Il 22 gennaio scorso si è tenuta a Cascia la 44° edizione della Rassegna Interregionale delle “Pasquarelle”, Festa delle Tradizioni Rurali della Montagna.
Per Pasquarelle s’intendono i canti questuanti eseguiti, dal 5 al 17 gennaio, da parte di un gruppo formato da cantori e strumentisti che, andando di casa in casa per le campagne, annunciavano la nascita di Gesù e auguravano la fertilità delle terre e delle giovani donne. I Pasquarellari sono generalmente vestiti con il costume tradizionale dei pastori e, chi riceveva la visita benaugurale, ricambiava con prodotti tipici agroalimentari, come salsicce, uova e formaggio e a volte del denaro. Pasqua generalmente indicava le festività e in questo caso la Pasqua Epifania – da qui Pasquarelle – che, nella Valnerina e in tutta la dorsale appenninica dell’Italia centrale, rappresenta uno dei pilastri della tradizione appenninica.
Quest’anno a Cascia si è svolta la consueta edizione interregionale delle Pasquarelle giunta alla sua 44° ricorrenza, nella piazza principale dove si sono esibiti numerosi gruppi provenienti da varie regioni del Centro Italia. Tra i partecipanti si sono potuti osservare vari personaggi in costume, come quelli degli antichi pastori, dei Re Magi, della Befana, e i musicanti, anch’essi dotati di strumenti inusuali e tipici del periodo, riportano alla conoscenza delle tradizioni, di antichi canti e tramandano gli usi di una volta…
Questo evento casciano ha voluto dire vivere le antiche usanze nella pubblica piazza dove si sono ritrovati i vari gruppi folcloristici, in un tripudio di gioia degli spettatori e alla presenza di numerosi giovani che hanno gareggiato in una sfida canora vinta dal Gruppo Folcloristico La Mattonata di Città di Castello (PG). La serata è continuata sempre nelle vie del borgo, dove hanno preso il via le sfide tra gli stornellatori che, al calore di un fuoco e aiutati da un bicchiere di buon vino, nonché sostenuti da organetti e tamburelli, hanno deliziato i tanti turisti e partecipanti all’evento con i loro canti in versi improvvisati, all’insegna degli usi e costumi popolari. La rassegna di Cascia è stata organizzata e patrocinata dall’amministrazione comunale, la proloco e l’associazione dei Santesi, con una grande adesione di pubblico e in particolare di quello giovanile.
La manifestazione, alla sua XIV edizione, è in programma dal 6 al 7 agosto nel centro storico della città.
La manifestazione, realizzata con il patrocinio della Regione Umbria, del Comune di Cascia, della Pro Loco di Cascia-Roccaporena e con la collaborazione degli artigiani di “Io Compro Umbro”, ospiterà stand dedicati ai prodotti tipici del territorio, degustazioni, incontri, spettacoli musicali, laboratori e coinvolgerà il centro storico della cittadina umbra.
Aestivum, dal 6 al 7 agosto, sarà un vero e proprio viaggio alla scoperta delle eccellenze della nostra terra con momenti di incontro e di approfondimento con esperti del settore.
L’apertura degli stand è prevista per sabato 6 agosto alle ore 10:00, mentre alle ore 10:30 presso la Sala Sant’Emidio, ci sarà una tavola rotonda di presentazione della manifestazione, sul tema “Rosa e Tartufo: anime e valori del territorio della Valnerina” con la partecipazione di Mario De Carolis, Sindaco di Cascia, Michele Capitani del laboratorio di scienze e del territorio di Spoleto e in collegamento Domizia Donnini della facoltà di agraria dell’Università degli Studi di Perugia.
Si segnala l’incontro di sabato pomeriggio con Alessandro Orfei, giornalista professionista e amante del proprio territorio che, nel 2017, ha deciso di creare, insieme al cugino, l’azienda agricola Agribio Monte Pennino, la cui mission è quella di creare valore della sua terra attraverso la riscoperta dell’agricoltura e di coltivazioni di alto livello.
Una grande novità di quest’anno è il coinvolgimento di tutte le aree del centro storico della città: da Piazza Garibaldi all’Ipogeo, dai Giardini Mario Marelli a Piazza Garibaldi ed anche Viale Santa Rita, Sala Sant’Emidio e Piazzale San Francesco. All’interno dell’Ipogeo, per tutta la durata della manifestazione, sarà possibile acquistare prodotti della filiera agricola del territorio. Sabato alle ore 18:00 è previsto anche un momento di degustazione di piccoli assaggi offerti dai produttori locali. Per gli amanti di musica e di vino, sabato 6 agosto in Piazza Garibaldi dalle 19:00 alle 21:00 si svolgerà un concerto in acustico di durante il quale sarà possibile continuare la degustazione dei vini.
In programma anche due visite guidate nei dintorni della città di Cascia: nel pomeriggio di sabato da Cascia Centro a Roccaporena e ritorno sul sentiero di Santa Rita, mentre domenica mattina da Rocca di Cascia a Ocosce.
