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Luogo di settecentesche delizie, la villa del Pischiello, a Passignano sul Trasimeno, traeva il proprio nome da un’attigua sorgente d’acqua. E, come dall’acqua tutto trae forza e vigore, da questa dimora affacciata sul lago Trasimeno la popolazione traeva sostentamento, molendovi l’oliva, stoccandovi i cereali e producendovi dell’ottimo vino.

Nemmeno nel 1904, quando la marchesa Romeyne Robert Ranieri di Sorbello decise di installarvi una scuola di ricamo, questa forza produttiva venne meno. Anzi, quella che si configurò fin da subito come una moderna holding, diventò ben presto un’attività importantissima per l’economia del lago, dando impiego a intere famiglie di Passignano e dintorni.

Villa del Pischiello, foto Ranieri di Sorbello

Donne che hanno fatto la storia

L’alta qualità, l’unicità dei pezzi eseguiti su commissione, così come l’esclusività della tecnica, fecero della scuola uno degli emblemi della cosiddetta questione femminile che, dal 1883, combatteva contro le posizioni assolutiste secondo cui le donne delle campagne dovessero essere impiegate esclusivamente nei lavori agricoli. La marchesa spronava le dipendenti ad accantonare la propria paga in libretti postali, secondo un sistema estremamente moderno e teso a renderle emancipate grazie al proprio lavoro. Oltre a questo, nella Villa del Pischiello fondò una scuola Montessori – una delle prime della Penisola – per favorire l’educazione dei figli dei coloni della tenuta secondo gli innovativi metodi d’insegnamento che caratterizzano il metodo: libera scelta del percorso educativo, sebbene entro certi limiti, e il rispetto del naturale sviluppo fisico, psicologico e sociale del bambino.
Gli orditi nati dall’abilità delle allieve di Romeyne, coadiuvata dalla perugina Amelia Pompilij e dalla fiorentina Carolina Amari – che aveva studiato e recuperato, nel suo laboratorio di Firenze, la tecnica usata per la preziosa collezione di biancheria e decorazioni per la casa della contessa Edith Rucellai – venivano commercializzati nel negozio della cooperativa Arti Decorative Italiane – diretta derivazione del comitato regionale de Le Industrie Femminili Italiane, detto Ars Umbra  (poi divenuto una vera e propria società) – sotto la dicitura di commercio al minuto di ricami a mano.

Arte in rilievo

Il punto umbro – detto anche Sorbello o portoghese – protetto da brevetto, si dipanava su tele da ricamo in canapa o lino provenienti dal laboratorio Tela Umbra di Città di Castello, fondato dalla baronessa Alice Hallgarten Franchetti. Motivi floreali, vegetali, animali – anche fantastici – e arabeschi si annodavano sulle tele con rinascimentali ghirigori color ruggine, écru, verde, indaco, giallo, bianco e rosa antico. I disegni degli album da viaggio di Romeyne acquisivano così la terza dimensione e una riconoscibilità tattile, grazie anche allo spessore del filato usato – cotone, soprattutto, ma anche seta, ben resistenti al tempo e all’usura.
I tasselli di tessuto che, precedentemente ricamati, sarebbero andati a formare il disegno, venivano assemblati tramite elaborati punti avorio, d’ispirazione araba, alternati a punti di antica ispirazione toscana e romagnola.

 

Il punto umbro, detto anche Sorbello. Foto Casa Museo di Palazzo Sorbello

Questione d’inventiva

Non mancavano però punti inventati, come il ricciolino, il rilievo, il nodone, il mazzetto, il punto pifferino, il nodino di San Francesco, le pignattine, le lumachelle e le capannucce, usati perlopiù per ricamare l’interno e rifinire gli orli. Le fuseruole in ceramica derutese, usate per bilanciare il fuso e, in maniera più romanzata, per bilanciare la vita di un’altra persona – venivano infatti donate come pegno d’amore – erano inserite nelle confezioni per rifinire paralumi e tessili.
Il punto San Francesco e il pifferino, assieme al punto civetta, venivano utilizzati anche per le nappe – elaborate riproduzioni in miniatura di cestini di frutta, gioielli fiorentini, ghiande e animali – e i bottoni – creati semplicemente arrotolando un filo, poi fermato con un punto avorio – elementi decorativi che, impreziosendo tovaglie, centrini, centrotavola, paralumi, tende e sacchetti portabiancheria, finirono per essere un vero e proprio punto distintivo della produzione della scuola.

Preci appartiene al Club de
I Borghi Più Belli d’Italia

 


Imboccando il sentiero 505 da Triponzo verso Visso, si risale il tortuoso corso di un torrente. Lo chiamano lu raiu de la scafa, laddove raiu, derivato da gravarium, indica una deiezione di pietrisco. A tratti sarà necessario guadare il fiume, cercando di non scivolare sulle rocce bagnate, e cercando di distinguere gli ostacoli dai giochi d’ombra della cupola di fronde sopra la propria testa. Poi le pareti di roccia, dritte e lisce come se fossero state tagliate con una lama, ci attireranno in una forra angusta, richiamandoci con l’ipnotico suono dell’acqua scrosciante.

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La cascata de Lu Cugnuntu, foto di Maurizio Biancarelli

Lu Cugnuntu

Siamo in Valnerina, a pochi chilometri dal borgo di Preci, dove il fosso di San Lazzaro e il Fosso Acquastrino si gettano in quella che è una vera e propria ferita negli strati calcarei di Scaglia Rossa che caratterizzano la zona. Non a caso, la forra è chiamata Lu Cugnuntu, la congiunzione – dal latino coniunctio, anche se non si esclude una derivazione volgare di coniuntius, una sorta di condotto idraulico. Giunti ai piedi della congiuntura, si viene investiti da una nube di aerosol, sprigionata dall’acqua che precipita per ben ventiquattro metri.

