rossi, è facile immaginarsi le luminose tinte dell’India, ma difficilmente potremmo credere che Dean sia stato ispirato anche dall’Umbria.

 

Era il 1992 quando Graham Dean, nato a Birkenhead, nel Merseyside, venne in Italia per trascorrere sei mesi di soggiorno-studio alla British School di Roma. Aveva vinto un prestigioso premio – il Senior Abbey Award in Painting – e aveva sfruttato la possibilità offerta di vivere e visitare Roma e le città circostanti. Da quel momento in avanti, l’Italia gli entrò nel cuore.
Durante le numerose visite fuori Roma, Graham visitò la rinomata città di Assisi e poi, sulla via del ritorno, si fermò in una piccola cittadina sul Lago Trasimeno.
«Non sapevo niente dell’Umbria, ma mi soffermai sul lago e sulle terre che lo circondano, chiedendomi come mai questo posto fosse un tale segreto. Perché era così poco conosciuto?» afferma Graham. «Una volta tornato a Roma, giurai che un giorno sarei tornato per comprarvi una casa e, magari, uno studio».

Era solo l’inizio: Graham Dean, che ha esposto in numerose personali in tutto il mondo, rimase cposì folgorato dall’Umbria che, adesso, possiede una casa-studio tra Migliano e San Vito, a circa 15 minuti da Marsciano. Torna in quella tenuta, circondata da campi e costeggiata dal fiume Fersenone, circa cinque o sei volte l’anno.
«Nello studio, lavoro sui progetti o sulle idee. Posso contare sulla gran quantità di tempo che ho, per pensare e riflettere. Mi sono accorto, nei quindici anni che possiedo la casa, che questo è l’unico ambiente in cui posso rilassarmi completamente. C’è un’atmosfera che è difficile da descrivere, a meno che non la si sperimenti in prima persona, e tutti quelli che vengono a farmi visita lo confermano. Cerco di non idealizzare troppo, so che per le persone che vivono qui – soprattutto i giovani – può essere difficile vivere serenamente, viste le difficoltà economiche».

Come pittore del corpo umano, Graham Dean si è accorto che sta lentamente focalizzando la sua attenzione sull’idea del paesaggio e sul senso dell’altro che sia lui che i suoi amici sperimentano nella casa di Migliano. Sente che l’Umbria come un territorio nuovo, da esplorare.
Quale sarà il suo prossimo passo? Gli piacerebbe fare una grande mostra dei suoi lavori proprio qui, in Umbria, ma ancora attende proposte! Questo perché, nonostante numerosi giovani pittori abbiano cercato di agevolarlo, le istituzioni non l’hanno fatto, il che ha portato a una situazione d’impasse.
Ma chi lo sa? Scommettiamo che, presto o tardi, vedremo uno degli enormi e bellissimi dipinti di Graham Dean in uno dei nostri musei.

 


Fonte: www.grahamdean.com

 

[1] Adattamento di un articolo scritto da Galerie Maubert, Paris. Settembre 2011, in http://grahamdean.com/about/.

«I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi» scriveva Goethe. Maestri inflessibili che evocano nell’animo di chi li ascolta i misteri e i tormenti del silenzio. Luoghi ancestrali in cui si realizza l’unione di terra e cielo, in cui la verticalità si fonde con la massa, con la pesantezza della terra. Cattedrali di pietra e di ricordi dove la caducità del terreno si eleva a contatto con il celeste.

Pian di Chiavano

L’Altopiano di Chiavano non è altro che il ponte di roccia che conserva ancora saldo il rapporto tra terra e cielo, palcoscenico di un antico anfiteatro le cui platee si perdono tra mosaici di nubi. È come se il pennello di un pittore avesse indugiato su questa parte della Valnerina disegnando la skyline di paesi e campagne in cui l’essere umano si è prontamente insinuato. Ma mai la natura si è prestata docile all’intervento dell’uomo: piccoli fondi ricavati dalla montagna, pascoli improvvisati e tratturi acerbi che, perdendosi nel cuore dell’altopiano, sembrano ricordare a chi li osserva che qui la Natura sempre si manifesta secondo l’ideale leopardiano: madre e matrigna, doppia faccia della stessa medaglia. Modellata dalle fatiche umane fino ad assumere un profilo quasi umano, la campagna appare composta, quasi assopita, in un vortice di colori pastello e giochi d’ombra, in un incedere cromatico molto più simile ai paesaggi dell’antica Scozia che al tipico ambiente collinare umbro.