Con la farina, le uova e un pizzico di sale, ricavare una sfoglia più spessa di quella normale; farne delle tagliatelle larghe. Porre in un tegame il guanciale a pezzetti e, quando il grasso sarà quasi sciolto, le salsicce sbriciolate. Quando guanciale e salsiccia saranno cotti, scolare il grasso. Sbattere le uova in una terrina, insieme al succo di limone, la panna, la noce moscata, il sale e il pepe.
Versare nel tegame i penchi lessati al dente e ben scolati, farli insaporire per un attimo, poi unire la salsa e amalgamare a fuoco basso. Unire il formaggio grattugiato e servire.
Secondo la leggenda, questa preparazione è nata nel castello di Vetranola di Monteleone di Spoleto nel 1494: pare che a inventarli, per rabbonire i capitani di un esercito invasore, sia stata una giovane del luogo. Preparati in tutta la zona tra Monteleone e Cascia, i penchi – che qualcuno chiama anche strascinati – si possono preparare anche senza panna. In mancanza dei penchi, con la stessa salsa si possono usare i rigatoni. Sono tipici del periodo di Carnevale.
«In forma dunque di candida rosa che si mostrava la milizia santa (…) nel gran fiore discendeva che s’addorna di tante foglie, e quindi risaliva là dove ‘l suo amor sempre aggiorna». (Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXI, vv. 1- 2 e 10-12)
I rosoni, veri ricami di pietra posti sulle facciate delle chiese, attraverso i loro decori filtrano la luce divina, trasformandosi in fasci colorati che illuminano le navate.
Il rosone è una ruota a raggi che simboleggia, secondo la tradizione cristiana, il dominio di Cristo sulla terra. È presente sull’asse della navata principale, talvolta anche di quelle secondarie o in corrispondenza di cappelle o bracci trasversali. La forma circolare e la gamma cromatica hanno permesso ai maestri vetrai di creare opere d’arte sacra raffigurando, sotto forma di icona, i passi più significativi del Vangelo. Il rosone rappresenta la ruota della Fortuna: Dante stesso la definisce come un’Intelligenza angelica che ha sede nell’Empireo e che opera fra gli uomini attraverso un progetto divino. Il rosone «esplicita chiaramente la ciclicità della fortuna umana e confina il tempo degli uomini nell’incommensurabilità del tempo di Dio».[1]
Basilica di San Benedetto, Norcia, prima del terremoto.
Il suo nome, in uso dal XVII secolo, è un accrescitivo del termine di derivazione latina rosa, che ne suggerisce la somiglianza con la struttura del fiore. La rosa, la cui freschezza e bellezza suggerisce un simbolo etereo, richiama inoltre il calice di Cristo.[2]
Nella Divina Commedia, nel XXXI canto del Paradiso, Dante evoca la rosa celeste che raccoglie in paradiso la cerchia dei beati ammessi a contemplare Dio. Il rosone è in stretta relazione con il cerchio, simbolo di perfezione e quindi di Dio, ma allo stesso tempo è anche il simbolo del labirinto, il quale è creato dai tanti motivi vegetali presenti al suo interno. Il labirinto richiama la ricerca interiore e il viaggio iniziatico. Esso così rappresenta un anello di congiunzione tra il mondo umano e quello divino.
Chiesa di San Francesco. Norcia
Un percorso attraverso la Valnerina
L’Umbria, terra di profondo misticismo e spiritualità, cela nel suo territorio le orme dei santi che hanno cambiato il volto del Cristianesimo. Fu infatti, sulle verdi colline e altopiani di Norcia che trovò la fede San Benedetto. Nel centro storico della città sorge la Basilica di SanBenedetto, costruita presso la casa natale del santo e poi ampliata nel XIII secolo. La facciata, con un profilo a capanna, presenta nella parte inferiore un portale strombato ed è arricchita nella parte superiore da un rosone, decorato con foglie di acanto e accompagnato dai simboli dei quattro evangelisti. Purtroppo la basilica è stata profondamente danneggiata durante il terremoto del 2016, ma facilmente si può intuire il suo antico splendore.
Di notevole interesse artistico e architettonico è la chiesa di San Francesco a Norcia, edificata interamente in pietra bianca e portata a termine dai francescani conventuali. Pregevole è il grande rosone che domina la facciata: una cornice realizzata con rosette e archi a tutto sesto, come un vero ricamo, trafora la dura pietra, rivelando il suo profondo significato attraverso il vuoto della materia ma pieno invece della luce divina.
A pochi chilometri dalla patria di San Benedetto, a Preci, si erge l’Eremo di Sant’Eutizio.
La parte più antica dell’abbazia risale al IX secolo e nel 1190 fu completata per volere dell’abate Tendini I. L’abbazia ammalia lo spettatore poiché è interamente edificata su un terrazzamento tra la scogliera e la vallata sottostante. Il rosone, vero gioiello della scultura, prevale sulla struttura della chiesa. È un grande cerchio contornato daisimboli degli evangelisti, tipico dell’architettura romanica, ma in se reca anche frammenti scultorei altomedievali.[3]
Abbazia Sant’Eutizio. Preci
Non molto distante da Norcia un altro eccelso rosone, più minuto dei precedenti, sovrasta e domina la facciata della chiesa di Santa Maria Assunta a Vallo di Nera. La chiesa risale al 1176 e presenta una facciata con pietre conce tipicamente romaniche. A contraddistinguerla è un portale gotico a ogiva ornato da capitelli e fregi e nella parte superiore un rosone scandito da dodici colonnine perfettamente in linea, il quale sembra essere riassorbito nel paramento murario.