 

 

A monte, le calcareniti – rocce piuttosto resistenti all’erosione –  hanno infatti creato un dislivello tale da dare origine a uno spettacolo maestoso, quasi soverchiante per quell’angusta fenditura. Sebbene le guide consiglino di intraprendere questa escursione in primavera, quando la prospettiva di bagnarsi non crea più particolari problemi, è in inverno che la forra sprigiona tutta la sua magica atmosfera. Non è solo per la gittata maggiore propria della stagione, ma anche per le basse temperature che, congelando l’aerosol, creano arazzi di ghiaccio a decorazione delle ripide pareti.

Acque miracolose

In tempi antichi si credeva che queste acque avessero poteri terapeutici, come quelle vicine di Triponzo e di Madonna della Peschiera. La convinzione era tale che, nel 1218, venne persino creato un lebbrosario, favorito anche dalla posizione isolata. In una pergamena del 1342, si legge come Razzardo di Roccapazza – Roccapazza era un castello che fu completamente distrutto dal terremoto del 1328 – avesse donato un terreno, in parte coltivato e in parte adibito a pascolo, al borgo di San Lazzaro in Valloncello. Per alcuni Razzardo fu influenzato da San Francesco, o almeno dall’ideologia francescana che cominciava a prendere piede; in ogni caso la struttura che venne costruita, annessa all’omonima chiesa, fu affidata dapprima ai monaci dell’Abbazia di Sant’Eutizio, poi ai frati minori e ai francescani.
Dalla stessa pergamena si evince che i malati potevano vivere nel lebbrosario con le proprie famiglie, ma non potevano in nessun caso allontanarsi, figurarsi lasciarlo. Veniva servito del cibo ritenuto prodigioso, come la carne di vipera di montagna. Allo stesso modo, sappiamo che i superiori godevano del privilegio di ordinare il ricovero ai malati delle diocesi di Spoleto, Camerino e Ascoli, anche se i parenti non approvavano.
Il lebbrosario – di cui sono ancora visibili le navate centrali della chiesa annessa – fu soppresso nel 1490 da Papa Innocenzo VIII, perché fortunatamente i casi di lebbra stavano scomparendo.

 

Preci

La mappa

 

Cascata de Lu Cugnuntu:
Latitudine 42°51’04”N Longitudine: 12°59’19”E
Quota massima: 620 m
Tempo di percorrenza: 2h
Lunghezza: 1,75 km
Dislivello: +220 m / -220 m
Punti d’acqua: 3
Valore scenico: alto
Sito panoramico: basso
Modalità di accesso

    • a piedi: facile
    • in bici: difficile
    • A cavallo: media
    • In auto: non consentito

Stagioni consigliate: tutte
Consigli per l’escursionista: munirsi di scarpe impermeabili e di caschetto

 


Fonti:

R. Borsellini, Riflessi d’Acqua – Laghi, fiumi e cascate dell’Umbria, Città di Castello, Edimond, 2008.

M.Biancarelli, L’Umbria delle Acque, Ponte San Giovanni, Quattroemme, 2003.

www.lavalnerina.com

www.iluoghidelsilenzio.it

Int.Geo.Mod srl (a cura di), Parco geologico della Valnerina, Spoleto, Nuova Eliografica s.n.c..

«A trentasette chilometri da Terni su un terrazzo alluvionale, a quota 292, prossimo al fondo-valle, sulla sinistra del Tevere. È un piccolo centro, una villa-castello, dalla faccia medioevale, che appare come un borgo compatto con mura dirute». (M. Tabarrini)

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Veduta panoramica di Giove

Origine del nome

Sebbene i più facciano derivare il toponimo da un antico culto a Giove, non essendo stata trovata alcuna traccia di un tempio dedicato al dio romano è più corretto pensare che il nome derivi dalla sua posizione geografica che mostra l’abitato in una sommità situato tra due valli. In tal modo il nome deriverebbe dal latino jugum, ossia giogo. Anche le prime attestazioni storiche sembrano avvalorare questa ipotesi: infatti l’attuale comune in un documento del 1191 è denominato «Castel di Juvo o Iugo»[1].

Storia

Numerosi reperti archeologici attestano un antico insediamento romano, ma l’attuale aspetto di Giove è chiaramente di origine medievale. Il territorio, anticamente dei Signori di Baschi, fu a lungo conteso tra Todi e Orvieto. Nel 1320 si impossessò del castello e dei territori circostanti Sciarra I Colonna e ai Colonna lo contesero a lungo gli Orsini. Nel 1378 i feroci Bretoni, condotti in Italia dall’antipapa Clemente VII, si stanziarono nella zona devastando pesantemente l’abitato e i territori limitrofi. Nella metà del XV secolo presero possesso di Giove gli Anguillara, ma Paolo II riuscì a riportarlo tra i beni della Chiesa nel 1465. Le mura del castello vennero distrutte quando nel 1503, dopo una strenua resistenza, Giove fu conquistato da Cesare Borgia. Nel 1545 vi si insediò, con la carica di governatore pontificio Ottavio Farnese, e nel 1597 Matteo Farnese alienò il feudo a Ciriaco e Asdrubale Mattei. Nel 1646 il territorio di Giove venne devastato da una tremenda inondazione del Tevere. Con la Restaurazione, Giove fu elevato a comune baronale[2].

 

Scorcio di Giove. Foto gentilmente concessa dal C0mune di Giove.

Palazzo Ducale

Edificato per volere di Asdrubale e Ciriaco Mattei sui preesistenti resti di un castello medioevale, si presenta come un edificio rinascimentale di grande imponenza. Dai Mattei, insigniti del titolo di marchesi di Giove da Urbano VIII nel 1643, passò ai Canonici quando Caterina Mattei lo trasmise al figlio Carlo. Morto Carlo senza eredi, il palazzo divenne proprietà del marchese Carlo Teodoro Antici di Recanati. È questo il periodo nel quale venne ospitata nel palazzo Adelaide Antici, madre di Giacomo Leopardi. Dagli Antici passò ai Ricciardi, poi al generale Mario Nicolis di Robilant, che vi ospitò nel 1910 Vittorio Emanuele III, e nel 1936 ai conti d’Acquarone. Nel 1985 è stato acquistato dallo statunitense Charles Robert Band e trasformato in un raffinato Relais. L’edificio – che ha 365 finestre, una per ogni giorno dell’anno – è strutturato in cinque piani, mentre le torri angolari presentano un ulteriore piano abitativo. È ancora integra la rampa di scale percorribile dalle carrozze fino al piano nobile. I saloni interni sono decorati con pitture di argomento mitologico attribuite a Domenico Zampieri, detto il Domenichino, a Paolo Caliari, detto il Veronese e ad Orazio Alfani[3].