Scenografie naturali

In tempi di rovinosa perdita dell’identità culturale, l’Altopiano di Chiavano conserva gelosamente reminiscenze polverose di una tradizione popolare ancora viva, che resiste stoicamente alla scomparsa dei suoi più antichi tesorieri. Una tradizione popolare considerabile come il riassunto di molte vite, capace di compenetrare in modo misterioso il senso delle cose, anche di quelle apparentemente più comuni. In prossimità del punto di snodo dell’antico sistema viario romano sorge Coronella, località che deve il suo nome alla colonna di marmo utilizzata dai romani come riferimento nella realizzazione di un qualunque sistema viario[1]. Un paese fantasma, che appare e scompare dietro alberi cresciuti in orti abbandonati; un paese che vive solamente il 15 di agosto, giorno in cui si riaprono gli scuri della chiesa, in una festività tanto semplice quanto sentita. Il mistero della fede che rivive in processioni improvvisate, in edicole sacre che indicano la strada da seguire al pastore e al gregge per la via di montagna, in quelle scalate che sono soprattutto esperienze di vita.
Sulla quinta scenografica di queste vette si proiettano composte e ordinate le ombre degli abitati vuoti e silenziosi, inermi di fronte al trascorrere inesorabile del tempo. Ma è proprio questo silenzio che lascia spazio all’introspezione, un silenzio vuoto di parole, ma non di emozioni. Eppure di silenzi ce ne sono un’infinità e coglierne le differenze non è cosa semplice. Alcuni sono atroci: silenzi di morte e di agghiacciante solitudine, mentre altri sono desiderati, lungamente attesi o sorprendentemente inaspettati. Silenzi eloquenti in cui anche il principio di non-contraddizione viene meno. Silenzi in cui convergono paura e coraggio, lacrime e sorrisi, domande e risposte, coincidentia oppositorum.

 

valnerina

Altipiano di Chiavano da Coronella

Il rapporto dell'uomo con la terra

Cime tempestose, ma per ciò che evocano nell’animo di chi le scruta. E allora, l’atteggiamento migliore da mettere in atto è quello dell’attenzione, quello di fermarsi a contemplare. Perché non sempre si è in grado di comprendere con immediatezza il messaggio nascosto dietro il silenzio della natura. Figure antiche, quasi sinistre, abitano questo silenzioso altopiano. Mani nodose e volti scavati dal sudore, un sudore amaro che trova il suo perché nei generosi frutti della terra. Gente abituata alla faticosa vita di montagna, che rifiuta i facili idoli del cosiddetto progresso. Ed è proprio in quelle mani nodose che va ricercato il significato più intimo di questo morboso attaccamento alla terra, di questa forte devozione alla fatica e al lavoro, che sì nobilita, ma che rende l’uomo simile alle bestie. Eppure sembra quasi che tra i contadini e la natura intercorra un rapporto quasi mistico, capace di infrangere il legame con il sacro e di mescolarsi con il profano fino a confluire come un unico corso d’acqua nel vasto oceano della tradizione popolare. Un territorio complesso che neanche il suo più antico abitante conosce nel profondo, un calderone di tradizioni, cultura e di storie le cui origini sembrano perdersi nella notte dei tempi.
Una terra che trasuda saggezza popolare, in cui si sovrappongono i fantasmi e memorie di un passato lontano, ma mai dimenticato. Un passato glorioso, che affonda le sue radici nei fasti dell’antica Roma e nelle campagne circostanti il piccolo borgo di Villa San Silvestro, paese di appena venti anime divenuto celebre per la presenza di un tempio romano probabilmente dedicato a Ercole. La genesi dell’eroe a cui il tempio è dedicato, risultato dell’unione carnale tra la terrestre Alcmena e Giove, sembra rafforzare ulteriormente il rapporto che intercorre tra questa terra e il cielo, tra la materia e il celeste, tra ciò che è umano e il divino. Proprio sul podio del tempio romano sorge la chiesa del paese, nel punto in cui, in un passato neanche troppo lontano, si innalzavano cori votivi rivolti alle divinità del pantheon romano, in un luogo in cui dimora un profondo timore del divino.
Ed è proprio da Chiavano che inizia il nostro viaggio, dalla terrazza che domina questa terra selvaggia i cui figli, sia nelle grandi gesta che in quelle quotidiane, sono riusciti a esprimere un valore e un ardore in alcuni casi quasi eroici, che solo chi abita a un passo dal cielo riesce a sfoggiare nelle battaglie più dure, in quei sovraumani silenzi che fanno rumore.

