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«Il mio modo di manifestare l’Arte è per me una profonda riflessione sull’umanità dell’artista; dico spesso che è l’opera che fa l’artista»

Bruno Ceccobelli

 

Bruno Ceccobelli, allievo di Toti Scialoja, è un artista spirituale che ha sviluppato un linguaggio formale del tutto autonomo e scevro dalle influenze dettate dalla moda. Dalla seconda metà degli anni ’70 fa parte degli artisti che si insediarono nell’ex pastificio Cerere a Roma, nel quartiere san Lorenzo, gruppo poi divenuto noto come Nuova scuola Romana o Officina san Lorenzo. L’artista tiene la sua personale nel 1976 presso la Galleria Spazio Alternativo di Roma; successivamente espone a Parigi e New York. Nel 1984 e nel 1986 è invitato alla Biennale di Venezia ed espone in diverse mostre in Europa, Canada e Stati Uniti.

C’è stato un momento in cui ha capito che l’arte avrebbe fatto parte della sua vita e che lei sarebbe diventato un artista?

Beh, era il 1959 e frequentavo la prima elementare, vinsi un premio di pittura promosso dall’I.N.A.- Istituto Nazionale Assicurativo, un libretto di risparmio a mio nome; vivevo in campagna e i miei erano contadini: fu uno sconvolgimento per tutto il circondario. Dipinsi un pastorello che conduceva le pecore, prendendo spunto dalla raffigurazione pubblicitaria della scatola dei colori Giotto che avevano per icona emblematica Cimabue, il quale guardava con entusiasmo il piccolo Giotto, che diverrà poi suo allievo, mentre disegnava una pecora su una roccia. Mi ero così impressionato da quel romanzato episodio artistico che credetti nel sogno totalmente… e come Giotto anch’io stavo con le pecore, in fondo mi mancava solo un futuro maestro: già, d’altronde non si racconta anche nella Bibbia che «quello che credi ti sarà dato»?

Lei è stato un allievo di Toti Scialoja: questa relazione quanto ha influito sulla sua arte? Se vuole, ci può raccontare un aneddoto che ricorda con piacere?

Quattordici anni dopo aver vinto quel mio primo premio, all’Accademia di Belle Arti di Roma, Sezione Scenografia, arrivò il mio primo maestro, Toti Scialoja, un uomo coltissimo, pittore, poeta, già famoso per aver avuto allievi importanti come Pino Pascali, Jannis Kounellis, Giosetta Fioroni e Carlo Battaglia. Toti era un istrione, un perfetto narratore, un rigoroso insegnante e infine un bonario amico. Ricordo con piacere l’ultima sua lezione, che fece anni dopo la sua uscita dall’Accademia; per il suo ottantesimo compleanno organizzammo una festa di reincontro: lui e i suoi allievi più affezionati, pranzammo a San Lorenzo, al ristorante Pommidoro, per poi scegliere il mio studio all’ex Pastificio Cerere per un ulteriore saluto. Toti, emozionato, non si trattenne e si caricò per darci una sua definitiva prolusione sulla gnoseologia dell’arte; finito il discorso con applausi e commozione, io rimasi scosso perché, ancora una volta, non solo lo ritrovai empatico, ma quello che il prof. aveva appena detto era esattamente il mio pensiero sull’arte. Dunque, non ero io allievo che avevo un pensiero artistico originale, ma si ergeva in me lo spirito del maestro e ne fui felice.

 

”Motore Universale”, 2011, tecnica mista su legno

L’arte è quindi il saper rappresentare la visione olistica-filosofica e ontologica dell’umana esistenza; infatti nelle sue opere è molto forte e preponderante l’aspetto spirituale, il modo di ricercare l’essenza attraverso l’arte. Ci può raccontare?

A diciassette anni, a Roma, incontrai il mondo della Teosofia grazie a Emma Cusani della L.U.T. – Logge Unite Teosofiche, così approfondii il pensiero filosofico di Madame Helen Blavatsky che tanto aveva influenzato pittori del Novecento come Hilmaaf Klint, Kazimir Malevic, Vasilij Kandinskij, Paul Klee e Piet Mondrian. Poi, nel 1985 fui uno dei pochi artisti italiani viventi a partecipare al Los Angeles County Museum of Art, quell’esposizione storica itinerante dall’America all’Europa dal titolo The Spiritual artabstract painting 1890-1985. Il mio modo di manifestare l’Arte è per me una profonda riflessione sull’umanità dell’artista; dico spesso che è l’opera che fa l’artista. Senza dubbio i miei dipingere e scolpire sono iconico-simbolici e i miei temi sono le profondità del cosmo e dell’anima.

Vorrei concludere chiedendole di lasciarci con una parola su cui riflettere; una parola che per lei rappresenti il connubio tra la sua arte e l’Umbria.

Sono nato a Todi, nel cuore dell’Umbria che è il cuore d’Italia. Mi sento fortunato, vorrei abbinare all’Umbria i miei quadri fatti con la parola cuore.

«L’ispirazione mi viene da dentro, non c’è un momento preciso. Ora l’obiettivo è lanciare il marchio MR». 