Chiesa di S. Maria Assunta

In stile rococò, con tardivi elementi barocchi, presenta una facciata inquadrata da due campanili simmetrici. Fu terminata su progetto forse dei Fontana nel 1775 a sostituire dentro le mura l’antica chiesa di San Giovanni Battista, della quale restano oggi soltanto pochi segni in una casa privata. All’interno – a croce greca con cupola – è conservata una tavola con l’immagine della Madonna Assunta che da alcuni è attribuita a Niccolò Alunno, mentre secondo altri si deve alla scuola dell’Alunno. Interessante anche l’organo, posto sopra la porta d’ingresso, che per le peculiarità costruttive viene considerato lo strumento moderno più interessante dell’intera provincia di Terni.

Chiesa della Madonna del Perugino

La chiesa deve il suo nome all’immagine della Madonna posta sull’altare detta appunto Madonna del Perugino, per la sua fine fattura. In realtà si tratta di un dipinto commissionato nel XVII secolo da Francesco Caffarelli, un abitante di Giove proveniente da Perugia e per questo chiamato il Perugino. La chiesa custodisce anche numerosi ex voto.

Convento di Santa Maria del Gesù

Fondato a seguito di una donazione di Felicita Colonna all’inizio del XVII secolo, fino al 1870 fu proprietà dei Francescani, quindi degli Oblati di San Francesco e infine dei Marianisti. Da alcuni anni il convento ospita un centro naturista, Il Germoglio.

 

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Palazzo Ducale, foto gentilmente concessa dal Comune di Giove.

 


[1] L’ipotesi della derivazione dal latino jugum viene sostenuta da L. Canonici, Alviano. Una rocca, una famiglia, un popolo, Porziuncola, Assisi 1983, mentre seguendo la tradizione popolare M. Tabarrini, s.v. Giove, in M. Tabarrini, L’Umbria si racconta. Dizionario, v. 2 : E-O, [s.n.], Foligno 1982, pp. 150-151 propende per il toponimo derivante da un preesistente culto per il dio romano.

[2] Pe notizie storiche più diffuse si veda M. Tabarrini, cit. che è anche la fonte delle notizie riportate dal sito  www.mondimedievali.net/Castelli/Umbria/terni/giove.htm e del sito http://www.castellogiove.it. Per la prenotazione delle visite si veda: http://www.castellogiove.it.

[3] Le informazioni sono tratte da M. Tabarrini, cit. e dal sito  www.mondimedievali.net/Castelli/Umbria/terni/giove.htm.

 

Per saperne di più su Giove

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Per alcuni ha origine a Siena, durante la furiosa epidemia di peste del 1348, quando un medico aveva preso l’abitudine somministrarlo ai malati; per altri, invece, sembra sia nato da un’esclamazione volata nella mensa del Concilio di Firenze del 1439 e da un malinteso. Quale che sia la storia, è indubbio che il vinsanto debba il suo attributo a qualche proprietà particolare, magari miracolosa. O forse alla sacralità del procedimento che serve per ottenerlo.

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Le uve per il vin santo

Un lavoro da farsi con la luna calante

«Vuoi assaggiare questo nettare? Ma questo non è un vinsanto, è un nettare! Oh amabile sorbetto, nettare prezioso e delicato». (Goldoni)

Bevanda da dessert dal colore ambrato, il vin santo è il prodotto più fine delle uve Trebbiano e Malvasia, come pure del Grechetto, del Cannaiolo, della Vernaccia e di San Colombano. In Toscana è ottenuto anche da uve San Giovese, tanto da essersi guadagnato l’epiteto di Occhio di Pernice. Quali che siano gli uvaggi scelti, la creazione del vin santo presuppone una scelta: i grappoli migliori, a uno stato di maturazione non troppo avanzato – in modo che le bucce possano resistere all’appassimento – vengono raccolti e appesi per tre, o addirittura quattro mesi, in modo che appassiscano. Era credenza diffusa che i grappoli, singoli o coppidi, cioè doppi, non sarebbero marciti se fossero stati appesi in fase di luna calante (o dura).
Diffuso nell’Alta Valle del Tevere e nella vicinissima Toscana, il vin santo acquista però a Citerna quella nota affumicata che lo ha reso Presidio Slow Food. Le vaste pianure sottostanti il borgo, come pure l’abbondanza d’acqua, avevano infatti permesso alla zona di essere eletta a luogo ideale per la coltivazione del tabacco, destinato ai Monopoli di Stato. Così, per ottimizzare gli spazi, grappoli e foglie venivano appesi alle travi del soffitto in modo che potessero seccarsi col calore delle stufe e dei camini. Fonti di calore che, inevitabilmente, finivano per sprigionare anche del fumo, donando alle uve il tipico retrogusto di affumicatura.

