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L’Umbria conserva e custodisce la memoria della straordinaria vicenda artistica di Raffaello; in tutta la regione infatti, il maestro urbinate ha lasciato tracce, dirette o indirette, della sua arte.

Stendardo. Recto, La Crocifissione. Olio su Tela. Pinacoteca Comunale di Città di Castello

Fu un pittore e un architetto tra i più celebri del Rinascimento. Considerato uno dei più grandi artisti di ogni tempo, le sue opere segnarono un tracciato imprescindibile per tutti i pittori successivi, tanto che fu di vitale importanza per lo sviluppo del linguaggio artistico dei secoli a venire. Raffaello nacque a Urbino «l’anno 1483, in venerdì santo, alle tre di notte, da un tale Giovanni de’ Santi, pittore non meno eccellente, ma sì bene uomo di buono ingegno, e atto a indirizzare i figli per quella buona via, che a lui, per mala fortuna sua, non era stata mostrata nella sua bellissima gioventù».[1] Una seconda versione identifica il giorno di nascita dell’artista il 6 aprile.

A scuola dal Perugino

La città di Urbino fu determinante per la formazione del giovane: Raffaello infatti, fin da giovanissimo, aveva accesso alle sale di Palazzo Ducale, e poté ammirare le opere di Piero della Francesca, Francesco di Giorgio Martini e Melozzo da Forlì. Ma il vero e proprio apprendistato ebbe luogo nella bottega del Perugino, dove ebbe modo di riscoprire, attraverso le raffinate variazioni del maestro, la rigorosa articolazione spaziale e il monumentale ordine compositivo.
Raffaello intervenì negli affreschi del Collegio del Cambio a Perugia: la sua pittura è riconoscibile dove le masse di colore assumono quasi un valore plastico. È proprio in questo contesto che Raffaello vide per la prima volta le grottesche, dipinte sul soffitto del Collegio, che entrarono in seguito nel suo repertorio iconografico.[2]
Nel 1499 un sedicenne Raffaello si trasferì a Città di Castello, dove ricevette la sua prima commissione indipendente: lo Stendardo della Santissima Trinità, commissionato da una confraternita locale che voleva offrire un’opera devozionale in segno di ringraziamento per la fine di una pestilenza – oggi conservato nella Pinacoteca Comunale di Città di Castello. Si tratta di una delle primissime opere attribuite all’artista, nonché l’unico dipinto dell’urbinate rimasto nella città tifernate. Lo stendardo raffigura nel recto la Trinità con i santi Rocco e Sebastiano e nel verso la Creazione di Eva. Evidenti sono ancora i precetti dell’arte del Perugino, sia nel dolce paesaggio sia negli angeli simmetrici con nastri svolazzanti.

 

Sposalizio della Vergine. Olio su Tela, realizzata per la Chiesa di San Francesco a Città di Castello, ora conservata alla Pinacoteca di Brera

 

A Città di Castello l’artista lasciò almeno altre due opere: la Crocifissione Gavari e lo Sposalizio della Vergine per la chiesa di San Francesco. Nella prima è facile notare una piena assimilazione dei modi del Perugino, anche se sono evidenti i primi sviluppi verso uno stile proprio. Oggi è conservata alla National Gallery di Londra. La seconda  invece è una delle più celebri opere dell’artista, che chiude il periodo giovanile e segna l’inizio della fase della maturità artistica. L’opera s’ispira alla pala analoga realizzata dal Perugino per il Duomo di Perugia, ma il confronto tra i due dipinti rivela profonde e significative differenze. Entrando nella piccola ma deliziosa chiesa di San Francesco, accanto alla cappella Vitelli costruita nella metà del 1500 su disegno di Giorgio Vasari, è presente l’altare di San Giuseppe, che custodisce una copia dello Sposalizio della Vergine, poiché l’originale, rubata dalle truppe napoleoniche nel 1798, è conservata nella Pinacoteca di Brera.