Città profondamente legata alla spiritualità, ma anche al simbolo del rosone e quindi alla rosa è sicuramente la città di Cascia, centro religioso legato alla figura di Santa Rita. Si erge in questo borgo la chiesa di San Francesco, presso la quale nel 1270 fu sepolto il Beato Pace francescano. Elemento di spicco della facciata, opera di maestri comacini, è il raffinato rosone, molto particolare poiché è dato dall’ingranaggio delle due ruote contrapposte che creano un effetto dinamico di rotazione. È composto da diciotto colonne con capitelli e diciotto archetti trilobati, i quali convergono verso il centro nel quale è presente la Madonna con il Bambino. Tutto intorno foglie d’acanto richiamo motivi classici. La delicatezza
Chiesa di San Francesco, Cascia
dell’intarsio rende questo rosone un vero capolavoro dell’arte scultoree regionale.
L’Appennino umbro è il custode silenzioso delle tracce di santi e pellegrini fondatori di eremi e cenobi ispirati alle regole della povertà, solitudine e semplicità. A Sant’Anatolia di Narco la leggenda narra che passarono san Mauro, suo figlio Felice e la loro nutrice. Visto la loro condotta di vita, la popolazione gli chiese aiuto per essere liberati da un drago che infestava quei luoghi. San Mauro, grazie all’aiuto divino, affrontò e uccise il drago. L’episodio della liberazione è raffigurato nel fregio della facciata. In essa è presente anche il rosone, tra i più interessanti esempi di scultura romanica umbra, a due ordini di colonne, iscritto in un quadrato con i simboli apocalittici. Il quadrato è delimitato da una fascia a mosaico a stelle. La simbologia della facciata è esemplare: il rosone rappresenta Cristo che porta luce nel mondo, identificata con la Chiesa, attraverso la voce dei quattro evangelisti che ne hanno permesso la conoscenza.[4]
Infine, un rosone molto particolare è sicuramente quello della chiesa di San Salvatore di Campi di Norcia, una delle testimonianze più importanti del territorio della Valnerina. I tragici eventi sismici del 2016 hanno portato al crollo di gran parte dell’edificio e alla distruzione del campanile risalente al XVI secolo. Le pareti rimaste sono state consolidate per rimettere in sicurezza le porzioni di affreschi che verranno reintegrate nelle parti recuperate. La chiesa, immersa nelle colline umbre, è un raro esempio a due navate, con due porte di accesso e due rosoni, oltretutto non allineati rispetto alla linea del tetto. Particolarmente interessante è la grande ghiera esterna del rosone, scolpita con tralci d’acanto disposti secondo un sinuoso movimento rotatorio a spirale.
Chiesa San Salvatore. Campi
Basiliche, abbazie e piccole chiese, immerse in vallate verdeggianti tipicamente umbre, luoghi magici e mistici allo stesso tempo, ma anche guide essenziali che aiutano il visitatore, spettatore o eremita a cogliere la parte più pura e profonda dell’Umbria. Questi e tanti altri luoghi restituiscono gioielli preziosi di un tempo passato.
Purtroppo molti di essi sono stati profondamente colpiti dal sisma di alcuni anni fa, ma molto spesso l’arte e la bellezza vincono il silenzio che scende sulle macerie, riportando questi luoghi alla loro antica bellezza.
[1] Claudio Lanzi, Sedes Sapientiae: l’universo simbolico delle cattedrali, Simmetria edizioni, Roma, 2009, pag. 162.⇑ [2] M. Feuillet, Lessico dei simboli cristiani, Edizioni Arkeios, Roma, 2006, p. 97-98.⇑ [3] L. Zazzerini, Umbria Eremitica. Ubi silentium sit Deus, Edizioni LuoghInteriori, Città di Castello, 2019, pp. 124-131.⇑ [4] L. Zazzerini, Umbria Eremitica. Ubi silentium sit Deus, Edizioni LuoghInteriori, Città di Castello, 2019, p. 109.⇑
Tra cornici di roccia e corone di pioppi che trafiggono il cuore più selvaggio della Valnerina, la convivenza col lupo, guardiano silvestre consacrato alla cosmogonia pagana della foresta, appartiene alla quotidianità di quella civiltà rurale che dipinse, tra i petali di un’Umbria millenaria, acquerelli di idilli bucolici custoditi oggi nello sguardo severo di un’antica abitante di Gavelli che affida, alla voce flebile della memoria, il ricordo del baluginare sinistro dei lupi che tra le ombre della notte intonavano alla luna strazianti ululati.
Dalle pievi longobarde ai casseri medioevali posti a dominio delle potenti abbazie e degli eremi fioriti lungo l’argine del fiume Nera, si racconta che il lupo abbia timore dalla musica. Non a caso l’apparato dei miti e delle leggende dischiuse dal passato arcaico della Valnerina ha conservato le vicende di un suonatore di organetto dal volto ignoto che, tornando verso Rocchetta, avamposto medievale sorto a difesa di un antico tracciato pedemontano, incrociò lo sguardo sinistro dalla bestia, che lo attaccò. Colto di sorpresa, l’uomo cadde e, nella caduta, l’organetto che portava a tracolla emise la caratteristica timbrica cristallina che salvò la vita del suonatore mettendo in fuga la bestia e dissolvendo l’oscurità che la creatura evoca con le sue orme.