 

Una fermentazione difficile

Il vin santo ormai passito viene poi pigiato e fatto fermentare – con o senza vinacce – in caratelli di legno con una capienza che oscilla dai 15 ai 50 chilogrammi. Le dimensioni di questi contenitori la dicono lunga sulla qualità della bevanda che si finirà per ottenere. Innanzitutto danno la misura della produzione del vin santo, estremamente contenuta: mediamente un quintale d’uva, una volta terminata la fase di essiccazione, arriva a pesare 30-35 chilogrammi, e deve essere ancora pigiato.
In seconda istanza, contenitori di tali dimensioni permettono di sacrificare solo una piccola parte della preziosa annata, nel caso qualcosa dovesse andare storto in fase di fermentazione. Questo passaggio è infatti estremamente delicato: dato il forte appassimento, il mosto del vin santo ha una concentrazione zuccherina molto elevata che, a sua volta, comporta un alto tenore alcolico. L’agente lievitante contenuto nella pruina – la sostanza cerosa che ricopre gli acini proteggendoli dai raggi ultravioletti e dalla disidratazione – difficilmente riesce a sopravvivere a tenori alcolici superiori al 13%, e qui stiamo parlando di valori che possono raggiungere anche il 19%.
I produttori, per arginare questo problema, si servono della feccia delle annate precedenti, ovvero di una specie di deposito che, conservato di anno in anno e ripartito nei vari caratelli, è capace di stimolare la fermentazione. A questo proposito, la feccia viene chiamata madre e, dal momento che rimane anche nel legno dei caratelli stessi, questi vengono riutilizzati senza essere prima lavati.

Il vino ambrato

Una volta riempiti per ¾, i contenitori vengono sigillati e stoccati –in passato venivano posti in soffitta, in modo che fossero esposti alle escursioni termiche, ritenute benefiche – e lì rimangono per almeno tre anni. L’incertezza sulla buona riuscita del vino aleggia fino all’apertura dei caratelli, quando si saprà se la feccia madre sia riuscita o meno a far fermentare il mosto, salvandolo dal marcescenza. È curioso che, a Citerna, proprio il vin santo venisse usato per ammorbidire le foglie del tabacco che, sottratte al Monopolio di Stato, venivano nascoste in casse di latta e sepolte nei campi. Tuttora, in Toscana, i fumatori di sigaro sono soliti inzupparli nel vin santo per gustarli meglio.

 


Sitografia:

www.fondazioneslowfood.com/it/presidi-slow-food/vinosanto-affumicato-dellalta-valle-del-tevere/

www.ilportaledelleosterie.it

www.wsimag.com

Bevagna appartiene al Club de
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Gioco, competizione e rigore storico. Questa la ricetta vincente del Mercato delle Gaite di Bevagna.

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Mercato delle Gaite, foto di Francesco Mancini per gentile concessione del Mercato delle Gaite

 

Nato nel 1989 per vivacizzare la vita del borgo medievale, ispirandosi allo Statuto cittadino che regolava la vita del comune dividendolo in quattro quartieri o gaite, il Mercato delle Gaite comunemente noto come le Gaite è diventato in pochissimi anni un appuntamento irrinunciabile sia per gli abitanti sia per chiunque desideri gustare al meglio questa splendida cittadina medievale – uno dei Borghi più Belli d’Italia.

La rigorosa ricetta

La formula è stata assolutamente intelligente e con un grandissimo riscontro di pubblico. Le Gaite vanno oltre la buona organizzazione di una competizione avvincente, infatti, per tutta la durata dell’evento, Bevagna si trasforma completamente e regala al visitatore l’illusione di un viaggio indietro nel tempo, fino al comune medievale che la cittadina è stata negli anni 1250-1350 nel periodo festoso della pace di fiera. Grazie all’articolazione in una gara (il tiro con l’arco) e in tre specifiche sfide scenografiche (la ricostruzione sceneggiata di due antichi mestieri per rione, la creazione di un ambiente conviviale nel quale viene servito il cibo dell’epoca e una giornata di mercato) Bevagna ricostruisce, rione per rione, in toto, un mondo ormai perduto e incredibilmente affascinante. Consulenze di alto profilo di anno in anno hanno fatto sì che ogni singolo aspetto, ogni singolo dettaglio della manifestazione migliorasse: dagli abiti, alle scenografie, alle tecniche, in modo che vi fosse maggior aderenza possibile alla realtà storica. La magia si ripete ogni estate, quando nell’ultima decade di giugno per le strade e nelle botteghe illuminate dalla luce fioca delle candele si sentono le voci di mercanti e di popolani, si vedono artigiani intenti al lavoro secondo tecniche ormai desuete e perlopiù dimenticate, nelle piazze si assiste a discussioni politiche e a scene tipiche della vita quotidiana… di molti secoli addietro! Referente scientifico del Mercato delle Gaite è Franco Franceschi, docente di storia medievale all’Università di Siena. Una giuria composta da accademici di prestigio che insegnano o hanno pubblicato su materie attinenti al Medioevo assegna punteggi sugli aspetti storici e tecnici delle rappresentazioni che, fino alla proclamazione finale i punteggi delle singole gare, sono tenuti segreti, chiusi all’interno di buste gelosamente custodite dai carabinieri, cosicché la tensione e le attese restino vive per tutto il periodo.

 

Le antiche botteghe, foto di Giacinto Bona per gentile concessione del Mercato delle Gaite

Le specializzazioni

Ma perché la manifestazione si chiama il Mercato delle Gaite? Il termine gaita che deriva dal longobardo watha ovvero guardia, si trova nello Statuto medievale – come accennato – giunto fino a noi in una redazione del XVI secolo, che suddivide appunto in guaite o gaite, ovvero in rioni, il comune medievale. Le quattro gaite che si sfidano ogni anno per vincere il palio sono: San Giorgio, San Pietro, Santa Maria e San Giovanni. Ciascuna di esse si è caratterizzata negli anni per dei punti di forza e di eccellenza: la gaita San Giorgio vanta al suo interno i Novus Ignis – un gruppo di giovani che hanno riportato alla luce le musiche dei secoli XIII e XIV – un coro e un gruppo di danzatrici medievali e propone tra i mestieri la lavorazione del ferro, la zecca e la liuteria; la gaita San Giovanni, quella che più volte ha vinto il palio, ha tra i mestieri che l’hanno resa celebre la lavorazione della carta partendo dagli stracci e la produzione del vetro partendo dalla sabbia e dai ciottoli di fiume; nella gaita San Pietro si può vedere la bottega del fornaio e quella dello speziale, così come assistere alla realizzazione delle candele di cera, scoprire i segreti dell’ars tinctoria e rimanere incantati dai monaci intenti a miniare all’interno di uno scriptorium; infine la gaita Santa Maria è specializzata in tutte le lavorazioni della lana e della canapa dalla filanda alla tessitura a telaio.
Nato dalla volontà di vivacizzare un borgo, il Mercato delle Gaite ha avuto però anche l’indiscusso pregio di creare la ricetta vincente per riuscire a ritrovare e ricreare lavorazioni artigiane scomparse e di trasmetterle con l’entusiasmo di una gara e di un gioco alle nuove generazioni, preservandone la memoria.