Le opere realizzate a Perugia

Intanto la fama dell’artista iniziò ben presto a diffondersi in tutta l’Umbria; giunse così nel capoluogo umbro: Perugia. In città gli venne commissionata la Pala Colonna, per la chiesa delle monache di Sant’Antonio e nel 1502-1503 la Pala degli Oddi, commissionata dalla famosa famiglia perugina per la chiesa di San Francesco al Prato. Nel 1503 l’artista intraprese molti viaggi che lo introdussero nelle più importanti città italiane quali Firenze, Roma e Siena. Ma le commissioni dall’Umbria non tardarono ad arrivare: nel 1504 venne commissionata la Madonna con il Bambino e i santi Giovanni Battista e Nicola, definita Pala Ansidei.
Nello stesso anno firmò a Perugia l’affresco con la Trinità e Santi per la chiesa del monastero di San Severo, che anni dopo Perugino completò nella fascia inferiore. Opera di cruciale importanza fu la Pala Baglioni (1507) commissionata da Atalanta Baglioni per commemorale i fatti di sangue che portarono alla morte di Grifonetto, suo figlio. L’opera fu realizzata per la chiesa di San Francesco al Prato a Perugia. Nella pala l’urbinate rappresentò l’indescrivibile dolore di una madre per la perdita del figlio e il vitale slancio di turbamento, attraverso una composizione monumentale, equilibrata e studiata nei minimi dettagli.

Trinità e Santi. Affresco

Trinità e Santi. Affresco. Cappella di San Severo, Perugia

 

Raffaello divenne il pittore di riferimento per le più grandi e importanti famiglie perugine come i degli Oddi, gli Ansidei e i Baglioni, affermandosi come un grande artista di rilievo; nel contratto della sua opera, l’Incoronazione della Vergine, per la chiesa delle monache di Monteluce, venne citato come il miglior maestro presente in città.
Raffaello morì il 6 aprile del 1520 di febbre ,provocata, come precisa Vasari, «da eccessi amorosi». Questo anno ricorre il cinquecentesimo anniversario dalla morte. Raffaello fu al vertice della stagione artistica del Rinascimento, portando la sua pittura ai massimi livelli di bellezza e armonia. Giovanni Paolo Lomazzo scrisse: «Raffaello aveva nel volto quella dolcezza e quella bellezza dei tratti che tradizionalmente si attribuiscono a nostro Signore».
Visse la sua vita con grande impegno e continuità, donando alle generazioni future il suo incredibile talento e la sua preziosa arte, tanto da meritarsi già in vita l’appellativo di divino.

 


[1] Giorgio VasariLe vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettiVita di Raffaello da UrbinoFirenze 1568.
[2] Paolo Franzese, Raffaello, Mondadori Arte, Milano 2008, p. 13.

Pietro Vannucci detto Il Perugino, è considerato uno dei massimi esponenti dell’umanesimo e il più grande rappresentante della pittura umbra del XV secolo.

Il pittore si muove in un contesto storico che è quello del tardo umanesimo. «Nella città di Perugia nacque ad una povera persona da Castello della Pieve, detta Cristofano, un figliuolo che al battesimo fu chiamato Pietro (…) Studiò sotto la disciplina d’Andrea Verrocchio». (Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Parte seconda. Giorgio Vasari).

 

Autoritratto Perugino

Il Perugino nasce nel 1450 a Città della Pieve e le sue prime esperienze artistiche umbre si appoggiarono probabilmente a botteghe locali come quelle di Bartolomeo Caporali e Fiorenzo di Lorenzo.

Fin da giovanissimo si trasferisce a Firenze, dove inizia a frequentare una delle più importanti botteghe: quella di Andrea del Verrocchio. La città dei Medici fu fondamentale per la sua formazione; infatti i contemporanei lo considerarono di fatto, un maestro fiorentino d’adozione.

Nei suoi capolavori si cela un’intimità religiosa: le dolci colline tipicamente umbre, il paesaggio boschivo realizzato con più tonalità di verdi, il tenue modellato dei personaggi e gli svolazzanti nastri degli angeli sono i suoi stilemi decorativi che poi trasmise anche al suo allievo: Raffaello.

Le opere in Umbria e non solo

Una delle sue prime opere documentate è L’adorazione dei Magi e il Gonfalone con la Pietà, entrambe nelle sale espositive della Galleria Nazionale dell’Umbria.

Nel 1473 il Perugino ricevette la prima commissione significativa della sua carriera: i francescani di Perugia, gli chiesero di decorare la nicchia di San Bernardino. Otto tavolette che insieme componevano due ante che chiudevano una nicchia con un gonfalone con l’effigie del santo.

Più tardo (1477-1478) è l’affresco staccato, oggi nella Pinacoteca Comunale di Deruta, con il Padre Eterno con i santi Rocco e Romano, con una rara veduta di Deruta nel registro inferiore; probabilmente commissionata per invocare la protezione dei Santi Romano e Rocco, poiché un’epidemia di peste imperversava nel territorio di Perugia.