Monia Romanelli

Monia Romanelli è un’artista che si esprime attraverso la tela, ma anche attraverso abiti e accessori. Un’arte astratta e contemporanea che vive di colore ed estro: «Ho iniziato a 19 anni, ma la pittura è nel mio DNA da sempre. Ora voglio affermarmi con il marchio MR e magari portare i miei lavori a New York».    

 

Chi è Monia Romanelli?

Sono una pittrice, un’artista. Ho realizzato diverse opere, poi nel 2015, partendo dai miei quadri, ho pensato di unire arte e moda creando dei foulard in seta stampati con i miei disegni. Ho fuso, in questo modo, due settori che amo.  

 

L’arte è una passione che hai fin da bambina?

Ho iniziato a 19 anni, circa. Ma l’arte c’è nel DNA della mia famiglia, perché mio zio, mia zia e mia cugina, sono artisti e sto coinvolgendo anche le mie figlie.

Come definiresti i tuoi lavori?

Faccio molta ricerca in chiave contemporanea. Una mia produzione sono I mosaici dell’anima, una finestra dove guardare i sogni e le ambizioni con una geometria molto pensata e tridimensionale. Ogni tessera della tela è una finestra sul mondo e nell’insieme è proprio il mondo con la sua complessità che vuole essere rappresentato. Ogni tessera è diversa dall’altra, ha un suo cuore, una sua luce pura e uno suo stile.

 

I mosaici dell’anima

Moda o arte: qual è il settore che preferisci? 

A me piace creare, quindi amo sia l’arte sia la moda. In questo momento sto puntando a lanciare il marchio MR, anche se ovviamente non tralascio l’arte, perché è proprio dalle mie creazioni che nascono le stampe per i capi. Con molta fatica e impegno cerco di coniugare i due settori.

Come avviene la realizzazione?

La stoffa e la pelle – per foulard e borse – le faccio stampare dopo aver scelto tra le mie opere; ora sto creando anche una linea di magliette dipinte a mano, come dipinti a mano sono gli orecchini. Parto sempre da un mio quadro per creare il prodotto.   

C’è un momento preciso in cui arriva la tua ispirazione?

Vado molto a periodi. Come ogni artista ci sono momenti che non creo e altri più intensi che magari in tre mesi faccio anche 50 opere. Realizzando opere astratte l’ispirazione viene da dentro di me, devo sentire l’opera interiormente, quindi non c’è un momento preciso.

C’è un’opera a cui sei particolarmente legata?

Sì, ce n’è una in particolare che sento molto vicina: è un mosaico dell’anima con uno sfondo nero.

Hai di recente aperto una boutique in centro a Perugia…

Esatto, ho rilevato da circa un mese una boutique che era un’attività già avviata in cui ho inserito il mio brand MR – vendendo foulard, camicie, borse e altro – ma ho anche mantenuto le altre marche già presenti in negozio. Mi sto impegnando al massimo in questo nuovo progetto.

Se l’Umbria fosse un’opera d’arte, come la rappresenteresti?

La rappresenterei con mosaico che ha poche aperture ed esprime molta chiusura. Amo l’Umbria perché ci sono nata e ci vivo, ma è una regione molto chiusa, in netta contrapposizione con la mia arte che è aperta e all’avanguardia. Quindi realizzerei un mosaico abbastanza chiuso.

 

I mosaici dell’anima

Il tuo sogno?

Come prima cosa sviluppare il marchio MR, creando anche una serie di abiti. Se devo sognare in grande, vorrei portare a New York la mia arte e poi andarci a vivere.

Quali sono le tue riflessioni sul mercato dell’arte oggi in Italia?

È un mercato molto difficile. Un artista deve farsi valere e far valere le proprie idee e le proprie opere. Questo, in Italia e nel mondo in generale, è molto complicato. Però, chi fa arte, la fa a prescindere dal mercato o dai vantaggi che ne può ricavare; la fa per un’esigenza personale interiore, per un desiderio innato.

 


Per saperne di più

Il Commissario straordinario, Gioacchino Napoleone Pepoli, il 15 dicembre 1860 con il decreto n. 197 istituiva la Provincia dell’Umbria: venivano in tal modo riunite le preesistenti quattro delegazioni pontificie di Orvieto, Perugia, Spoleto e Rieti e a esse veniva accorpato anche il mandamento di Gubbio, sottratto alla delegazione di Urbino e Pesaro, in cambio del mandamento di Visso che veniva invece ceduto a Camerino. La Provincia dell’Umbria si trovò dunque articolata in 6 circondari, suddivisi in 176 comuni e 143 appodiati per una superficie complessiva di 9702 km2.