 

Le vie di Bevegna

Le vie di Bevegna, foto per gentile concessione del Mercato delle Gaite

 


 

Bibliografia e siti consultati:

Caldarelli, Il mercato delle Gaite. Grandi storie di piccola gente o, forse, piccole storie di gente grande, Marsciano, Editrice La Rocca, 2011

http://www.ilmercatodellegaite.it

http://gaitasangiovanni.it

http://www.gaitasanpietro.com/

http://www.gaitasantamaria.com/

https://www.facebook.com/gaitasangiorgio/

 

 

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Bettona appartiene al Club de
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Unico insediamento etrusco sulla riva sinistra del Tevere umbro, Bettona sorge a 365 metri sopra il livello del mare, su di un colle che delinea l’estrema propaggine di un sistema di alture che si distacca dai Monti Martani. Ringhiera sull’Umbria, ne domina la pianeggiante vallata sottostante, si apre sulle città che la contornano e sulle montagne dell’Appennino umbro-marchigiano che, lontane, la sovrastano a semicerchio.

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Interno del Museo di Bettona

 

Le sue antiche origini umbro-etrusche, i numerosi reperti archeologici e le mura ben conservate, fanno di Bettona un luogo ricco di pregevoli testimonianze storico-artistiche, un museo diffuso che si dilata e si amplia su tutto il territorio. I suoi palazzetti, un tempo splendide residenze, gli scorci mozzafiato, le chiese e gli oratori finemente adornati, e il museo comunale, si impongono come meta obbligata per turisti, studiosi e appassionati.

Il Museo

Situato in Piazza Cavour, il Museo della Città di Bettona si colloca sulla contingenza di Palazzo del Podestà e Palazzo Biancalana. Il primo fu edificato nel 1371 nell’ambito della ricostruzione della città ordinata dal cardinale e legato pontificio Egidio Albornoz; il secondo, fu costruito in stile neoclassico su progetto dello stesso proprietario Francesco Biancalana dopo la seconda metà del XIX secolo.

 

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Testa marmorea di Afrodite, II sec. d.C, Museo di Bettona, sezione archeologica

 

La collezione, profondamente radicata alla storia locale, include due distinte sezioni, entrambe di gran pregio: una archeologica e una pittorica.
La sezione archeologica del Museo dà inizio al percorso espositivo, fornendo testimonianza delle origini del territorio. Include manufatti etruschi, un numero consistente di terrecotte architettoniche, cippi funerari e di confine, ceramiche, opere scultoree del periodo tardo-ellenistico e marmi di epoca romana.
Tra i pezzi più considerevoli della collezione figura una magnifica testa marmorea di Afrodite risalente alla media Età Imperiale, rinvenuta nel 1884 nei terreni agricoli di proprietà dalla famiglia Bianconi; trafugata nel 1987, venne ritrovata a New York nel 2001.
Gli ori e gli altri reperti rinvenuti nella tomba del Colle, camera sepolcrale scoperta nel 1913, sono invece esposti al Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria di Perugia.
I lavori di rifacimento della pavimentazione di Piazza Cavour hanno portato alla luce un antico pozzo monumentale risalente alla fine del XV secolo; si tratta di una struttura a pianta circolare in conci di pietra arenaria squadrati. Interessanti anche i resti di murature interrate e un tratto viario basolato di epoca romana.

La Pinacoteca

La Pinacoteca Comunale occupa, invece, il trecentesco palazzo del Podestà e alcuni ambienti della residenza della famiglia Biancalana.
La raccolta, costituitasi a partire dal 1904, comprende materiale di vario genere e strettamente aderente alla storia locale. La Pinacoteca ospita una sessantina di opere, in gran parte pittoriche. Si segnalano il Sant’Antonio di Padova e la Madonna della Misericordia con i santi Stefano, Girolamo e committenti di Pietro Vannucci detto “Il Perugino”, due preziosi corali miniati trecenteschi, il San Michele arcangelo di Fiorenzo di Lorenzo, un crocifisso in legno policromo attribuito ad Agostino di Duccio, la monumentale pala d’altare con la Madonna in gloria e santi di Jacopo Siculo, un tabernacolo con Cristo ed Evangelisti attribuito a Domínikos Theotokópoulos meglio noto come El Greco”, i Santi Pietro e Paolo di Giuseppe Ribera detto “Lo Spagnoletto”, una terracotta invetriata a tutto tondo raffigurante Sant’Antonio di Padova riconducibile all’ambiente dei Della Robbia, ed una meravigliosa tavola con l’Adorazione dei pastori dell’artista assisiate Dono Doni, restaurata in tempi record a seguito dell’evento sismico dell’ottobre 2016. L’intervento, finanziato dalla Galleria degli Uffizi, è stato condotto intramoenia, tramite la creazione di un vero e proprio laboratorio di restauro visibile e fruibile da tutti gli utenti.
All’interno del Museo, sono inoltre attivi servizi educativi con un’offerta didattica di qualità in grado di coniugare il rigore artistico delle collezioni ad un’atmosfera ludico-creativa. Arte, gioco e creatività per comunicare alle nuove generazioni l’importanza che l’arte ha nello sviluppo sociale e antropologico di ognuno.