Il lupo, re indiscusso del Parco Nazionale dei Monti Sibillini
Leggende popolari
Tra i rovi della memoria popolare, consegnata all’eternità del pensiero religioso e magico della Valnerina e custodita dall’elsa dell’antropologia, sopravvive l’antica credenza secondo la quale il bambino che succhiava il latte da una madre che aveva mangiato la carne di una bestia azzannata dal lupo, non riusciva a saziare l’appetito, tant’è che nel Casciano si esprime meraviglia e stupore verso chi non riesce a saziarsi attraverso la perifrasi dialettale «E che te si magnatu la carne de lu lupu?». Una creatura totemica per antonomasia che da un lato raffigura il lato primordiale della selva, allegoria del passaggio dalla caducità del corpo all’eternità dello spirito, e dall’altro evoca le suggestive rivelazioni epifaniche delle primitive tradizioni nordiche.
Un luparo mostra orgoglioso la sua preda in una fredda giornata invernale
Il luparo
La Valnerina, una terra ricca di Tempo, le cui campane scandiscono il ritmo della storia intorno a focolari che rischiarano le tenebre di quelle lunghe notti d’inverno e che tramandano biografie e ritratti di uomini e cacciatori di lupi, pionieri dell’ultima frontiera i cui fantasmi appaiono e scompaiono tra le torri di fumo della memoria e del mito. Il luparo, cavaliere della civiltà contadina a cui il pastore affida una missione salvifica, l’uccisione della bestia e la salvaguardia degli armenti, era un eroe che riceveva gli onori della battaglia esibendo nella piazza del villaggio il corpo esanime dell’animale e celebrando il dominio dell’uomo e dell’audacia sulla ferocia della bestia.
L’altopiano di Chiavano, situato fra l’Umbria e il Lazio, ha segnato fino al 1860 il confine tra lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Un tipico castello medioevale, che dà il nome all’area, sorge sulla testata della valle, in cima a un colle arrotondato a 1128 metri di quota.
Ai suoi piedi, verso sud, si apre il piatto fondovalle delimitato da ripidi versanti distanziati fino a un chilometro e mezzo. Lungo le fasce di raccordo tra la pianura e i rilievi, sorgono Villa San Silvestro e Buda da un lato, Coronella e Trognano dall’altro. Il fascino del Piano di Chiavano non è però quello di un paesaggio residuale del passato, e la prima sensazione che il visitatore avverte è quella di un luogo bello perché funzionale, per la natura e per l’uomo che non lo ha mai abbandonato. Il paesaggio agrario del luogo è uno dei più imponenti e significativi dell’Appennino Centrale, un angolo di Italia in cui ancora coesistono l’antico impianto della centuriazione romana e il nuovo assetto dato al territorio da un’agricoltura incentrata sull’allevamento che rendono questo luogo vivo, dinamico e proiettato verso il futuro. Tanto per movimentare e articolare ancora di più il paesaggio, l’ambiente, la natura e la storia del Piano di Chiavano, ecco che a Villa San Silvestro, proprio accanto al borgo, dove inizia a distendersi la lunga pianura, i resti di un tempio romano del III secolo avanti Cristo parlano, imponenti, dell’antichissima importanza del luogo. Gli interstizi tra le grandi pietre del basamento e i resti delle colonne sono abitati, nemmeno a dirlo, dalle lucertole muraiole, mentre il Codirosso spazzacamino si posa sul campanile della chiesa sorta sopra le vestigia del tempio.
Il sito di Villa San Silvestro di Cascia rappresenta l’unico esempio finora noto di un forum repubblicano
Un tesoro nascosto
Tra il 1920 e il 1930 gli scavi condotti al di sotto della Chiesa di Villa San Silvestro fecero riemergere il podio e alcuni elementi architettonici del monumentale tempio romano di cui abbiamo parlato nelle righe precedenti. Nonostante la sua importanza storica per la comprensione del territorio, questo luogo fu per lungo tempo dimenticato, finché negli anni Ottanta le ricerche condotte sul posto dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici per l’Umbria portarono alla luce alcune colonne in laterizio di un portico alle spalle del tempio. Gli scavi sono poi ricominciati nel 2003, sotto la direzione scientifica del professor Filippo Coarelli dell’Università di Perugia. Il progetto è ripartito dallo studio del tempio stesso, che trova confronti solo in altri due casi (Sora e Isernia), molto meno conservati. La campagna di ricerche ha visto integrarsi saggi di scavo mirati a comprendere i particolari delle tecniche edilizie e le caratteristiche costruttive del III secolo avanti Cristo.
