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Tra la Valdichiana – che fu denominata il granaio dell’antica Roma, dove si snodava il navigabile fiume Clanis (oggi sostituto in parte dal Canale Maestro della Chiana) che veniva usato da Etruschi e Romani per trasportare le derrate alimentari fino alla Città Eterna – e l’altrettanto prezioso e ricco lago Trasimeno, si racconta di una terribile creatura leggendaria: la Marroca.

In questi territori, tra Umbria e Toscana, si narra di un animale ripugnante, un meticcio tra una serpe e una lumaca, dotato di lunghi tentacoli, che vive abitualmente nell’acqua stagnante. La Marroca è un essere capace di emettere strani suoni e borbottii per attirare a sé le vittime e, quando una persona si avvicina troppo ai bordi dell’acqua, l’afferra con le sue potenti propaggini e la trascina nella sua sinistra tana per poi, con calma, succhiarle il sangue.

La Marroca

È un animale nato dalla fantasia popolare che è servito da spauracchio nei confronti dei bambini per tenerli lontani dagli specchi melmosi della palude chianina, specialmente di notte.
Si tenga presente che la Valdichiana, nel corso dei secoli, da una fertilissima pianura è passata a essere a una vasta palude, talvolta insalubre. Per cause diverse o per scopi militari, il fiume Clanis fu ostruito a valle dal Muro Grosso, nei pressi di Fabro, prima dagli antichi Romani e poi dagli orvietani, provocando un progressivo allagamento del fondovalle chianino fino a divenire una palude insalubre. Per tale motivo i popoli si spostarono sempre più in collina, fin quando la conclusione della bonifica della Valdichiana, avvenuta intorno al 1870 e durata circa un secolo, con le sue opere idrauliche riportò la vivibilità nella piana delle Chiane, precedentemente impaludata. L’amore e il senso di protezione per i propri figli, affinché non si avvicinassero ai pericolosi acquitrini e alle malsane acque paludose chianine specialmente di notte, indussero la creazione della storia leggendaria della Marroca.

La leggenda racconta…

In qualche casa si racconta di Albo, un bambino che fu catturato da una Marroca, la lumaca-serpente con i tentacoli, ma venne salvato dal proprio cane, che purtroppo rimase ucciso nello scontro con la mostruosa creatura. Si narra che Albo, per lo spavento, tornò dai propri genitori con i capelli completamente bianchi.
Una testa scolpita su pietra arenaria, visibile nell’Antiquarium del Municipio di Baschi (TR), viene chiamata La Marroca e nella Tuscia viterbese assume le sembianze di una strega, mentre le analoghe Biddrina e Occhiomalo sono diffuse rispettivamente in Sicilia e in Maremma.
La diffusione dei racconti contadini della Chiana potrebbe essersi attuata a seguito dei pellegrini passanti sul tratto chianino della Via Romea-Germanica, destinati prima a Roma e poi, tramite la via Appia, verso il meridione italiano e quindi in Terra Santa. Il racconto della Marroca, nella vita agreste della Valdichiana, si è sopito a seguito dello spopolamento delle campagne avvenuto nel secolo scorso, così come molte delle tante leggende contadine legate alla vita di campagna.
La Valdichiana Umbra e quella Toscana, non sono solo terre ricche di cultura, storia, arte ed enogastronomia ma anche di favole, novelle e racconti che avvolgono nell’incognito e nel mistero la bellezza carismatica delle Chiane e aumentano l’attrattività di questi meravigliosi luoghi.

Strangozzi, stringozzi, strozzapreti, bringoli, umbricelli, bigoli, umbrichelle, lombrichelli, ciriole, anguillette, manfricoli: se mai vi capitasse di fare un giro nelle osterie umbre, sedendovi in quelle sale dalle rustiche atmosfere e addentrandovi nella lettura dei prelibati menu, vi accorgereste che nella sezione dedicata ai primi piatti campeggiano portate dai nomi evocativi quanto ambigui.

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Farina e acqua

Non è facile ricostruire la storia di un piatto dalle antiche origini, soprattutto nel caso in cui regni ancora indisturbata la confusione persino sul nome da attribuirgli, contaminato com’è dall’imprecisione propria della lingua parlata e dall’uso consuetudinario di alcuni termini piuttosto che di altri.

Ma andiamo per ordine: stiamo innanzi tutto parlando di un tipo di pasta fresca, rustica in quanto fatta a mano e dunque imprecisa, grossolana, la cui bontà sta proprio nella ruvidezza della sua composizione. Le fonti concordano sulle origini povere di questo piatto, realizzato con acqua e farina di grano tenero. Ciò che fa la differenza è però la forma che assume: ecco dunque che dallo stesso impasto nascono molti tipi di pasta, i cui nomi sono spessi confusi a causa di una somiglianza etimologica.