 

La Provincia dell’Umbria nacque in mezzo a grandi polemiche e scontenti che il marchese Pepoli cercò di sedare sia con la parola, richiamando le popolazioni a dare prova di abnegazione «sacrificando al bene della patria le tradizioni e gli interessi municipali»[1], sia con la forza, sedando sul nascere possibili reazioni armate. Il Palazzo della Provincia, fin dalla scelta strategica del luogo della sua edificazione, ossia dove un tempo sorgeva la Rocca Paolina, odioso simbolo del potere papale, ha una forte valenza simbolica. La scelta di affidare a Domenico Bruschi l’impresa decorativa del Palazzo non risulta in quest’ottica certo casuale e, se da un lato deve essere stata favorita dall’aver egli lavorato in più occasioni a fianco dell’architetto Antonio Cipolla, a cui era stata affidata la perizia del nuovo palazzo, di sicuro essere stato il figlio di Carlo che aveva partecipato alla prima guerra di indipendenza diventa garanzia di adesione profonda alla modernità e di fedeltà all’Italia unita con le proprie istituzioni. Il ciclo degli affreschi del Bruschi, iniziato nell’estate del 1873 e terminato in occasione del primo Consiglio provinciale tenutosi il 10 settembre di quell’anno, ha pertanto un fortissimo valore simbolico volto a sancire l’ufficialità della nuova istituzione. Nella Sala del Consiglio il Bruschi rappresenta 8 figure allegoriche, personificazioni delle entità politiche di recente creazione. Colloca l’Italia e la Provincia dell’Umbria l’una di fronte all’altra, affiancate dalle città di Foligno, Orvieto, Perugia, Rieti, Spoleto e Terni «in una disposizione radiale e sostanzialmente agerarchica che sottolinea l’armonico concorso delle parti all’unità»[2]. La Provincia dell’Umbria viene collocata, e non a caso, in corrispondenza dello scranno del Presidente ed è rappresentata seduta su un trono di pietra che reca gli stemmi delle città di Perugia, Foligno, Terni, Spoleto, Rieti e Orvieto ed è sormontato dal gonfalone della Provincia dell’Umbria (un grifo azzurro passante su sfondo rosso).

 

Domenico Bruschi, Provincia dell’Umbria, 1873 (Perugia, Palazzo della Provincia)

 

Sullo sfondo un paesaggio collinare che, insieme ai rami di ulivo e di quercia che la donna sorregge con la mano destra e al grano e ai frutti che escono dalla cornucopia sulla sinistra, suggeriscono la vocazione agricola e al contempo la fecondità del territorio della Provincia dell’Umbria. La donna è vestita con un ricco abito di broccato azzurro e oro. I colori ribadiscono ancora, con la loro simbologia, l’immagine che si vuole trasmettere e, mentre il blu prefigura la lealtà e la pietà, l’oro garantisce la legittimità del potere, la gloria e la potenza. Non a caso l’aquila, che da sempre simboleggia la potenza cosmica e che viene scelta come animale per reggere il cartiglio con il nome Provincia dell’Umbria nella Camera n. 10 dello stesso Palazzo, è immersa in un cielo stellato eseguito con gli stessi identici colori.

 


[1] Citazione tratta da G.B. Furiozzi, La Provincia dell’Umbria dal 1861 al 1870, Perugia, Provincia di Perugia, 1987, p. 7 e n. 10.

[2] S. Petrillo, La decorazione pittorica tra nuovi simboli, storia e politica per immagini, in F.F. Mancini (a cura di), Il Palazzo della Provincia di Perugia, Perugia, Quattroemme, 2009, p. 218.

L’Umbria conserva e custodisce la memoria della straordinaria vicenda artistica di Raffaello; in tutta la regione infatti, il maestro urbinate ha lasciato tracce, dirette o indirette, della sua arte.

Stendardo. Recto, La Crocifissione. Olio su Tela. Pinacoteca Comunale di Città di Castello

Fu un pittore e un architetto tra i più celebri del Rinascimento. Considerato uno dei più grandi artisti di ogni tempo, le sue opere segnarono un tracciato imprescindibile per tutti i pittori successivi, tanto che fu di vitale importanza per lo sviluppo del linguaggio artistico dei secoli a venire. Raffaello nacque a Urbino «l’anno 1483, in venerdì santo, alle tre di notte, da un tale Giovanni de’ Santi, pittore non meno eccellente, ma sì bene uomo di buono ingegno, e atto a indirizzare i figli per quella buona via, che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostrata nella sua bellissima gioventù».[1] Una seconda versione identifica il giorno di nascita dell’artista il 6 aprile.

A scuola dal Perugino

La città di Urbino fu determinante per la formazione del giovane: Raffaello infatti, fin da giovanissimo, aveva accesso alle sale di Palazzo Ducale, e poté ammirare le opere di Piero della Francesca, Francesco di Giorgio Martini e Melozzo da Forlì. Ma il vero e proprio apprendistato ebbe luogo nella bottega del Perugino, dove ebbe modo di riscoprire, attraverso le raffinate variazioni del maestro, la rigorosa articolazione spaziale e il monumentale ordine compositivo.
Raffaello intervenì negli affreschi del Collegio del Cambio a Perugia: la sua pittura è riconoscibile dove le masse di colore assumono quasi un valore plastico. È proprio in questo contesto che Raffaello vide per la prima volta le grottesche, dipinte sul soffitto del Collegio, che entrarono in seguito nel suo repertorio iconografico.[2]
Nel 1499 un sedicenne Raffaello si trasferì a Città di Castello, dove ricevette la sua prima commissione indipendente: lo Stendardo della Santissima Trinità, commissionato da una confraternita locale che voleva offrire un’opera devozionale in segno di ringraziamento per la fine di una pestilenza – oggi conservato nella Pinacoteca Comunale di Città di Castello. Si tratta di una delle primissime opere attribuite all’artista, nonché l’unico dipinto dell’urbinate rimasto nella città tifernate. Lo stendardo raffigura nel recto la Trinità con i santi Rocco e Sebastiano e nel verso la Creazione di Eva. Evidenti sono ancora i precetti dell’arte del Perugino, sia nel dolce paesaggio sia negli angeli simmetrici con nastri svolazzanti.