Nel 1478 continuò a lavorare in Umbria, dipingendo gli affreschi della cappella della Maddalena nella chiesa parrocchiale di Cerqueto, nei pressi di Perugia.

Raggiunta la fama venne chiamato nel 1479 a Roma, dove realizzò uno dei più grandi e prestigiosi lavori: la decorazione della Cappella Sistina, lavoro al quale partecipano anche Cosimo Rosselli, il Botticelli e il Ghirlandaio. È qui che realizza uno dei suoi tanti capolavori: La consegna delle Chiavi a San Pietro, il Battesimo di Cristo e il Viaggio di Mosè in Egitto.

Nei dieci anni successivi Perugino continuò a spostarsi tra Roma, Firenze e Perugia. Tra il 1495 e il 1496, plasmò un altro capolavoro: la Pala dei Decemviri, chiamata così perché realizzata su commissione dai Decemviri di Perugia per la cappella nel Palazzo dei Priori. Dipinse poi il Polittico di San Pietro, con la raffigurazione dell’Ascensione di Cristo, la Vergine, gli Apostoli, nella cimasa Dio in gloria, nella predella l’Adorazione dei Magi, il Battesimo di Cristo, la Resurrezione e due pannelli con i santi protettori di Perugia.

Nello stesso periodo lavorò alla decorazione della Sala dell’Udienza nel Collegio del Cambio a Perugia, ciclo terminato nel 1500. Il 1501-1504 è l’anno in cui realizzò lo Sposalizio della Vergine, dipinto per la Cappella del Santo Anello nel Duomo di Perugia, iconografia ripresa da Raffaello per la chiesa di San Francesco a Città di Castello.

 

Sposalizio della Vergine

 

Il Perugino continuò a ricevere commissioni; infatti realizzò la Madonna della Consolazione, il Gonfalone della Giustizia e la Pala Tezi, conservate nelle sale espositive della Galleria Nazionale dell’Umbria e la Resurrezione per San Francesco al Prato, commissionata per l’omonima chiesa perugina.

Eccelse opere del pittore sono conservate anche a Città della Pieve, non lontano dal confine con la vicina Toscana. Presso Santa Maria dei Bianchi e la Cattedrale dei SS Gervasio e Protasio, si trovano alcune delle sue opere più significative come l’Adorazione dei Magi.[1]

Seguendo i passi del Perugino, tappa obbligata è poi Panicale, pittoresco paese che fa parte dei Borghi più Belli d’Italia. Nella Chiesa di San Sebastiano si trova l’opera il Martirio di San Sebastiano, un’intera parete affrescata dall’artista. Un’altra tappa importante per scoprire tutta l’arte del Divin Pittore è Fontignano, dove nel 1511 il Perugino stabilì la sua bottega per sfuggire alla peste.

 

San Sebastiano. Cerqueto

 

Proprio di peste il pittore morì nel 1523-1524, mentre lavorava a un affresco raffigurante L’adorazione dei pastori commissionatogli per la piccola Chiesa dell’Annunziata, l’affresco lasciato incompiuto dal Perugino, ma finito dai suoi allievi, e infine una Madonna con bambino, l’ultima opera da lui completata nel 1522.
Perugino fu l’iniziatore di un nuovo modo di dipingere; l’artista va alla costante ricerca di paesaggi di più vasto respiro, ammirando l’esempio dei precedenti fiorentini come Filippo Lippi, Domenico Veneziano e Beato Angelico, ben noti in terra umbra. Il Perugino procede verso una lenta e graduale conquista del naturale. L’armonia insita nel paesaggio peruginesco fu creata da un approccio mistico con la natura e da un’arte che, piuttosto che fondarsi sull’intelletto e sull’addestramento dell’occhio, come avveniva a Firenze, scaturiva dal cuore e dalla forza dei sentimenti.[2]
Il Perugino segnò così il gusto di un’epoca.

 


[1] Emma Bianchi, “Petro penctore”: l’Adorazione dei magi e la confraternita di Santa Maria dei Bianchi di Città della Pieve, in Perugino e il paesaggio, Silvana Editoriale, 2004, pp. 119-128.

[2] Silvia Blasio, Il paesaggio nella pittura di Pietro Perugino, in Perugino e il paesaggio, Silvana Editoriale, 2004, pp. 15-41.