Un’iscrizione del II secolo a.C. attesta la presenza del culto del dio Terminus, divinità prettamente romana che difende i confini, nell’area di Villa San Silvestro
I risultati sono stati sorprendenti. Da un lato lo scavo e i rilievi mettevano in evidenza che il tempio aveva avuto due fasi edilizie: la prima, con la costruzione agli inizi del III secolo a.C., la seconda legata al restauro ispirato ai modelli architettonici che caratterizzarono la Roma del I secolo. Partendo da questi elementi, la campagna dell’agosto 2007 ha portato alla luce un settore del foro che circondava il tempio. Le strutture emerse, ancora in fase di studio, rivelano che il foro, come il tempio, ebbe diverse fasi edilizie: appare dunque naturale collegare la costruzione del foro con l’imporsi della dominazione di Roma che, per assicurarsi il controllo sul territorio, impianta un forum in un’area in cui una popolazione prevalentemente agricola viveva sparsa sul territorio. La scelta del sito non è casuale: si tratta, infatti, di un’area che coincide con la più vasta pianura della zona. Il foro sorge nel punto in cui scaturivano le uniche sorgenti del territorio e, soprattutto, dove il diverticolo della via Salaria incontrava i percorsi di transumanza e quello di valico che, attraverso Monteleone di Spoleto, permetteva di giungere fino alla Flaminia.
A est del foro è emersa una vastissima area delimitata da una tripla serie di portici, scanditi da colonne in laterizio e semipilastri
Un luogo dell’anima, questa è l’Umbria. Un’anima che si dispiega negli affanni del viaggio e della preghiera, nei silenzi scanditi da straordinarie storie di vita che orientano i passi di sceglie la Valnerina, terra dei santi e dell’esperienza anacoretica.
Luoghi dell’anima e nell’anima che custodiscono il segreto della contemplazione e della preghiera: rendere eterno ciò che è effimero conservando il cammino e le orme di anime elette, invocate sulla strada della vita terrena per illuminare quelle ombre sinistre che inghiottono l’uomo e i suoi passi. Tracciata da chiunque percorra i sentieri dell’Umbria Sacra prima delle chiese, delle abbazie e delle cattedrali è la preghiera che unisce e divide, disattendendo confini geografici e distanze. Per questo ogni preghiera che nasce non contempla la fine. E per ogni giovane pellegrino che indugia sul sentiero che conduce allo Scoglio di Roccaporena, i bastoni degli anziani ancora inseguono quei passi non percorsi, quelle esperienze contemplative che segnano il cammino su questa terra. E in Umbria, le vie dello Spirito ricalcano i passi di esperienze ordinarie diventate straordinarie mescolandosi ai colori di un Appennino che a Roccaporena sembra aver perso la sua ferocia.
Lo Scoglio di Roccaporena, o Sacro Scoglio
Il Sacro Scoglio di Santa Rita
Lo Scoglio di Roccaporena, o Sacro Scoglio, s’innalza a 120 metri sul paese ed è alto 827 metri sul livello del mare. Sulla cima della rupe, un tempo, secondo la tradizione, sorgeva una rocca detta Rocca del Barone, forse una torre di guardia tardo-romana distrutta durante le invasioni barbariche del sesto secolo. Sta di fatto che quando San Montano stabilì il proprio eremo su quella cima, la funzione strategica della medesima era già cessata. Nicola Simonetti, storico di Santa Rita, riguardo lo Scoglio Sacro, riporta una tradizione ancora viva ai suoi tempi (1627): «Come tradizione antica sino ai nostri giorni, che questo gran sacco di Rocca Porena si staccasse dalla parte del Monte suo comparte, ai tempi del nostro Signore Giesù Cristo, allora che, come racconta l’Evangelo, petrae scissa sunt, perche appariscono e si vedono, hoggi giorno, li segni e concavità dalla parte dalla quale si staccò, tutti uniforni et indicanti che prima fosse attaccati al Monte. L’istesso si osserva di due altri gran sassi pocho lontani da Rocca Porena in vicinanza del Ponte, per il quale si passa il fiume, che pure si vedono così uniforni, e disposti ne’ loro siti, che accennano essere stati un sol sasso e, parimenti staccato nel tempo della morte del nostro comune Redentore».
Ai piedi dello Scoglio, arpa sonora che traduce nelle vibrazioni dell’Eterno gli echi cinerei dello Spirito, l’animo si eleva sul selvaggio scenario della roccia, oltre i rovi che sbocciano tra i giardini della vita terrena. I monti, che sembrano sfiorare le frontiere ancestrale dell’inconoscibile, custodiscono nel ventre arido della terra questo silente altare di roccia, grido eterno di poesia a cui i popoli della terra consacrano la fatica dell’ascesa. L’antico sentiero, scolpito sul trono della nuda pietra, è sorretto dalle fronde silenti di alberi che si aggrappano al precipizio. L’edera s’afferra ai tronchi e tesse, tra arcobaleni di rami, cornici che dipingono, tra gli squarci del verde, i silenzi laconici di Roccaporena.
Santa Rita
Nel canto del vento, lo Scoglio appare deserto, trionfante tra i colori della primavera, mentre dalle viscere del sacro bosco sgorga il canto del merlo e del passero che sembrano piovere sulle rupi sospese per ascendere alla volta del cielo come il canto di una sirena che rapisce l’animo. Eretta sulla sommità della rupe, dove il volo degli uccelli si confonde a quello degli angeli, l’edicola sacra che consegna all’eredità eterna del Cielo, il luogo in cui Rita incontrava il Signore e che oggi conserva, nella roccia, le impronte delle ginocchia e dei gomiti che l’Avvocatadegli Impossibili tormentò nel silenzio della preghiera, consacrando all’eternità dello Spirito storie ordinarie divenute straordinarie.