 

 


[1] Si tratta della cosiddetta pietra miliare vedi http://www.treccani.it/vocabolario/miliare1/.

«La musica rompe le barriere del linguaggio e va oltre le sovrastrutture, i giudizi o gli stereotipi».

Nil Venditti più che una promessa, oramai è una certezza della musica classica. Nata a Perugia, 23 anni fa, è una vera bacchetta magica. Nonostante la sua giovane età ha già diretto tante orchestre –  ultimamente ha fatto concerti con grandi solisti come Fazil Say al pianoforte e la Philarmonica di Ljubljana oppure Vladim Brodsky al violino e la sinfonica di Rossini – e nell’ottobre del 2017 ha vinto il secondo premio, più il premio speciale dell’orchestra al concorso Jeunesses Musical di Bucharest con Lup Octavian al violoncello. Ora frequenta il master in direzione d’orchestra alla Hochschule der Künste di Zurigo sotto la guida del Maestro Johannes Schlaefli, uno dei maestri più famosi per direttori d’orchestra del mondo.

Nil Venditti, 23 anni

Qual è il suo legame con l’Umbria?

Ho avuto la fortuna di nascere nella splendida Perugia in una maniera un po’ particolare: mia madre è di Ankara, Turchia, è venuta a Perugia per studiare l’italiano all’Università per Stranieri. Mio padre, ciociaro, nato a Roma, è venuto a Perugia supportato negli studi dall’ONAOSI. Si sono incontrati di fronte alla fontana Maggiore, in piazza IV Novembre, e lì è cominciata la loro storia d’amore.

Ha iniziato studiando e suonando il violoncello, quando ha pensato di diventare direttore d’orchestra?

Più che sceglierlo ci sono stata indirizzata. Suonavo nella JuniOrchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e un giorno il direttore, Maestro Simone Genuini, ha deciso di far dirigere alcuni di noi orchestrali, per scopi didattici. Deve aver notato qualcosa di interessante nei miei gesti perché mi ha indirizzata verso le migliori scuole e i migliori docenti italiani per quanto riguarda questa materia.

A 23 anni ha già diretto un Concerto di Natale alla Camera dei deputati e uno al Quirinale e, nel 2015, è stata insignita del premio Abbado istituito dal Miur: dove vuole arrivare? Qual è il suo sogno?

Sembra forse banale, ingenuo, stupido, anche un po’ naïf, ma il mio sogno più grande è sempre stato quello di cambiare il mondo attraverso la musica. La musica ha un potere soprannaturale, capace di rompere le barriere del linguaggio e comunicare direttamente con quella parte di noi che non dipende da sovrastrutture, giudizi o stereotipi.

Come si fa a farsi obbedire da un’intera orchestra?