«Nella città di Perugia nacque ad una povera persona da Castello della Pieve, detta Cristofano, un figliuolo che al battesimo fu chiamato Pietro (…) Studiò sotto la disciplina d’Andrea Verrocchio. Dipinse molte figure et Madonne. Si mostrerà agl’artefici che chi lavora e studia continuamente, e non a ghiribizzi o a capricci, lascia opere e si acquista nome, facultà et amici».
Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Parte seconda. Giorgio Vasari.

Bettona di giorno. Foto di Alessandro Bertani

 

In poche e semplici parole, il pittore, architetto e storico dell’arte Giorgio Vasari elogia Pietro Vannucci per la sua arte e le sue opere. Il Perugino dipinse, tra il 1512 e il 1513, una tempera su tavola raffigurante la Madonna della Misericordia. La Vergine, in piedi, allarga il proprio mantello per accogliervi San Lorenzo, San Girolamo e due committenti. Si tratta di un retaggio dell’epoca medievale, detto della protezione del mantello, che le nobildonne altolocate potevano concedere ai perseguitati e ai bisognosi d’aiuto; con il passare degli anni questa iconografia ebbe ampia diffusione e sotto il mantello della Vergine finì per trovare riparo tutta l’umanità.
L’opera proveniva dalla Chiesa di Santa Caterina, dove era stata trasferita dalla Chiesa di Sant’Antonio, e ora è conservata nella Pinacoteca Comunale di Bettona, uno dei borghi più caratteristi della regione, considerata un balcone sull’Umbria: la città, infatti, sorge su un colle da cui la visuale spazia da Perugia e Assisi fino a Spello, passando per i verdi campi coltivati.

 

Madonna della Misericordia. Foto di Alessandro Bertani

L'arte di salvare l'arte

L’opera è la protagonista, insieme ad altri eccelsi capolavori, della mostra L’Arte di Salvare l’Arte. Frammenti di storia d’Italia nelle sale del Palazzo del Quirinale, aperta al pubblico fino al 14 luglio 2019. L’esposizione è nata per celebrare il 50° anniversario della nascita del comando dei caschi blu della cultura ovvero il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. In mezzo secolo i carabinieri hanno salvato migliaia di opere che altrimenti sarebbero state sottratte al patrimonio dello Stato: oltre ottocentomila beni recuperati, più di un milione di reperti archeologici sequestrati provenienti da scavi clandestini, circa un milione di opere false e oltre sedicimila reperti rubati in Italia e restituiti, riconsegnando così al bene pubblico un patrimonio artistico inestimabile. La Madonna della Misericordia, insieme a Sant’Antonio da Padova – anche esso del Perugino – vennero trafugate dalla Pinacoteca Comunale di Bettona nella notte tra 26 e 27 ottobre 1987 e ritrovate nel 1990 in Giamaica, nella villa di un ricco possidente.

Riscoprire il perduto

La mostra permette al pubblico di rivivere storie di recuperi, alcuni avventurosi, altri frutto di un lungo e minuzioso lavoro investigativo. Tutte le opere sono state riportate in Italia, ricontestualizzate nel territorio o nel tessuto urbano che le ha generate, restituendo loro dignità culturale, ma – soprattutto – restituendo loro il contesto di appartenenza.
Un’opera d’arte appartiene all’umanità intera, ma essa acquisisce valore di civiltà solo dalla profonda relazione con i luoghi che l’hanno prodotta, con la cultura che l’ha generata e con il paesaggio che l’ha suggerita.
Il visitatore potrà inoltre venire a conoscenza delle emergenze sismiche degli ultimi tempi, che hanno messo a nudo la fragilità del territorio e dei beni culturali. È possibile infatti assistere anche ad alcuni filmati storici, girati nelle zone terremotate che hanno colpito la nostra Umbria, dove i protagonisti sono ancora una volta i caschi blu culturali, che annaspano tra le macerie per recuperare opere artistiche con una cura e un amore incommensurabile.
Ammirando l’opera del Perugino, la dolcezza della Madonna della Misericordia, il tenero modellato dei Santi e le verdi campagne umbre dipinte alle loro spalle, non si può che provare empatia e riconoscenza verso chi restituisce a una comunità ferita la memoria e il suo senso di appartenenza, restituendo altresì alla collettività i suoi preziosi valori.