Dai testi di geografia ai sussidiari scolastici, passando per le fiere internazionali sul turismo, l’Umbria viene identificata da una definizione straordinariamente calzante: cuore verde d’Italia.
Secondo la simbologia tradizionale, il verde, espressione cromatica nella quale i buddisti individuano l’origine della vita, celebra l’elevazione dello spirito e del corpo che, per chi percorre l’Umbria, assume i contorni di un’esperienza ascetica in cui convergono identità e tradizioni, cultura e memoria storica, in cui la contemplazione del creato genera armoniche vibrazioni della mente. Se ci venisse chiesto di illustrare la frequenza cardiaca del cuore verde d’Italia, la matita traccerebbe linee sottili dall’incedere incredibilmente geometrico che, chi conosce l’Umbria, non tarderebbe a identificare nella profilo della piccola Preci, borgo immerso nel verde della Valnerina.
Lasciando la Valle del Nera, per risalire la Valle Campiano verso il paese di Preci si entra nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini
Il Piantamaggio
Avamposto medioevale sorto in prossimità di un oratorio benedettino – come testimoniato dall’etimologia del toponimo della città (preces, cioè preghiera) – Preci segna l’impercettibile transizione fra la Valle del Nera, risalendo da Cerreto di Spoleto, e il Parco Nazionale dei Monti Sibillini, mosaico di storia e tradizioni secolari, pentagramma in cui nubi di paesaggi e borghi seguono il ritmo sempiterno della natura. Ed è proprio dalla natura che qui alloggia che trae origine il rito del Piantamaggio, cerimoniale di pagana memoria le cui origini risalgono alle feste di primavera, successivamente trasformate in Baccanali, che si svolgevano in onore del dio Bacco o Dioniso e avevano lo scopo di introdurre i giovani nel mondo degli adulti, spesso sfociando, a causa delle prolungate libagioni, in pratiche iniziatiche e orgiastiche. Tale versione è avvalorata dall’utilizzo, nell’uso popolare, della perifrasi piantar maggio, espressione dal forte allusivo significato, che è quello di consumare l’atto sessuale.
L’aspetto cinquecentesco del castello di Preci, immortalato in una foto storica conservata nell’archivio
La sera tra il 30 aprile e il 1 maggio, un albero di faggio o di pioppo, simbolo di fertilità, preso, anzi rubato, nelle campagne circostanti dai giovani del paese, viene tagliato e portato nella pubblica piazza. Dopo essere stato spogliato e ripulito dalle fronde e dalla corteccia, viene integrato nella parte alta con un ramo di ciliegio fiorito, a simboleggiare il matrimonio tra gli alberi e l’unione carnale con cui i fanciulli vengono iniziati alla vita adulta. Successivamente viene anche legata, nella parte più alta dell’albero, una bandiera nazionale, forse un antico ricordo degli alberi della libertà, che tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo venivano innalzati in ogni luogo dove arrivavano i venti e gli entusiasmi della Rivoluzione francese. La larga diffusione della celebrazione è testimoniata, inoltre, da una toponomastica estremamente ricca: il Monte Maggio, che domina la splendida Cascia, e il Monte Galenne – situato tra Meggiano, Cerreto di Spoleto e Sellano, il cui toponimo rimanda verosimilmente alle Calende di Maggio– ci raccontano di un territorio che cambia nell’aspetto, ma che conserva il suo più intimo fondamento ontologico.
Le Cascate de lu Cugnuntu, una stretta forra di circa 20 metri situati presso i Casali di S.Lazzaro al Valloncello.
«I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi» scriveva Goethe. Maestri inflessibili che evocano nell’animo di chi li ascolta i misteri e i tormenti del silenzio. Luoghi ancestrali in cui si realizza l’unione di terra e cielo, in cui la verticalità si fonde con la massa, con la pesantezza della terra. Cattedrali di pietra e di ricordi dove la caducità del terreno si eleva a contatto con il celeste.
Pian di Chiavano
L’Altopiano di Chiavano non è altro che il ponte di roccia che conserva ancora saldo il rapporto tra terra e cielo, palcoscenico di un antico anfiteatro le cui platee si perdono tra mosaici di nubi. È come se il pennello di un pittore avesse indugiato su questa parte della Valnerina disegnando la skyline di paesi e campagne in cui l’essere umano si è prontamente insinuato. Ma mai la natura si è prestata docile all’intervento dell’uomo: piccoli fondi ricavati dalla montagna, pascoli improvvisati e tratturi acerbi che, perdendosi nel cuore dell’altopiano, sembrano ricordare a chi li osserva che qui la Natura sempre si manifesta secondo l’ideale leopardiano: madre e matrigna, doppia faccia della stessa medaglia. Modellata dalle fatiche umane fino ad assumere un profilo quasi umano, la campagna appare composta, quasi assopita, in un vortice di colori pastello e giochi d’ombra, in un incedere cromatico molto più simile ai paesaggi dell’antica Scozia che al tipico ambiente collinare umbro.