Più che farsi obbedire da un’orchestra direi che sarebbe meglio se la si riuscisse a sedurre. Se si sale sul podio con tanta umiltà verso persone che hanno indiscutibilmente molta più esperienza di me, e con tanta voglia di fare musica, si incontreranno sempre occhi sorridenti e, oserei dire, persone pronte a darti una mano nella riuscita di un ottimo concerto!

E soprattutto come si trasmettono le proprie idee, la propria visione della musica agli altri componenti?

La prima regola per trasmettere le proprie idee è avercele in testa. Più chiara è l’idea musicale nella mente, più sarà facile trovare un gesto che la esprima in tutti i suoi più piccoli particolari. Poi è chiaro che quando il gesto non basta si può ricorre all’uso della parola, ma questo di solito si verifica di rado.

Una caratteristica fondamentale per un direttore d’orchestra?

Empatia. Chiunque può studiare per anni e anni la musica in ogni suo più piccolo particolare. Chiunque può allenare l’orecchio e sentire se gli accordi sono giusti, chi è calante e chi crescente. Ma ciò che non si può imparare è la capacità di poter comunicare con più esseri viventi in pochi millesimi di secondo e riuscire a creare un ambiente di lavoro sereno e produttivo.

I gesti che fa un direttore, per chi non è del mestiere, sembrano quasi fatti a caso: quanto feeling ci deve essere con l’orchestra?   

Ogni più piccolo movimento di un direttore d’orchestra è sempre un concentrato di informazioni per uno o più strumentisti. Non esistono movimenti che non vogliono dire niente. In generale si usa la mano destra per dare informazioni riguardanti il ritmo, mentre la mano sinistra per curare l’espressività e l’interpretazione del brano che si sta eseguendo. L’orchestra bisogna pensarla sempre come una famiglia e il direttore d’orchestra come un estraneo, un ospite che entra a far parte di quella famiglia per un paio di giorni. È chiaro a questo punto che, non con tutte le orchestre ci sarà sempre lo stesso feeling ma in ogni caso bisognerebbe riuscire a stabilire il miglior contatto possibile così da esser liberi di eseguire il concerto senza stress o ansie varie.

Gli umbri, e soprattutto i perugini, hanno la fama di essere chiusi: si riconosce in questa caratteristica?

Ci sono nata, cresciuta e ho imparato ad amarla. Chiaramente avendo viaggiato tantissimo, ormai non mi riconosco più così tanto in questa caratteristica e non saprei dire se sia un vantaggio o uno svantaggio.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Verde, calda, protetta.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

Le meravigliose colline umbre in estate, coperte di quel verde particolare che abbiamo solo noi nella nostra bellissima regione.

libro Titolo: La guerra del sale (1540)

Paolo III e la sottomissione di Perugia

 

Autore: Alessandro Monti

 

Editore: Morlacchi  Editore U.P.

 

ISBN: 9788860748935

 

Anno di pubblicazione: 2017

 

164 p., foto cm 15 x 21, brossura illustrata con bandelle

 

Collana: Storia e storie

 

€ 13,00

 

 

Il 1540 fu un anno cruciale nella storia di Perugia e la guerra del sale è un avvenimento che ancora oggi viene ricordato dai cittadini per almeno un paio di motivi. Il primo è legato al pane sciapo che la tradizione vuole dettato dalla volontà di boicottare la tassa sul sale introdotta da Papa Paolo III. La seconda motivazione è invece legata al crocefisso ligneo realizzato, sempre in quell’anno, da Polidoro Ciburri, collocato poi nella nicchia del portale dell’Alessi nel Duomo cittadino come atto di sfida verso il Papa, e che ancora oggi domina la piazza.
Alessandro Monti, laureato in lettere con indirizzo storico presso l’ateneo fiorentino, e dottore di ricerca in storia moderna presso l’Università di Pisa, ha inteso ripercorrere e studiare questo importante momento storico. Un lungo lavoro di ricerca negli archivi italiani ed europei che ha permesso all’autore di elaborare una sintesi vivace, appassionante e rigorosa dei fatti di quei giorni. Nei quindici capitoli che compongono il libro, vengono esaminate le vicende che, a partire dalla tassa del sale e dalla ribellione, sfociano del definitivo assoggettamento della città alla dominazione pontificia.
L’aumento della pressione fiscale, la scomparsa delle libertà comunali, la formazione di nuove oligarchie, la crescente conflittualità tra il pontificato di Paolo III e l’impero di Carlo V, sono solo alcune delle questioni che si intrecciano nelle vicende perugine di questo momento storico e che l’autore ha saputo narrare, corredando la pubblicazione di numerose fonti archivistiche e bibliografiche.