«Costui fu discepolo dello Angelico fra’ Giovanni, a ragione amato da lui, e da chi lo conobbe tenuto pratico di grandissima invenzione, e molto copioso negli animali, nelle prospettive, ne’ paesi e negli ornamenti» (Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani da Cimabue, insino a’ tempi nostri)

Sono pochi i dati biografici rimasti sul fiorentino Benozzo di Lese di Sandro, meglio conosciuto come Benozzo Gozzoli. Stretto collaboratore di Beato Angelico, anzi suo consocio, amava replicare i bambolotti dall’espressione un po’ esangue del maestro, senza riuscire a superarlo, senza mai spingersi oltre il confine. Tuttavia nelle sue prime opere riuscì a raggiungere un mirabile equilibrio tra la saldezza delle forme nella luce piena e un disarmante candore.

 

Narni

L’Annunciazione nella Pinacoteca di Narni

Una grande opera firmata

Questi caratteri si riconoscono perfettamente nelle opere umbre del pittore. Non solo nel ciclo delle storie della vita di San Francesco, affrescate nell’omonima chiesa di Montefalco, ma anche nell’Annunciazione della Vergine, una pala d’altare ritrovata a Narni e tuttora conservata nella Pinacoteca del paese.
L’opera è una grande tempera su tavola, larga 117 centimetri e alta 142, di attribuzione certa, in quanto firmata dallo stesso pittore che, lungo il bordo inferiore del tendaggio di broccato dietro la Vergine, ha inciso in maiuscolo: «OPV[S] BENOTI[I] DE FLORENTI[A]». Questa non è l’unica iscrizione. Ne compare un’altra sul mantello della Vergine: «AV[E] REGINA».
I personaggi della pala, l’Arcangelo Gabriele e Maria, si trovano in un portico, del quale sono visibili due pilastri. La Vergine, con le mani incrociate sul petto, è inginocchiata su un piccolo sgabello, ricalcando il modello dell’Angelico nella terza cella del convento di San Marco a Firenze. Nella parte alta sono ancora parzialmente visibili i raggi di luce, probabilmente completati originariamente dalla figura, oggi perduta, dell’Eterno o della Colomba dello Spirito Santo che dall’alto illuminava la scena. La raffinatezza dell’opera trova riscontro nella cura e nell’eleganza dei dettagli, come ad esempio nelle lumeggiature delle unghie delle mani dei personaggi, nel realismo delle doppie chiavi e nella raffinata decorazione a intarsio del cassone ligneo che si trova alle spalle di Maria.

Danni e restauri

L’opera è molto danneggiata e ha subito diversi interventi di restauro (1901, 1933, 1947, 1952, 1988, 2002). La firma dell’autore era già visibile prima dell’intervento del 1988, anche se questa è la data che è sempre stata accettata per la scoperta dell’iscrizione. Già nel 1959, infatti, Castellani poteva notarla. Forse, però, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, a causa del cattivo stato di conservazione non era più facilmente leggibile, tanto che il Guardabassi attribuì la tavola a Pierantonio Mezzastris, mentre Eroli la riteneva più genericamente «di scuola umbra».
A restituirla al Gozzoli fu Pératé nel 1907, che la datò al 1450-1452. L’attribuzione al Gozzoli fu accolta anche da Gnoli, il quale successivamente collocò il dipinto intorno al 1449, ritenendola «la più antica opera del maestro fiorentino». Ancora oggi il dipinto viene datato intorno al 1449, in una fase precoce del soggiorno in Umbria del maestro fiorentino che si estese per un periodo di cinque anni. Nel 1449 il pittore è documentato a Orvieto, città non troppo distante da Narni che all’epoca rappresentava un importante centro dello Stato Pontificio, non troppo distante da Roma.
Per quanto riguarda la collocazione, il Guardabassi, alla fine dell’800, la colloca nella chiesa di Santa Maria Maggiore, oggi San Domenico, e scrive: «II Cappella. L’ingresso fu architettato sullo scorcio del XV secolo, alla bellezza delle linee corrispondono sculture ornamentali. Interno. Parete S: Tavola a tempra – l’Annunciazione; opera del Mezzasti». Da Eroli, invece, sappiamo che nel 1898 l’opera già non era più lì: «La seconda Cappella fu denudata de’ suoi ornamenti, come anco de’ quadri che l’abbellivano (…) Non men vaga una piccola tavola, che io vidi quivi appiccata in sulla parete destra dell’altare, avente in sé l’Annunziata, che non dubito attribuire alla scuola umbra; ma i tarli hanno fatto danno, e in breve perirà, se il Municipio, che oggi halla in custodia, non la cura e risana».