Scenografie naturali
In tempi di rovinosa perdita dell’identità culturale, l’Altopiano di Chiavano conserva gelosamente reminiscenze polverose di una tradizione popolare ancora viva, che resiste stoicamente alla scomparsa dei suoi più antichi tesorieri. Una tradizione popolare considerabile come il riassunto di molte vite, capace di compenetrare in modo misterioso il senso delle cose, anche di quelle apparentemente più comuni. In prossimità del punto di snodo dell’antico sistema viario romano sorge Coronella, località che deve il suo nome alla colonna di marmo utilizzata dai romani come riferimento nella realizzazione di un qualunque sistema viario[1]. Un paese fantasma, che appare e scompare dietro alberi cresciuti in orti abbandonati; un paese che vive solamente il 15 di agosto, giorno in cui si riaprono gli scuri della chiesa, in una festività tanto semplice quanto sentita. Il mistero della fede che rivive in processioni improvvisate, in edicole sacre che indicano la strada da seguire al pastore e al gregge per la via di montagna, in quelle scalate che sono soprattutto esperienze di vita.
Sulla quinta scenografica di queste vette si proiettano composte e ordinate le ombre degli abitati vuoti e silenziosi, inermi di fronte al trascorrere inesorabile del tempo. Ma è proprio questo silenzio che lascia spazio all’introspezione, un silenzio vuoto di parole, ma non di emozioni. Eppure di silenzi ce ne sono un’infinità e coglierne le differenze non è cosa semplice. Alcuni sono atroci: silenzi di morte e di agghiacciante solitudine, mentre altri sono desiderati, lungamente attesi o sorprendentemente inaspettati. Silenzi eloquenti in cui anche il principio di non-contraddizione viene meno. Silenzi in cui convergono paura e coraggio, lacrime e sorrisi, domande e risposte, coincidentia oppositorum.
Altipiano di Chiavano da Coronella
Il rapporto dell'uomo con la terra
Cime tempestose, ma per ciò che evocano nell’animo di chi le scruta. E allora, l’atteggiamento migliore da mettere in atto è quello dell’attenzione, quello di fermarsi a contemplare. Perché non sempre si è in grado di comprendere con immediatezza il messaggio nascosto dietro il silenzio della natura. Figure antiche, quasi sinistre, abitano questo silenzioso altopiano. Mani nodose e volti scavati dal sudore, un sudore amaro che trova il suo perché nei generosi frutti della terra. Gente abituata alla faticosa vita di montagna, che rifiuta i facili idoli del cosiddetto progresso. Ed è proprio in quelle mani nodose che va ricercato il significato più intimo di questo morboso attaccamento alla terra, di questa forte devozione alla fatica e al lavoro, che sì nobilita, ma che rende l’uomo simile alle bestie. Eppure sembra quasi che tra i contadini e la natura intercorra un rapporto quasi mistico, capace di infrangere il legame con il sacro e di mescolarsi con il profano fino a confluire come un unico corso d’acqua nel vasto oceano della tradizione popolare. Un territorio complesso che neanche il suo più antico abitante conosce nel profondo, un calderone di tradizioni, cultura e di storie le cui origini sembrano perdersi nella notte dei tempi.
Una terra che trasuda saggezza popolare, in cui si sovrappongono i fantasmi e memorie di un passato lontano, ma mai dimenticato. Un passato glorioso, che affonda le sue radici nei fasti dell’antica Roma e nelle campagne circostanti il piccolo borgo di Villa San Silvestro, paese di appena venti anime divenuto celebre per la presenza di un tempio romano probabilmente dedicato a Ercole. La genesi dell’eroe a cui il tempio è dedicato, risultato dell’unione carnale tra la terrestre Alcmena e Giove, sembra rafforzare ulteriormente il rapporto che intercorre tra questa terra e il cielo, tra la materia e il celeste, tra ciò che è umano e il divino. Proprio sul podio del tempio romano sorge la chiesa del paese, nel punto in cui, in un passato neanche troppo lontano, si innalzavano cori votivi rivolti alle divinità del pantheon romano, in un luogo in cui dimora un profondo timore del divino.
Ed è proprio da Chiavano che inizia il nostro viaggio, dalla terrazza che domina questa terra selvaggia i cui figli, sia nelle grandi gesta che in quelle quotidiane, sono riusciti a esprimere un valore e un ardore in alcuni casi quasi eroici, che solo chi abita a un passo dal cielo riesce a sfoggiare nelle battaglie più dure, in quei sovraumani silenzi che fanno rumore.
[1] Si tratta della cosiddetta pietra miliare vedi http://www.treccani.it/vocabolario/miliare1/.⇑
Come già avvenuto altre volte nella Storia, anche in questo caso da un piccolo lembo di terra ferito nel cuore del “Cuore d’Italia” possono germogliare semi di futuro per il Paese e l’Europa.
Montanari testoni
Quattro documentari, quattro storie che raccontano la rinascita della Valnerina. A un anno dal sisma che ha colpito l’Italia centrale, quattro documentari, scritti, prodotti e realizzati con il progetto Restart. Comunità resistenti da MenteGlocale – laboratorio permanente di comunicazione sociale, con sede a Perugia – raccontano le storie di una terra, la Valnerina umbra, che ha reagito ai danni materiali e morali del terremoto.