 

Pinacoteca Comunale

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Lugnano in Teverina appartiene al Club de
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Sulle colline attorno a Lugnano in Teverina, sito a pochi chilometri dal confine tra Umbria e Lazio, sorge un luogo dal nome sinistro quanto evocativo: la Necropoli dei Bambini

Il macabro ritrovamento


I ben quarantasette infanti morti, ritrovati all’interno di cinque stanze dell’antica villa romana lasciata alla decadenza fin dal III secolo, furono sepolti tutti in un breve lasso di tempo: assunto suggerito dalla loro collocazione, stratificata – tanto da rialzare di ben tre metri il pavimento della villa- ma appartenente al medesimo sito archeologico. I corpicini dei più grandi furono incistati all’interno di anfore riconvertite a tale scopo, mentre i neonati e i feti spesso furono adagiati gli uni sugli altri senza particolari accorgimenti o semplicemente sotto frammenti provenienti dalla villa in rovina.  

 

reperti archeologici umbria

Uno dei bambini incistati ritrovati nella villa romana di Poggio Gramignano e conservato all’Antiquarium comunale di Lugnano, foto via

Prima di considerare i popoli del tardo impero come dei barbari infanticidi, sappiate che l’ecatombe fu dovuta ad una violenta epidemia. Nel 2016, con la ripresa degli scavi – iniziati negli anni Ottanta – gli archeologi hanno scoperto che in quelle contrade si abbatté la forma più letale di malaria, del ceppo Plasmodium falciparum, facendo del Poggio Gramignano di Lugnano la più antica testimonianza di penetrazione della malattia in Europa e nel Mediterraneo.  

Il sito

La villa, che appariva come la villa perfecta teorizzata da Varrone, fu riconvertita a necropoli fin dal V secolo. Sebbene non abbia ancora restituito i corpi degli adulti, offre lo stesso reperti di particolare interesse. Oltre a ossa isolate di individui adulti consumati, fin da vivi, dalla malnutrizione e dalla porosi (necrosi del tessuto nervoso), sono stati trovati anche artigli di corvo, parte dello scheletro di un rospo e diversi pezzi scheletrici di cuccioli di cane. Questi ultimi, privi delle tracce degli eventi atmosferici e sparsi lungo tutti i tre metri di profondità dell’accumulo tombale – fatto di corpi, vasellame, terra e cenere – furono senza dubbio smembrati a scopo rituale. Il sacrificio dei cuccioli di cane (di cinque o sei mesi d’età) era infatti collegato al culto di Ecate, divinità sotterranea che aveva il compito di accompagnare i morti nell’Oltretomba, senza contare che lo stesso tipo di sacrificio serviva per purificare le donne abortenti (si ricordino i ben ventidue feti sepolti nella villa). Di tali usanze parla anche Plinio il Vecchio, che collega il soggetto scelto per il sacrificio a Sirio, la costellazione del Cane, astro che sorge in estate, periodo in cui è assodata – almeno in Italia – la recrudescenza delle febbri malariche.  

Incursioni pagane

Che questa ecatombe fosse avvenuta in estate lo testimoniano anche alcuni resti carbonizzati di caprifoglio, un arbusto della macchia mediterranea che fiorisce proprio in quel periodo. È curioso che, in una zona ufficialmente considerata cristianizzata, si siano manifestati tali riti dal sapore nettamente pagano.

macchia mediterranea umbra

Caprifoglio, pianta spontanea della macchia mediterranea che fiorisce in estate, foto via

D’altronde non sappiamo di che etnia o di quale religione fossero gli abitanti di questo insediamento, e neppure se facessero parte di una comunità piuttosto isolata e di basso profilo tanto da riuscire a mantenere la propria indipendenza culturale di fronte alla mano uniformante del nuovo culto cristiano. Non è neanche da escludere che, di fronte a una pestilenza così violenta, quelle povere anime si fossero appellate a culti pressoché ancestrali pur di sopravvivere al morbo che li stava decimando.

 

Capitoli da riscrivere

Anche il temibile Attila, il famigerato Flagellum Dei che minacciava di saccheggiare Roma nel 452, sembra che avesse desistito di fronte alla prospettiva di spirare sotto le febbri malariche di quelle zone. Stando a quanto scritto nelle Leges novellae divi Valentiniani (V secolo), tra i motivi che lo portarono a rinunciare ci fu anche una non meglio precisata pestilenza, che ora però potrebbe aver trovato un nome e una collocazione.  
L’aria mefitica di quelle zone colpirà anche Sidonio Apollinare, pochi anni più tardi (467 d.C.): 

«Poi attraversai le altre città della via Flaminia – una dopo l’altra – lasciando i Piceni sulla sinistra e gli Umbri alla destra; e qui il mio corpo esausto soccombé allo scirocco calabro o all’aria insalubre delle terre toscane dense di miasmi venefici, con accessi ora di sudore ora di freddo. Sete e febbre devastarono il mio animo fino al midollo; invano assicurai alla loro avidità sorsi da piacevoli fontane, da nascoste sorgenti e da ogni corso d’acqua che incontravo, fossero le trasparenze vitree del Velino, le acque gelide del Clitumno, quelle cerulee dell’Aniene, le sulfuree del Nera, le limpide acque del Farfa o quelle flave del Tevere.» (Epistulae, I.5, 8-9) 

pestilenza impero romano d'occidente

Una moneta raffigurante Attila, foto via

Non è quindi così strano che Attila, accampato presso l’Ager Ambulejus (l’odierna Governolo, Mantova) avesse deciso di risparmiare Roma – e ciò che restava delle sue stesse truppe. Senza dubbio è un’ipotesi più plausibile rispetto al crocifisso benedetto di Leone I che, secondo la leggenda, spinse il re degli Unni lontano da Roma.
È certo che, in questa storia, superstizione e scienza si intrecciano in maniera piuttosto intrigante, a dimostrazione di quanti e quali demoni una pestilenza possa far sorgere nella mente degli uomini. A onor del vero, c’è da dire che diverse storie dal sapore esoterico sono circolate anche sul conto di Attila. Seppur spregiudicato e impietoso in battaglia, sembra infatti che fosse un uomo semplice e superstizioso –almeno secondo lo storico Prisco di Panion: sembra che, convintosi che la morte di Alarico, re dei Visigoti, fosse strettamente collegata al saccheggio compiuto a Roma nel 410, avesse deciso di girare al largo dalla città per paura di fare la stessa fine.  