 

Sposalizio della Vergine. Olio su Tela, realizzata per la Chiesa di San Francesco a Città di Castello, ora conservata alla Pinacoteca di Brera

 

A Città di Castello l’artista lasciò almeno altre due opere: la Crocifissione Gavari e lo Sposalizio della Vergine per la chiesa di San Francesco. Nella prima è facile notare una piena assimilazione dei modi del Perugino, anche se sono evidenti i primi sviluppi verso uno stile proprio. Oggi è conservata alla National Gallery di Londra. La seconda  invece è una delle più celebri opere dell’artista, che chiude il periodo giovanile e segna l’inizio della fase della maturità artistica. L’opera s’ispira alla pala analoga realizzata dal Perugino per il Duomo di Perugia, ma il confronto tra i due dipinti rivela profonde e significative differenze. Entrando nella piccola ma deliziosa chiesa di San Francesco, accanto alla cappella Vitelli costruita nella metà del 1500 su disegno di Giorgio Vasari, è presente l’altare di San Giuseppe, che custodisce una copia dello Sposalizio della Vergine, poiché l’originale, rubata dalle truppe napoleoniche nel 1798, è conservata nella Pinacoteca di Brera.

Le opere realizzate a Perugia

Intanto la fama dell’artista iniziò ben presto a diffondersi in tutta l’Umbria; giunse così nel capoluogo umbro: Perugia. In città gli venne commissionata la Pala Colonna, per la chiesa delle monache di Sant’Antonio e nel 1502-1503 la Pala degli Oddi, commissionata dalla famosa famiglia perugina per la chiesa di San Francesco al Prato. Nel 1503 l’artista intraprese molti viaggi che lo introdussero nelle più importanti città italiane quali Firenze, Roma e Siena. Ma le commissioni dall’Umbria non tardarono ad arrivare: nel 1504 venne commissionata la Madonna con il Bambino e i santi Giovanni Battista e Nicola, definita Pala Ansidei.
Nello stesso anno firmò a Perugia l’affresco con la Trinità e Santi per la chiesa del monastero di San Severo, che anni dopo Perugino completò nella fascia inferiore. Opera di cruciale importanza fu la Pala Baglioni (1507) commissionata da Atalanta Baglioni per commemorale i fatti di sangue che portarono alla morte di Grifonetto, suo figlio. L’opera fu realizzata per la chiesa di San Francesco al Prato a Perugia. Nella pala l’urbinate rappresentò l’indescrivibile dolore di una madre per la perdita del figlio e il vitale slancio di turbamento, attraverso una composizione monumentale, equilibrata e studiata nei minimi dettagli.

Trinità e Santi. Affresco

Trinità e Santi. Affresco. Cappella di San Severo, Perugia

 

Raffaello divenne il pittore di riferimento per le più grandi e importanti famiglie perugine come i degli Oddi, gli Ansidei e i Baglioni, affermandosi come un grande artista di rilievo; nel contratto della sua opera, l’Incoronazione della Vergine, per la chiesa delle monache di Monteluce, venne citato come il miglior maestro presente in città.
Raffaello morì il 6 aprile del 1520 di febbre ,provocata, come precisa Vasari, «da eccessi amorosi». Questo anno ricorre il cinquecentesimo anniversario dalla morte. Raffaello fu al vertice della stagione artistica del Rinascimento, portando la sua pittura ai massimi livelli di bellezza e armonia. Giovanni Paolo Lomazzo scrisse: «Raffaello aveva nel volto quella dolcezza e quella bellezza dei tratti che tradizionalmente si attribuiscono a nostro Signore».
Visse la sua vita con grande impegno e continuità, donando alle generazioni future il suo incredibile talento e la sua preziosa arte, tanto da meritarsi già in vita l’appellativo di divino.

 


[1] Giorgio VasariLe vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettiVita di Raffaello da UrbinoFirenze 1568.
[2] Paolo Franzese, Raffaello, Mondadori Arte, Milano 2008, p. 13.

«La musica dovrebbe andare contro il sistema, oggi invece vale più il personaggio che le canzoni che canta. La musica non ha più valore».

Lo abbiamo incontrato a Castiglione del Lago – a Palazzo Pantini Nicchiarelli – in un caldo pomeriggio d’estate. Bernardo Lanzetti, la migliore voce rock degli anni Settanta, dal 2014 vive in Umbria sulle rive del lago Trasimeno: «Mia moglie ha deciso di vivere qui» ci confessa. Seduti su un divano facciamo una bella chiacchierata, ripercorrendo la sua carriera di cantante progressive rock – negli Acqua Fragile, nella Premiata Forneria Marconi e da solista – e bacchettando il mondo della musica di oggi. Tra una domanda e l’altra c’è spazio anche per degli intermezzi musicali: è un piacere ascoltare la sua voce ancora potente e gli acuti che nella stanza risuonano alla perfezione. «Ho ancora la miglior voce in circolazione. Non lo dico io, ma i tecnici delle sale di registrazione» commenta orgoglioso.