Norcia, Campi, Cascia, Ruscio: il sisma ha colpito le popolazioni toccandole negli affetti, nelle abitudini e nelle piccole e grandi sicurezze della vita di tutti i giorni. Questi “montanari” sono stati feriti ma non sconfitti, e in alcuni casi hanno saputo reagire alle difficoltà rimboccandosi le maniche. Scritto da Filippo Costantini, Giorgio Vicario e Daniele Suraci, che ne ha anche curato regia e montaggio, il progetto Restart. Comunità resistenti è stato realizzato con il contributo del Corecom Umbria, attraverso il bando Tv di Comunità 2017.
I quattro documentari
I quattro docu-film cercano di raccontare le storie di questi territori, le storie poco conosciute o che in pochi raccontano. Persone e luoghi sono i protagonisti, che vanno oltre il terremoto e che cercano di rimboccarsi le maniche per ricominciare e andare avanti.
Montanari testoni
Nata nel novembre 2016 a Norcia, dentro una tenda da campo, l’associazione Montanari Testoni è stata promossa da un gruppo di giovani del territorio per affrontare insieme le avversità legate al terremoto. Per parlare e confrontarsi sulla situazione personale e collettiva e per proporre attività di partecipazione, condivisione, collaborazione e promozione culturale dedicate agli abitanti di Norcia. Da centro di raccolta di beni alimentari e vestiti, a vero e proprio centro sociale, il container ha ospitato in questi mesi – e continua a farlo – riunioni di condominio, laboratori per bambini, cineforum e molto altro, fino alle prove della celebre Corale di Norcia, rimasta senza una sede, ed è diventato ormai un punto di riferimento fondamentale per tutta la comunità nursina.
Le suore di Cascia
Rita
A Cascia, dopo la scossa del 30 ottobre 2016, diversi edifici sono risultati inagibili, ma tranne pochi casi non ci sono stati crolli. Per questioni di sicurezza, per la prima volta nella storia di Cascia la Basilica di Santa Rita è stata chiusa e le suore Agostiniane di clausura hanno dovuto abbandonare il Monastero, facendovi rientro dopo alcune settimane. È in questo contesto che si racconta la vita all’interno del Monastero di clausura delle Suore di Cascia e il rapporto dei casciani con Santa Rita: in una Cascia colpita dal sisma l’icona della Santa è una presenza concreta di speranza per il futuro.
Maddalena
Ruscio è una piccola frazione del Comune di Monteleone di Spoleto composta di case a due piani, palazzi storici, tre chiese, due piazze, un ponte e tante fontane. Il borgo si sviluppa lungo una sola via tagliata da un ponte che divide Ruscio di sopra da Ruscio di sotto. La frazione, dove vi risiedono stabilmente settanta persone, non ha subito molti danni. I segni materiali dei recenti terremoti ci sono, ma non sono fortissimi: i danni forse più evidenti sono nelle persone e sono legati alla paura dello spopolamento, al timore che almeno per qualche anno non sarà più come prima. Ogni anno d’estate i rusciari sparsi nel mondo ritornano nella piccola frazione umbra per passare le loro vacanze, ripopolando case che per buona parte dell’anno sono custodite con cura dai pochi abitanti stabili del paese. Il 24 agosto viene celebrata la tradizionale Cena dei Rusciari, momento irrinunciabile per salutarsi prima di tornare ai propri luoghi di residenza. Nel 2016, a causa del terremoto, la cena è stata annullata.
Doctormonster
Back to Campi è il sogno di Roberto Doctormonster Sbriccoli, muratore-dj di Campi, frazione del Comune di Norcia fortemente colpita dalle scosse del 2016. La parte alta della frazione è zona rossa, tutte le case sono inagibili, e diverse sono quelle crollate. Tra la parte alta e quella bassa del paese sorge la sede della Pro Loco, una struttura inaugurata appena 4 giorni prima del terremoto del 24 agosto 2016 e costruita dagli abitanti di Campi guidati da Docmonster. Una struttura antisismica in classe 4 che è stata da subito utilizzata come centro d’accoglienza per l’emergenza. Nelle settimane successive alla scossa agostana ha ospitato fino a novanta persone, rivelandosi fondamentale per offrire riparo e assistenza ai campesi. Animatore e coordinatore dello spazio è stato Docmonster, che è anche il presidente della Pro Loco. Sono stati giorni difficili, carichi di sconforto e nervosismo, ma quel luogo è stato fondamentale. Oggi molti degli abitanti di Campi vivono nei container e nelle casette di legno appena consegnate. Docmonster ha un sogno che si chiama Back to campi, un progetto da 4 milioni di euro che ha l’obiettivo di costruire su di un terreno appena acquistato dalla Pro Loco un centro polifunzionale per il turismo e lo sport. È un progetto che ha l’obiettivo di fornire una struttura completa e dotata di tutti i servizi a chi d’estate verrà in vacanza (prima del sisma erano in molti a scegliere questo luogo per le vacanze estive) in queste zone ed ha l’ambizione di essere un centro polifunzionale per i ritiri pre campionato delle squadre dei diversi sport. Docmonster si è messo in testa di realizzare questo progetto.