(Per otto persone)

INGREDIENTI
  • 1 kg di farina
  • 300 g di parmigiano
  • 100 g di pecorino piccante grattugiato
  • 250-300 g di guanciale di maiale o di pancetta tagliata a dadi piccolissimi
  • 2 panetti di lievito di birra
  • Poco latte
  • Sale
  • Olio per la tortiera

 

PREPARAZIONE

Mescolate la farina, il parmigiano, il pecorino, la pancetta e un po’ d’olio. Unite il lievito sciolto in poca acqua tiepida e lavorate sempre con acqua tiepida, fino ad ottenere un impasto morbido ma non molle. Tagliatelo a pezzetti e allungateli facendoli rotolare sulla spianatoia formando tanti rotolini. Fate girare ogni rotolino su sé stesso. Disponete le lumachelle su una placca da forno, distanziate tra di loro e infornate a 220°. Fate cuocere per 25-30 minuti. Le lumachelle si possono servire sia tiepide, sia fredde.

 

 

Le lumachelle sono tipiche della zona di Orvieto. Un tempo si metteva solo formaggio pecorino, in parte piccante, e al posto dell’olio si usava lo strutto.

 

Per gentile concessione di Calzetti – Mariucci Editore

Strangozzi, stringozzi, strozzapreti, bringoli, umbricelli, bigoli, umbrichelle, lombrichelli, ciriole, anguillette, manfricoli: se mai vi capitasse di fare un giro nelle osterie umbre, sedendovi in quelle sale dalle rustiche atmosfere e addentrandovi nella lettura dei prelibati menu, vi accorgereste che nella sezione dedicata ai primi piatti campeggiano portate dai nomi evocativi quanto ambigui.

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Farina e acqua

Non è facile ricostruire la storia di un piatto dalle antiche origini, soprattutto nel caso in cui regni ancora indisturbata la confusione persino sul nome da attribuirgli, contaminato com’è dall’imprecisione propria della lingua parlata e dall’uso consuetudinario di alcuni termini piuttosto che di altri.

Ma andiamo per ordine: stiamo innanzi tutto parlando di un tipo di pasta fresca, rustica in quanto fatta a mano e dunque imprecisa, grossolana, la cui bontà sta proprio nella ruvidezza della sua composizione. Le fonti concordano sulle origini povere di questo piatto, realizzato con acqua e farina di grano tenero. Ciò che fa la differenza è però la forma che assume: ecco dunque che dallo stesso impasto nascono molti tipi di pasta, i cui nomi sono spessi confusi a causa di una somiglianza etimologica.

A Spoleto, «Erti de stinarello e fini de cortello»

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Gli stringozzi di Spoleto– chiamati strangozzi a Terni, manfricoli a Orvieto, anguillette nella zona del lago Trasimeno, umbricelli a Perugia per la loro somiglianza con i lombrichi, o ancora brigoli, lombrichelli o ciriole – sono degli spaghetti piuttosto tozzi e grossolani, con una circonferenza di 3-4 millimetri e una lunghezza di circa 25 centimetri, arrotolati a mano sulla spianatoia. Come afferma il detto, nel momento in cui si stende la sfoglia, non bisogna assottigliarla in maniera eccessiva; si starà attenti allo spessore solo in un secondo momento, quando col coltello la si taglierà nel senso della lunghezza.
La cottura degli strangozzi deve avvenire in abbondante acqua, e bisogna star pronti a ripescarli nel momento esatto in cui vengono a galla.Vengono conditi con sughi al ragù, con tartufo, con parmigiano o con le verdure
Senza dubbio, la preparazione più caratteristica è quella che tiene alto il nome di Spoleto – “alla spoletina” appunto – in cui vengono esaltati dal gusto del pomodoro, del prezzemolo e dal peperoncino piccante.