Come ami ha deciso di vivere in Umbria?

Non l’ho scelto io, ma mia moglie. Frequentavamo Castiglione del Lago già nel 2010, era la nostra base quando partecipavamo a eventi di progressive rock nel Centro Italia. Poi siamo tornati diverse volte e nell’aprile del 2014 abbiamo deciso di trasferirci.

Ci racconti brevemente – soprattutto per i più giovani – la sua carriera.

Cercherò di essere breve, ma sarà difficile! Ho iniziato a cantare da bambino nel coro della chiesa, spesso mi capitava di cantare da solo, inventandomi le parole. Poi sono andato in America con una borsa di studio e lì ho respirato musica ovunque; nella famiglia che mi ospitava c’era un ragazzo che faceva – e fa tuttora – il musicista, quindi per me è stato abbastanza facile avvicinarmi a questo mondo. Tornato in Italia ho proseguito su questa strada e a 17 anni mi è cambiata la voce in meglio: la mia prima band è stata gli Acqua Fragile – da alcuni anni ci siamo riuniti – poi sono passato alla Premiata Forneria Marconi, con i quali ho debuttato a Tokyo e in tante città del mondo. Lasciata la PFM ho intrapreso una carriera da solista, durante la quale ho inciso quattro album; poi mi sono dedicato al teatro, all’elettronica e a diverse sperimentazioni musicali. Ho scritto pezzi per Loredana Bertè e Ornella Vanoni.

Meglio fare il cantante in un gruppo o è meglio fare il solista?

Io sono nato con l’idea e la voglia di cantare in un gruppo. I gruppi oggi funzionano poco perché sono troppo costosi: portare in giro 5 persone è decisamente dispendioso, è più conveniente una persona sola con musica registrata. Non a caso i gruppi ancora attivi sono nati 30, 40, 50 anni fa.

 

Bernardo Lanzetti

Quali sono stati i cantanti o i gruppi che hanno influenzato la sua carriera?

Ce ne sono tantissimi. Ray Charles è uno di loro, è stato forse il mio primo maestro. Ho sempre amato i cantanti dei gruppi: dai Beatles ai The Rolling Stones, fino agli Eagles e gli U2. Nei gruppi il cantante non è impegnato solo nel cantare una canzone, ma nel cantare una parte della composizione. Devo dire che ho avuto solo modelli stranieri, non ho nessuna ispirazione italiana. Quando ero bambino ascoltavo Tony Dallara (ride!), ma non ha certo ispirato il mio percorso artistico.

Dal 1975 al 1979 è stata la voce della PFM: ci racconti un aneddoto legato a quel periodo.

Ce ne sono tantissimi. Forse il più divertente è quello del mio arruolamento. Quando mi hanno chiesto di andare a cantare con loro ho preso del tempo per pensarci e loro si sono offesi, mi hanno tolto il saluto e hanno contattato Ivan Graziani, che però ancora non era il cantautore che oggi tutti conosciamo. Mi hanno richiamano dopo sei mesi e sono entrato a far parte del gruppo a tre giorni dall’incisione del disco: le mie tonalità erano altissime – lo sono ancora oggi – così ho fatto il provino cantando con un cuscino davanti alla bocca per paura di infastidire i vicini di casa.

A tal proposito è stata definita la «migliore voce rock degli anni Settanta»: questa definizione la rispecchia?

Io penso di esserlo tuttora! (scherza) Non lo dico io, ma i tecnici in sala di registrazione. Io dopo una, due, tre prove sono pronto per cantare, non mi occorre tanto tempo per prepararmi. Sono cosciente del mio valore e conosco a memoria tutti i pezzi del mio repertorio.

Ho letto che i Genesis, dopo aver perduto Peter Gabriel, avevano preso in considerazione l’ipotesi di invitarla a far parte della band: è vero? L’hanno mai contattata?

L’ho saputo anni dopo. All’epoca non mi fu detto nulla. Steve Hackett, chitarrista dei Genesis e mio amico, in anni recenti ha dichiarato in un’intervista che mi avevano preso in considerazione per entrare nella band. Ecco, è così che l’ho scoperto.

Avrebbe accettato?

Sarei stato sicuramente onorato.

Oggi che musica ascolta?

Ascolto musica solo per lavoro, non la uso mai come sottofondo. Fare musica è un mestiere impegnativo, che non ammette interruzioni, è un processo che assorbe molto.

Pensa di avere degli eredi artistici?

Vorrei, ma non ne vedo. Oggi c’è solo la celebrazione della celebrità. Quando cantavamo noi lo facevamo sempre nel rispetto dei maestri del passato; negli ultimi anni i cantanti pensano invece di essere innovativi, i più bravi da subito e non si rendono conto che se fanno cose belle è perché le copiano dal passato. Inoltre, nei testi di oggi manca spessore, nessuno racconta la propria vita o la propria realtà; non c’è poesia, viene tutto subito dichiarato. A questo punto basta fare un manifesto e comunicare quello che si vuol dire, non occorre più scrivere canzoni. Oggi non conta la produzione ma solo la promozione; insomma, la musica non conta più nulla.

Ha qualche progetto di cui ci vuol parlare?