 

 

Per saperne di più su Lugnano in Teverina

Sitografia:  

Con Roberto Montagnetti, alla scoperta della Necropoli di Poggio Gramignano, da www.orvietonews.it 

http://lugnanomuseocivico.blogspot.it/ 

Villa Rustica di Poggio Gramignano a Lugnano in Teverina, in www.paesionline.it 

Antiquarium comunale di Lugnano in Teverina, da www.beniculturali.it 

Lugnano: la villa romana di Poggio Gramignano tornerà a rivelare i suoi segreti, da www.umbriaecultura.it 

Lugnano in Teverina: il borgo con l’archeologia nel DNA, da www.umbriaecultura.it 

Chi fermò Attila? Forse la malaria, da www.popsci.it 

http://www.turismolugnanointeverina.it 

Lugnano in Teverina, sorprendenti scoperti nella necropoli di Villa Gramignano, da www.umbriaindiretta.it 

Sorprendenti scoperte nella Necropoli di Lugnano in Teverina, da www.terniinrete.it 

http://www.comune.lugnanointeverina.tr.it 

Montefalco appartiene al Club de
I Borghi Più Belli d’Italia

 


Dalla cima delle colline che sovrastano la pianura dei due fiumi umbri Clitunno e Topino, la città di Montefalco rivolge il suo sguardo sulla valle umbra; un borgo cinto da uliveti e vigneti che formano una sorta di preziosa collana di smeraldi e rubini, sfumature che richiamano il profondo legame tra questa terra e il rapido passare delle stagioni, ognuna con i suoi colori.

Proprio in questo storico teatro a cielo aperto, all’interno della piazza del Comune vanno in scena, come degli attori, i quattro quartieri di Sant’Agostino, San Bartolomeo, San Fortunato e San Francesco, i quali ogni anno fanno rivivere scene di un passato lontano, la semplicità di una vita cittadina e contadina mai dimenticata e sempre presente nei cuori dei Montefalchesi.
Le quattro taverne della città durante questi giorni di grande festa sono decorate con i vividi colori dei quartieri e si animano, sempre all’interno delle mura cittadine, in luoghi tipici e suggestivi del borgo dove si possono gustare i piatti e i vini della tradizione umbra.
Durante tutto l’arco delle festività, a far da cornice all’Agosto Montefalchese sono il Corteo Storico, una sfilata di figuranti rappresentanti i personaggi dell’epoca rinascimentale tra XV e XVI secolo, la sfida dei Tamburini e degli Sbandieratori.

fuga del bove montefalco

La sfida dei Tamburini, foto via

Tutta questa gloriosa rievocazione è incentrata sul Palio e la conquista del Falco d’oro, il maestoso volatile simbolo dello stesso comune. Antiche cronache ci tramandano che fu proprio l’imperatore Federico II di Svevia a ribattezzare l’antica località di Coccorone in Montefalco, proprio per la grande presenza di questi rapaci visti sorvolare quelle colline.
Il palio è strutturato in diverse gare che tengono con il fiato sospeso tutto il borgo: si tratta di vere e proprie competizioni dal sapore antico, momenti che legano tutti i cittadini, pronti ad urlare e strepitare per i loro beniamini che si contendono il primato.
Impegnati nella conquista di questo ambito premio sono infatti i giovani dei quattro rioni che ogni anno mettono in luce la loro maestria acquisita in anni di duro allenamento e profondo amore per il proprio quartiere di appartenenza.
La prima gara è il tiro con la balestra, il cui bersaglio è costituito da una riproduzione di una testa di toro con diversi punteggi a seconda della parte che viene raggiunta dal dardo.

palio cittadino di montefalco umbria

Tiro con la balestra, foto via

La competizione continua poi a infuocarsi nell’animo dei quartieranti con la seconda gara: quella della staffetta, un vero e proprio anello di congiunzione tra il Medioevo della corsa del bove e le gare atletiche dei tempi moderni.
L’apice della competizione si raggiunge durante l’attesissima Fuga del Bove. Una rievocazione molto meno cruenta di quella tramandata dalle cronache medievali; si raccontava infatti che nei giorni di Natale un bue veniva portato con la forza per le vie della cittadina dopo avergli somministrato una bevanda a base di vino e pepe al fine di renderlo furioso e difficile da gestire. Lì poi lo aspettava una folla di uomini che, riparandosi in robuste botti di legno, lo incitavano facendolo correre fino a farlo cadere stremato.
La Corsa dei Bovi viene vissuta, oggi, in maniera non cruenta; ad ogni quartiere viene affidato un toro da allenare e curare durante tutto l’inverno per scendere in campo nella serata di metà agosto e gareggiare con i rivali delle altre contrade. Il bue viene trascinato, sospinto e guidato da fidati portatori che si sfidano per l’onore del proprio rione sotto l’attento sguardo della città vociante che attende il loro passaggio per poterne misurare la forza e la bravura.

eventi agosto a montefalco umbria

Fuga del bove, foto via

I giostratori di ogni quartiere accompagnano e guidano, di corsa, un toro dal peso di quasi cinque quintali lungo un percorso accidentato in una gara a scontri diretti due a due. Il vincitore finale si aggiudica il Palio, che ogni anno viene commissionato a un artista diverso, un dipinto che si ispira all’atmosfera che solo si può respirare a Montefalco nei giorni del Palio.


Sitografia:

www.folclore.eu

Umbria WebCam

ProMontefalco.com

Comune di Montefalco.pg.it

 

Per saperne di più su Montefalco

 

 

 

 
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Panicale appartiene al Club de
I Borghi Più Belli d’Italia

 


La Festa dell’uva in onore del dio Bacco è uno degli appuntamenti tradizionali di fine estate del lago Trasimeno. Panicale si prepara a ospitare la 42esima edizione, che andrà in scena dal 7 al 10 settembre. 