Una bagarre linguistica

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Ciò che è curioso, è che gli strangozzi per questa loro assonanza col verbo “strangolare”-vengano spesso confusi con gli strozzapreti, altra preparazione ottenuta dallo stesso semplice impasto di acqua e farina.

Sebbene i nomi vengano spesso usati in maniera intercambiabile, gli strozzapreti hanno una formato ben diverso dagli strangozzi (e dai loro omologhi): sono più corti e si presentano come delle listarelle di sfoglia arrotolate su sé stesse, la cui forma assomiglia alle stringhe delle scarpe, un tempo fatte di tenace cuoio arricciato.

Qualcuno doveva pur finire per strozzarsi

La leggenda vuole che i rivoltosi anticlericali usassero le suddette stringhe per strangolare, ai tempi del dominio dello Stato Pontificio, gli ecclesiastici di passaggio. Non sembra un’ipotesi troppo remota, se consideriamo la continua lotta dei perugini contro l’ingerenza dello Stato Pontificio: episodi come la Guerra del Sale del 1540 o l’acceso anticlericalismo ottocentesco sfociato nelle Stragi di Perugia, ci fanno ben comprendere lo scarso amore della popolazione verso i prelati. Questi ultimi, infatti, oltre a riscuotere i tributi, erano notoriamente dei golosoni, sempre pronti a scroccare pasti alla povera gente. 

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Un’altra interpretazione vuole che gli strozzapreti fossero così chiamati perché le massaie, costrette a dimezzare le porzioni ai loro cari per fare quella dei prelati, augurassero loro di strozzarsi con quello che mangiavano. Una variante è quella che vede le donne di casa maledire i preti per aver loro sottratto le uova come tributo, costringendole a fare una pasta “povera”, composta solo di acqua e farina.
Un’ulteriore interpretazione – e conferma dello spropositato appetito della Curia – ci è data dal poeta Giuseppe Gioacchino Belli, maestro del vernacolo romanesco:

 

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Nun pòi crede che ppranzo che ccià ffatto  
Quel’accidente de Padron Cammillo.  
Un pranzo, ch’è impossibbile de díllo:  
Ma un pranzo, un pranzo da restacce matto.  
Quello perantro c’ha mmesso er ziggillo  
A ttutto er rimanente de lo ssciatto,  
È stato, guarda a mmé, ttanto de piatto  
De strozzapreti cotti cor zughillo.  
Ma a pproposito cqui de strozzapreti:  
Io nun pozzo capí ppe cche rraggione  
S’abbi da cche strozzino li preti:  
Quanno oggni prete è un sscioto de cristiano  
Da iggnottisse magara in un boccone  
Er zor Pavolo Bbionni sano sano. 

(G.G. Belli, La Scampaggnata) 

 

 

 

Sembra dunque che l’eco degli stomaci affamati dei prelati si fosse propagata fino a Roma: il loro appetito era talmente smisurato da superare persino la difficoltà che la particolare forma degli strozzapreti donava all’atto di mangiarli. Altro che strozzarsi: ci vuole ben altro che una zuppiera di strozzapreti per far passare l’appetito ad un religioso!

Un piatto sostanzioso

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Oggi, sebbene gli strozzapreti vengano prodotti a livello industriale, la lavorazione attuata con una trafila in bronzo li rende ruvidi come quelli fatti in casa, permettendo il completo assorbimento dei condimenti con cui vengono serviti. Tra le sinuosità del suo profilo, infatti, i sughi si depositano e lì restano, donando al palato una piacevole sensazione di consistenza e corposità, così come sono tutte le paste dal sapore antico.

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