Abbandonare la musica (scherza). No, ora mi dedico a progetti nuovi come cantare con un’orchestra; ho inoltre finito un album realizzato con musicisti stranieri e poi mi focalizzo sulla ricerca del canto particolare e su quella di una lingua usata in modo poetico. Anche la nostra lingua è in crisi perché adoperiamo non più di 40 parole al giorno, non si riconosce il valore dei poeti del passato e non ci si accorge di quanto si copi. La musica è stata molto importante per la società negli ultimi 100 anni, ora invece non lo è più: non esprime più la realtà di oggi, non è più collegata alla società.

Secondo lei, tutto ciò quando è avvenuto?

È avvenuto quando l’industria musicale ha capito che la massa è ignorante e quindi era inutile dar valore alla musica; quando ha più valore vendere il personaggio, la musica diventa solo un pretesto. Mi spiego: quando i Beatles sono venuti a Milano hanno fatto 3.500 persone, Vasco Rossi ne raduna 180.000 in tre giorni: Vasco vale di più dei Beatles? A questa domanda non rispondo.

Possiamo dire che è solo questione di gusti?

La musica non deve piacere, può anche giocare un ruolo decisivo per mettere in crisi il sistema, non assecondarlo. Oggi ciò non avviene più. L’opera lirica a suo tempo mise in crisi la musica strumentale e Giuseppe Verdi era un artista popolare così come lo è oggi Jovanotti: ma il valore di Verdi è innegabile rispetto alla musica leggera che si ascolta oggi. Inoltre, nella maggior parte dei casi si finge di suonare… nessuno suona più veramente, è tutto registrato. È come andare in fabbrica e fingere di lavorare.

Per finire, come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Dovevo prepararmi a casa… Posso però prendere le parole di Nick Clabburn che ha scritto un testo in cui è citato il lago Trasimeno: «Qua sulle rive del mio lago, il tuo nome è scritto nel silenzio. Che si accenda il cielo, voglio luci nel cielo vuoto questa notte».

La nascita del lavoro di Karpüseeler ha avuto luogo dal «magico incontro tra la ricerca e la manualità».

È con queste semplici parole che l’artista descrive le sue creazioni, ponendo su un piano l’idea progettuale che cresce e prende corpo, su un altro invece l’attitudine fabbricativa: la sintesi dei due elementi fa sì che si realizzi un interscambio vivo tra l’artista e l’opera. La mostra di Karpüseeler –  Vivavoce: antologia minima di opere scelte 1978-2018 – visibile fino al 14 ottobre – a cura di Aldo Iori, è allestita presso gli spazi del Museo Archeologico all’interno del complesso CAOS –Centro Arti Opificio Siri di Terni.

 

Pazzipuzzles di Karpuseeler

Chi è Karpüseeler?

Karpüseeler è un artista a tutto tondo; terminati gli studi superiori si diploma con il massimo dei voti al corso di pittura all’Accademia di Belle Arti di Perugia, sotto la guida e insegnamento dei professori Corà e Nuvolo; decide così di dedicare la sua vita all’attività artistica. Dagli anni Ottanta la sua ricerca si rivolge alla grande tradizione astratta contemporanea elaborando un personale linguaggio. Vincitore di premi internazionali di scultura, le sue opere sono presenti in numerose collezioni. Negli spazi espositivi del Museo Archeologico, in relazione agli innumerevoli reperti conservati, sono visibili importanti opere esposte in occasione del quarantennale della sua attività artistica; in questo magico ambiente, l’arte contemporanea crea un ideale ponte con il passato, segnalando l’attualità dei luoghi culturali in cui ritrovare le proprie radici, per ribadire l’eterna contemporaneità di tutta l’arte.

 

Coro, 1998

Il percorso espositivo

L’artista, interessato da sempre alle logiche cibernetiche – la sua tesi di laurea aveva come oggetto Arte e Cibernetica – mette in evidenza il confine disciplinare della scultura: nelle opere esposte, poiché la forma tende all’assoluto, la creazione instaura con l’osservatore un inedito rapporto spazio-temporale.
La mostra si apre con un’inedita opera: Vivavoce, la quale fornisce il titolo all’intera esposizione e che, da subito, pone l’osservatore appena entrato nel museo in uno spazio pluridimensionale dell’opera: come se la stessa creazione gli chiedesse ascolto o come se gli proponesse un luogo ideale per la riflessione.
Lungo il percorso espositivo l’osservatore può inoltre ammirare altre opere: Verso infinito (1995), Silenzio bianco (2006), Coro (2007) e Piccola Voce (2016), le quali posseggono invece una forte e assoluta presenza che, come in Brancusi o Spalletti, travalica l’aspetto formale e l’opera ritrova una propria dimensione intellettuale.

 

Per maggiori informazioni

Il meraviglioso e colorato mondo di Jhoan Miró invade le sale di Palazzo della Corgna a Castiglione del Lago.

“Ubu Roi” (1966)

 

All’interno dell’antico palazzo, progettato dal Vignola e da Galeazzo Alessi, e poi abitazione dei marchesi della Corgna, il visitatore entra in contatto con le opere del maestro catalano. La prestigiosa esposizione, visibile fino al 4 novembre, è un’occasione unica per lasciarsi incantare da inattese visioni e da improvvise libertà espressive che fanno di Miró l’incomparabile Maestro del Novecento di cui è difficile non innamorarsi. Interamente curata da Andrea Pontalti, è promossa dal comune di Castiglione del Lago e organizzata da Sistema Museo e Cooperativa Lagodarte, in collaborazione con Aurora Group.