A Spoleto, «Erti de stinarello e fini de cortello»

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Gli stringozzi di Spoleto– chiamati strangozzi a Terni, manfricoli a Orvieto, anguillette nella zona del lago Trasimeno, umbricelli a Perugia per la loro somiglianza con i lombrichi, o ancora brigoli, lombrichelli o ciriole – sono degli spaghetti piuttosto tozzi e grossolani, con una circonferenza di 3-4 millimetri e una lunghezza di circa 25 centimetri, arrotolati a mano sulla spianatoia. Come afferma il detto, nel momento in cui si stende la sfoglia, non bisogna assottigliarla in maniera eccessiva; si starà attenti allo spessore solo in un secondo momento, quando col coltello la si taglierà nel senso della lunghezza.
La cottura degli strangozzi deve avvenire in abbondante acqua, e bisogna star pronti a ripescarli nel momento esatto in cui vengono a galla.Vengono conditi con sughi al ragù, con tartufo, con parmigiano o con le verdure
Senza dubbio, la preparazione più caratteristica è quella che tiene alto il nome di Spoleto – “alla spoletina” appunto – in cui vengono esaltati dal gusto del pomodoro, del prezzemolo e dal peperoncino piccante.

Una bagarre linguistica

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Ciò che è curioso, è che gli strangozzi per questa loro assonanza col verbo “strangolare”-vengano spesso confusi con gli strozzapreti, altra preparazione ottenuta dallo stesso semplice impasto di acqua e farina.

Sebbene i nomi vengano spesso usati in maniera intercambiabile, gli strozzapreti hanno una formato ben diverso dagli strangozzi (e dai loro omologhi): sono più corti e si presentano come delle listarelle di sfoglia arrotolate su sé stesse, la cui forma assomiglia alle stringhe delle scarpe, un tempo fatte di tenace cuoio arricciato.

Qualcuno doveva pur finire per strozzarsi

La leggenda vuole che i rivoltosi anticlericali usassero le suddette stringhe per strangolare, ai tempi del dominio dello Stato Pontificio, gli ecclesiastici di passaggio. Non sembra un’ipotesi troppo remota, se consideriamo la continua lotta dei perugini contro l’ingerenza dello Stato Pontificio: episodi come la Guerra del Sale del 1540 o l’acceso anticlericalismo ottocentesco sfociato nelle Stragi di Perugia, ci fanno ben comprendere lo scarso amore della popolazione verso i prelati. Questi ultimi, infatti, oltre a riscuotere i tributi, erano notoriamente dei golosoni, sempre pronti a scroccare pasti alla povera gente. 

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Un’altra interpretazione vuole che gli strozzapreti fossero così chiamati perché le massaie, costrette a dimezzare le porzioni ai loro cari per fare quella dei prelati, augurassero loro di strozzarsi con quello che mangiavano. Una variante è quella che vede le donne di casa maledire i preti per aver loro sottratto le uova come tributo, costringendole a fare una pasta “povera”, composta solo di acqua e farina.
Un’ulteriore interpretazione – e conferma dello spropositato appetito della Curia – ci è data dal poeta Giuseppe Gioacchino Belli, maestro del vernacolo romanesco:

 

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Nun pòi crede che ppranzo che ccià ffatto  
Quel’accidente de Padron Cammillo.  
Un pranzo, ch’è impossibbile de díllo:  
Ma un pranzo, un pranzo da restacce matto.  
Quello perantro c’ha mmesso er ziggillo  
A ttutto er rimanente de lo ssciatto,  
È stato, guarda a mmé, ttanto de piatto  
De strozzapreti cotti cor zughillo.  
Ma a pproposito cqui de strozzapreti:  
Io nun pozzo capí ppe cche rraggione  
S’abbi da cche strozzino li preti:  
Quanno oggni prete è un sscioto de cristiano  
Da iggnottisse magara in un boccone  
Er zor Pavolo Bbionni sano sano. 

(G.G. Belli, La Scampaggnata) 

 

 

 

Sembra dunque che l’eco degli stomaci affamati dei prelati si fosse propagata fino a Roma: il loro appetito era talmente smisurato da superare persino la difficoltà che la particolare forma degli strozzapreti donava all’atto di mangiarli. Altro che strozzarsi: ci vuole ben altro che una zuppiera di strozzapreti per far passare l’appetito ad un religioso!

Un piatto sostanzioso

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Oggi, sebbene gli strozzapreti vengano prodotti a livello industriale, la lavorazione attuata con una trafila in bronzo li rende ruvidi come quelli fatti in casa, permettendo il completo assorbimento dei condimenti con cui vengono serviti. Tra le sinuosità del suo profilo, infatti, i sughi si depositano e lì restano, donando al palato una piacevole sensazione di consistenza e corposità, così come sono tutte le paste dal sapore antico.