La storia

La festa dedicata a Bacco e al suo nettare ha origini lontane. Nel 1926, infatti, si racconta di un piccolo centro agricolo dove vigeva il latifondo e di un tempo in cui il vino, più che un nettare raffinato, era un vero e proprio alimento che dava la forza per compiere il duro lavoro dei campi. La manifestazione allora si svolgeva in contemporanea con il mercato del bestiame. Dopo una pausa forzata dovuta alla Seconda Guerra Mondiale, la Festa dell’uva ricomparve a Panicale a partire dagli anni Cinquanta, grazie alla volontà della Proloco, che ne cura tutt’oggi l’organizzazione.  
In quel contesto sociale la festa rappresentava una delle rare occasioni in cui i giovani delle diverse tenute potevano incontrarsi e conoscersi. Questo evento, a quel tempo cominciava con la Santa Messa in mattinata mentre, dopo un pranzo conviviale, il pomeriggio era dedicato al divertimento. Poi, dal 1976 la festa è diventata un appuntamento fisso per il borgo umbro e porta con sé i segni del mutare dei tempi. 

 

festa d'uva

 

Il percorso enogastronomico

Il vino si sposa con il cibo. Per questo con un calice e il classico porta bicchiere di stoffa da appendere al collo, si potrà iniziare il percorso tra le varie cantine sparse per il centro storico del borgo. Un tour enogastronomico a tutti gli effetti, che porterà i più golosi a scoprire le varie qualità di vino che saranno offerte dagli espositori. 
Il visitatore potrà anche degustare assaggi di prodotti tipici locali, come l’olio di oliva delle colline di Panicale, che viene proposto come condimento delle bruschette preparate al momento dai “cantinieri”, la fagiolina del lago, il miele, le marmellate, e la grande varietà di vini prodotti dei viticoltori locali.

 

Panicale

I giochi dei rioni

La storia dei rioni

Due saranno i rioni che si contenderanno il Palio di Bacco: il Rione Grifo e il Rione Torre. Una linea immaginaria dividerà il borgo da Nord a Sud, passando per la casa del condottiero Giacomo Paneri, detto Boldrino; il Grifo con lo sguardo a Est, la Torre a ovest. Nello stemma del Comune di Panicale c’è la storia di questi due rioni: il grifo concesso da Perugia in segno di gratitudine per le molte battaglie vinte al suo fianco, tra cui la memorabile vittoriosa difesa di Perugia, assalita dai Bretoni nel 1378, ad opera del condottiero panicalese Boldrino. La torre invece simboleggia il potere del castello che sorge sul colle, al cui fianco crescono le spighe di Panìco I due rioni si sfideranno nei giochi della tradizione popolare, ma anche in nuove e avvincenti competizioni.

 

 

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Spello appartiene al Club de
I Borghi Più Belli d’Italia

 


Grazie alla sua posizione mozzafiato su di una dolce collina che contrasta per altezza con il vicino Monte Subasio, il comune di Spello si è guadagnato anche per il 2017 la selezione tra i Borghi più Belli d’Italia.

Celebre per le sue maestose infiorate in occasione del Corpus Domini, che di anno in anno diventano sempre più conosciute anche fuori dall’Umbria e durante le quali le strade si colorano di tappeti rappresentanti scene di natura religiosa create con i petali, il piccolo borgo fu fondato dagli Umbri per poi passare sotto la dominazione romana intorno al 41 a.C. e nell’epoca augustea ricevette l’appellativo di “Splendida colonia Iulia”. Fu proprio con la presenza dei Romani che Spello venne dotata delle strutture urbanistiche tipiche dell’impero, quali mura, terme, un teatro e persino un impianto idrico che, nonostante le varie vicissitudini – dall’invasione dei Barbari ai passaggi di dominio tra vari Ducati e il Papato, sono giunte fino ai giorni nostri.

 

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Veduta di Spello, foto di Marica Sorbini

 

Ed è la riscoperta di una di esse che ha reso il borgo un’attrattiva anche per gli sportivi: se siete degli escursionisti con la passione per la natura c’è un meraviglioso percorso che fa per voi! Infatti, nel 2009, un tratto dell’acquedotto romano è stato recuperato grazie ad un progetto voluto dell’architetto Stefano Antinucci, realizzando un tracciato per gli amanti del trekking e della mountain bike. L’antico manufatto, in pietra calcarea locale, bianca e rosata, subì diverse ristrutturazioni nel corso degli anni ed è stato funzionante fino all’Ottocento, quando a causa dell’eccessive perdite fu sostituito da una nuova struttura e quindi temporaneamente cadde nel dimenticatoio.
Ma oggi l’acquedotto costituisce un importante reperto, conservando molti tratti originali, che si possono ammirare durante il percorso, intersecandosi con antichi ponti e persino un abbeveratoio, un tempo utilizzato per dissetare gli animali, dove attualmente si trova una fontanella dalla quale è possibile attingere acqua fresca.

 

acquedotto_spello

Acquedotto romano, foto di Marica Sorbini

 

Il sentiero ha il suo punto di partenza a Spello, dal cui centro storico si deve arrivare alla Fonte della Bulgarella (quota 313 m) e da lì si va attraverso una via ben tracciata che giunge sotto il piccolo e caratteristico borgo di Collepino (quota 456 m), ma ovviamente è percorribile anche in senso contrario e anzi, è considerato come il naturale proseguimento del preesistente Sentiero 52 che collega direttamente il Monte Subasio a Collepino. Si sviluppa per circa 5 km ed è prevalentemente pianeggiante, aspetto che lo rende adatto a escursionisti di tutte le età, compresi bambini e anziani. Lungo di esso sono presenti delle panchine che consentono alle persone di riposarsi, ma soprattutto di godere e ammirare il paesaggio circostante: scorci sulla valle del Chiona, sulle colline appenniniche e su Spello, sono indubbiamente buone ragioni per cui intraprendere questa passeggiata.

 

Collepino

Sentiero di Collepino, foto di Marica Sorbini

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