La mostra

La mostra, dedicata alla scoperta di questo meraviglioso artista, si snoda attraverso settanta opere grafiche appartenenti a quattro serie complete. La mostra espone le opere realizzate tra il 1966 e il 1976, in età matura: Ubu Roi (1966), composta da tredici coloratissime litografie, in cui forme e volumi sembrano potersi muovere liberamente nello spazio. Percorrendo le sale del palazzo si possono ammirare anche Le Lézard aux Plumes d’Or (1971), Maravillas con variaciones acrósticas en el jardin de Miró (1975), in queste opere l’artista catalano si esprime con segni neri e vivaci macchie colorate dal forte impatto visivo. Infine, si può anche apprezzare Le Marteau sans maître (1976), nel quale Miró rende omaggio al poeta René Chair, una delle voci più importanti della letteratura francese del Novecento.
Questi capolavori raccontano il sogno poetico di Miró e quella sua capacità di oggettivare le immagini della fantasia e di esprimerle attraverso un linguaggio assolutamente personale, svelando così il rapporto del maestro catalano con i libri d’artista. Attraverso il percorso espositivo viene scoperto il rapporto complesso tra testo e illustrazione proprio di quegli anni. Miró infatti scriveva: «Ho una certa esperienza per poter realizzare quello che si può definire fare un libro, non illustrarlo, che è sempre qualcosa di secondario. Un libro deve avere la stessa dignità di un’opera scolpita nel marmo».

 

Immersi nel colore

Nelle sue opere i colori e lo straordinario alfabeto di segni sono il risultato della sua incredibile capacità di rinnovarsi e di vivere l’arte con curiosità e versatilità. Gli sfondi neutri vengono macchiati da segni scuri e da colori brillanti, come il blu, il rosso, il verde e il giallo, in una precisa alternanza tra corpi informi e linee curve, per dare vita a vere e proprie visioni oniriche.
«Questa mostra offre uno spaccato interessante e di nicchia su Miró, un artista infinito da conoscere. (…)Visitare la mostra significa immergersi nel linguaggio artistico generato da questo ​straordinario artista». È con queste parole che Andrea Pontalti, il curatore della mostra, descrive le opere del grande artista catalano. La prestigiosa esposizione di Castiglione del Lago è un’occasione unica per lasciarsi incantare dal meraviglioso linguaggio surrealista di Miró. La mostra accompagna il visitatore alla scoperta di quell’alternanza di segni, versi e immagini che solo un’artista eccelso come Jhoan Miró può raffigurare.

 

“Le Lézard aux Plumes d’Or” (1971)

 


Per maggiori informazioni: Palazzo della Corgna

Il  pittore inglese Graham Dean, plasma «magnifiche modelle, atleti, incredibili feticisti del bondage, gemelli omozigoti, individui con imperfezioni fisiche» usando i loro corpi come «veicoli d’espressione»[1]. Attraverso i suoi incredibili e innovativi acquerelli, narra emozioni, idee e ricordi, giocando con i contrasti e con strati innumerevoli. Guardando ai suoi rossi, è facile immaginarsi le luminose tinte dell’India, ma difficilmente potremmo credere che Dean sia stato ispirato anche dall’Umbria.

 

Era il 1992 quando Graham Dean, nato a Birkenhead, nel Merseyside, venne in Italia per trascorrere sei mesi di soggiorno-studio alla British School di Roma. Aveva vinto un prestigioso premio – il Senior Abbey Award in Painting – e aveva sfruttato la possibilità offerta di vivere e visitare Roma e le città circostanti. Da quel momento in avanti, l’Italia gli entrò nel cuore.
Durante le numerose visite fuori Roma, Graham visitò la rinomata città di Assisi e poi, sulla via del ritorno, si fermò in una piccola cittadina sul Lago Trasimeno.
«Non sapevo niente dell’Umbria, ma mi soffermai sul lago e sulle terre che lo circondano, chiedendomi come mai questo posto fosse un tale segreto. Perché era così poco conosciuto?» afferma Graham. «Una volta tornato a Roma, giurai che un giorno sarei tornato per comprarvi una casa e, magari, uno studio».

Era solo l’inizio: Graham Dean, che ha esposto in numerose personali in tutto il mondo, rimase cposì folgorato dall’Umbria che, adesso, possiede una casa-studio tra Migliano e San Vito, a circa 15 minuti da Marsciano. Torna in quella tenuta, circondata da campi e costeggiata dal fiume Fersenone, circa cinque o sei volte l’anno.
«Nello studio, lavoro sui progetti o sulle idee. Posso contare sulla gran quantità di tempo che ho, per pensare e riflettere. Mi sono accorto, nei quindici anni che possiedo la casa, che questo è l’unico ambiente in cui posso rilassarmi completamente. C’è un’atmosfera che è difficile da descrivere, a meno che non la si sperimenti in prima persona, e tutti quelli che vengono a farmi visita lo confermano. Cerco di non idealizzare troppo, so che per le persone che vivono qui – soprattutto i giovani – può essere difficile vivere serenamente, viste le difficoltà economiche».