Un problema di committenza

Se l’attribuzione dell’opera è certa, incerta è la committenza. La vicinanza di Narni con Orvieto ha sollevato il probabile legame con un’opera raffigurante l’Annunciazione, che era stata richiesta a Benozzo da una «domina Gianna Gregorii» e che era rimasta incompleta per l’insolvenza della committente. Benozzo allora cercò di cedere il dipinto all’Opera del Duomo di Orvieto, offrendosi di ultimare a sue spese il lavoro iniziato. Quelli accettarono l’offerta, dichiarandosi disposti a sostenere il costo dei colori, purché lo stemma di donna Gianna fosse sostituito con quello della Fabbrica del Duomo. Di questo dipinto tuttavia non si conosce né la sorte, né la tecnica esecutiva, ma non è escluso che l’opera fosse quella arrivata poi in modo sconosciuto a Narni.
Un’altra ipotesi è che Benozzo fosse entrato in contatto con i frati domenicani della chiesa di Santa Maria Maggiore di Narni per intermediazione dell’Angelico. In effetti, diversi elementi iconografici, uniti all’originaria collocazione all’interno della chiesa domenicana, portano a rendere più plausibile una committenza narnese. Alcuni dettagli apparentemente solo decorativi, hanno in realtà una funzione fortemente simbolica; se accettiamo la committenza narnese possono fornire importanti indizi non solo sulla committenza stessa, ma anche sulla destinazione dell’opera.

Significati simbolici


Particolare importanza riveste il motivo decorativo del tappeto ai piedi di Maria, costituito da uno stuolo di cani neri, posti tutto intorno alla Madonna, quasi schierati a sua difesa. È probabile che in essi vada vista un’allusione ai frati predicatori secondo un gioco di parole basato sul loro nome latino, Dominicanes; i seguaci di Domenico, infatti, si ritenevano Cani del Signore, appunto Domini canes, in quanto difensori dell’ortodossia cattolica, in particolare per la loro funzione di inquisitori delle eresie. Un altro elemento che rafforza questa tesi è fornito dal colore dei cani, neri con il contorno bianco. Questi sono degli stessi colori del saio indossato dai frati dell’ordine dei Predicatori. Del resto, come già detto, Benozzo era entrato in contatto con i domenicani grazie al suo lungo sodalizio con Beato Angelico, e con questo ordine rimase sempre legato, eseguendo per esso numerosi lavori in diverse città. Un altro elemento a favore della committenza narnese è dato dalla decorazione floreale presente sui pilastri del loggiato che divide l’Arcangelo Gabriele dall’Annunziata. Le foglioline sono chiaramente foglie di edera, raffigurate sia nella forma stilizzata, a cuore, sia in quella più naturalistica. La versione cuoriforme di queste è distintiva della casata degli Eroli e sono presenti nello stemma della nobile famiglia narnese che in questo periodo storico arricchì con molte opere d’arte le chiese cittadine. Dunque quella che sembrava solo una decorazione, probabilmente rappresenta un preciso riferimento alla committenza e pertanto è posto significativamente al centro dell’opera. È molto probabile quindi che il committente sia stato il cardinale Berardo Eroli che, dati i suoi stretti rapporti con alcuni dei maggiori esponenti del mondo politico e religioso del tempo (Niccolò V, i Medici a Firenze, Sant’Antonino Pierozzi, per esempio), potrebbe essere entrato in contatto con l’artista fiorentino e avergli affidato l’opera.

 


Museo della Città

via Aurelio Saffi, 1 – Narni (TR)

Orari di apertura:
aprile-giugno
dal martedì alla domenica, festivi e prefestivi 10.30-13.00/15.30-18.00
chiuso il lunedì
settembre
tutti i giorni 10.30 – 13.00 / 15.30 – 18.00
ottobre-marzo
venerdì, sabato, domenica, festivi e prefestivi 10.30-13.00/15.00-17.30
Chiuso il 25/12. Il 01/01 solo orario pomeridiano.

Telefono: 0744 717117

E-mail: narni@sistemamuseo.it


Bibliografia:

G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue a’ tempi nostri, Firenze, per i tipi di Lorenzo Torrentino, 1550

E. Lunghi, Benozzo Gozzoli a Montefalco, Assisi, Editrice Minerva, 2010

A. Novelli, L. Vignoli, L’arte a Narni tra Medioevo e Illuminismo, Perugia, Era Nuova, 2004

B. Toscano, G. Capitelli, Benozzo Gozzoli allievo a Roma, maestro in Umbria, Silvana Editoriale, 2002