Come pittore del corpo umano, Graham Dean si è accorto che sta lentamente focalizzando la sua attenzione sull’idea del paesaggio e sul senso dell’altro che sia lui che i suoi amici sperimentano nella casa di Migliano. Sente che l’Umbria come un territorio nuovo, da esplorare.
Quale sarà il suo prossimo passo? Gli piacerebbe fare una grande mostra dei suoi lavori proprio qui, in Umbria, ma ancora attende proposte! Questo perché, nonostante numerosi giovani pittori abbiano cercato di agevolarlo, le istituzioni non l’hanno fatto, il che ha portato a una situazione d’impasse.
Ma chi lo sa? Scommettiamo che, presto o tardi, vedremo uno degli enormi e bellissimi dipinti di Graham Dean in uno dei nostri musei.

 


Fonte: www.grahamdean.com

 

[1] Adattamento di un articolo scritto da Galerie Maubert, Paris. Settembre 2011, in http://grahamdean.com/about/.

«Prima di iniziare un quadro scrivo MaMo su tutta la tela. È un mio vezzo, una forma di scaramanzia. L’ho sempre fatto.»

L’avvocato Gianni Agnelli

 

Massimiliano Donnari, in arte MaMo, è un artista perugino poliedrico e ironico. Realizza i suoi quadri utilizzando i materiali più disparati e riesce a mettere su tela i personaggi come appaiono nella sua fantasia, senza tabù e censure. Nella sua prima mostra personale Incoscienza dell’essere – ironia in 3D, visibile alla galleria Artemisia di Perugia fino al 13 gennaio, troverete Ornella Vanoni, la Regina Elisabetta, Gianni Agnelli, ET e Re Carlo di Borbone rappresentati come MaMo li vede, come li sente e percepisce.

Come nasce l’idea di realizzare queste opere?

Non riesco a dare una spiegazione razionale, ho sempre osservato il mondo e le persone con un occhio critico, attento a ogni particolare, e con grande ironia. Solo da poco ho sentito il bisogno di tirare fuori queste emozioni, è da marzo 2017 che ho iniziato quest’esperienza, e sono riuscito a rappresentare persone reali o personaggi di fantasia così come le ho sempre viste o immaginate e inconsapevolmente sono riuscito a tirate fuori quello che era dentro di me.

Perché utilizza un mix di materiali e non ne ha scelto uno in particolare?

Sono un autodidatta e sono scevro da scuole e accademie, quindi utilizzo tutto quello che ho a disposizione. Applico tutte le tecniche, senza nessun legame.

Come avviene la scelta dei suoi soggetti?

Avviene in modo casuale, in base a quello che mi passa per la testa. ET è un personaggio al quale sono molto legato, Gianluca Vacchi perché è sulla bocca di tutti, le Regine le ho rappresentate con ironia per provocare.

 

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Il Generale della musica, esordio di MaMo

Quali personaggi umbri raffigurerebbe? E in che modo?

Attualmente nessuna persona reale, ma ho realizzato due generali frutto della mia fantasia, ma che incarnano il Generale della musica e il Generale della cioccolata. Il primo rappresenta Perugia e Umbria Jazz, una manifestazione che amo molto, e questo generale incarna la follia, il genio e l’amore della musica. Poi il generale della cioccolata, rappresenta la storia di Perugia e il suo legame con la cioccolata: per questo è rappresentato in una sfaccettatura estremamente ironica in mezzo ad uno sfondo di praline, mentre mangia un cioccolatino. È arricchito da fregi, medaglie e mostrine in tema; ovviamente non può mancare quella con il Bacio, il cioccolatino più famoso al mondo.

Come rappresentare l’Umbria, invece?

L’Umbria non saprei, anche se ultimamente sto riflettendo sul rappresentare antichi personaggi della nostra terra. Ma, sempre in una veste estremamente ironica così da farli uscire dai loro ruoli istituzionali.

A chi ha pensato?

San Francesco e Braccio Fortebraccio, ma potrei anche cambiare idea.

 

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Il Generale della Cioccolata, tecnica materica mista

Qual è il suo legame con l’Umbria?

Sono molto attaccato alla mia terra, e sono innamorato della mia città in cui sono nato e in cui ho vissuto e vivo: Perugia.

Da imprenditore, cosa serve a questa regione per fare un balzo in avanti? Su cosa dovrebbe puntare?

Purtroppo le cose da fare sarebbero tante. È una terra bellissima sotto tutti i punti di vista, piena di risorse.  Prima di tutto la vorrei far amare veramente dai propri abitanti, così che ognuno possa fare qualcosa per valorizzarla al massimo e poi vorrei farla conoscere a tutti, permettendo a tanti di visitarla in modo agevole. Si dovrebbe partire dal turismo e i visitatori darebbero la spinta anche a tutti gli altri settori dell’economia.

Quando parla di “modo agevole” si riferisce alla difficoltà di raggiungerla?

Esatto. Lavorando molto fuori regione è sempre un problema tra strade, treni che non ci sono, di aerei nemmeno ne parliamo. L’Umbria è un’isola pur essendo al centro dell’Italia.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Isolata, unica e magica.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

Un cuore, è il cuore geografico dell’Italia ed è nel mio cuore.

 

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