Il lago Trasimeno, emblema delle cose semplici e autentiche, accoglie la Villa Alta, la dimora che Vittoria e Guido Pompilij scelgono per la loro vita insieme. I due vivono anni di amore intenso e assoluto, profondo come soltanto il blu sa essere.
Era la fine del 1900 quando un incontro a Venezia cambierà, sconvolgendole, le vite solitarie della poetessa VittoriaAganoor e del parlamentare umbro Guido Pompilj.
Un carattere sprezzante e indomabile
Vittoria rimane colpita immediatamente da quest’uomo che nella sua lirica Trasimeno chiamerà «il forte soldato del bene», in lui infatti «riconosce una forte dimensione etica associata ad uno slancio umanitario e solidaristico a lei finora sconosciuti».[1] Guido – che in quel periodo ricopre il ruolo di sottosegretario del Ministero delle Finanze del primo governo Saracco – è, così come lo descriverà un suo carissimo amico, Giuseppe Marinelli, «di carattere poco espansivo, duro, imperterrito, non aveva sentimenti conciliativi, seguiva la sua meta, senza curare gli ostacoli, e disprezzava chi gli avesse precluso il cammino. Non si piegava a nessuno e aveva perciò molti avversari che, quantunque avessero ammirato il suo forte ingegno non sapevano spiegare il suo carattere sprezzante e indomabile».[2] Eppure in privato è capace di mostrare un’“affettuosità dolce, quasi infantile»; inoltre possiede un conversare «gaio, lepido, mai mordente o sarcastico, sempre entusiasta e ponderato insieme».[3]
Occhi neri e profondi
Vittoria, allora quarantacinquenne, inizia a scrivere a Guido e «travasa nelle lettere […] tutta se stessa – sentimenti, aneliti, occupazioni e preoccupazioni – arrivando a scalfire la laconica riservatezza del Pompilj».[4] Guido infatti, tutto preso dalle sue occupazioni politiche e ormai a quarantasei anni, non pensa più di condividere la sua vita con una donna. Ma presto questa donna a cui «niuno che l’avesse anche per poco avvicinata poteva sottrarsi al fascino irresistibile che emanava da quella piccola persona tutta grazia e leggiadria; da quei suoi grandi occhi neri e profondi, lampeggianti passione, velati di malinconia; dalla sua schietta e signorile affabilità»[5] riesce a conquistare il cuore di Guido ed egli prende ad amarla sempre più fino diventare con lei un’unica identità.
Un nido d'amore a Monte del Lago
Le lettere si fanno sempre più affettuose e tenere fino ad arrivare a quella del 16 maggio del 1901 nella quale ella si dichiara pronta a sposarlo, sicura di aver trovato «il compagno ideale, che, prendendole tutta l’anima, le avrebbe dato in cambio la propria, senza restrizioni e senza limiti».[6] Vittoria così scrive sfidando ogni tipo di convenzioni:
«[Io ho] sempre pensato che pren[dere] marito, senza amore, sia un’infamia; sarà falso, ma ho sempre pensato questo. Ebbi delle simpatie per qualcuno che mi piaceva unicamente pel fisico, ma sentii bene che mi piaceva il viso e niente altro, e che tra la loro anima e la mia vi era un abisso. Questo, pensai, non è vero amore, completo. Perché vorrei ora prender marito?Perché sarebbe l’unica maniera di vivere con Lei, per Lei, vicina a Lei; ché se fosse possibile far questo senza sposarla, io non Le chiederei… cioè non Le avrei chiesto di sposar[mi] mai […] sappia […] che non sarei solo stata disposta a lasciar Venezia per Perugia, ma anche per la Siberia davvero [pur] di vivere con Lei e [adattan]domi ad ogni sua abitudine».[7]
Si sposano a Napoli nel novembre di quell’anno e il loro diventa un amore pieno e totalizzante, «uniti da reciproca stima, da comuni interessi artistici e culturali e da un identico apprezzamento per le cose semplici ed agresti che offriva loro quell’amato Trasimeno»[8] sulle cui sponde scelgono a vivere appena sposati, in quella Villa Alta di Monte del Lago paese natale di Guido. Vittoria e Guido vivono anni di amore intenso e assoluto, profondo come soltanto il blu sa esserlo: incomprensibile e inesplorabile come le profondità delle acque e sconfinato come il blu dei cieli. Così quando Vittoria nel maggio del 1910 si spegne, in seguito a un’operazione di tumore ovarico, Guido disperato si uccide lasciando scritto «non potrei, né vorrei sopravviverle»[9].
[1] A. Chemello, Vittoria Aganoor e il suo mondo, in M. Squadroni (a cura di), Vittoria Aganoor e Guido Pompilj. Un romantico e tragico amore di primo Novecento su Lago Trasimeno, [Perugia], Soprintendenza archivistica per l’Umbria, 2010, p. 135.⇑ [2] Citazione tratta da M. Chierico, cit., p. 14.⇑ [3] G. Muzzioli, Guido Pompilj e Vittoria Aganoor Pompilj. Commemorazione popolare, Perugia, Guerra, 1910, p. 5.⇑ [4] P. Pimpinelli, Vittoria Aganoor. La poetessa, in M. Squadroni (a cura di), cit., p. 111.⇑ [5] G. Mazzoni, in «La Favilla» fasc. ill. in onore di Vittoria Aganoor (lug.-ago. 1910) cit. in L. Grilli, Introduzione, in V. Aganoor Pompilj, Poesie complete, Firenze, Le Monnier, 1912, p. IV.⇑ [6] «La Donna», 20 mag. 1910, cit. da F. Girolmoni, Il fondo bibliografico Aganoor Pompilj della Biblioteca comunale di Magione, in M. Squadroni (a cura di), cit., p. 184.⇑ [7] Lettera di Vittoria a Guido Pompilj datata 16/5/1901 cit. da L. Ciani, Aganoor, la brezza e il vento, Nuova S1, Bologna 2004, p. 92.⇑ [8] G. Chiodini, Vittoria e Guido. Un suicidio concordato, in «Il Messaggero Umbria», 23 apr. 2010.⇑ [9] ASPg, Fondo Aganoor Pompilj. Ada Palmucci, Testamento di Guido Pompilj, 4-5/5/1910.⇑
Una Giornata per la Custodia del Creato; un Forum d’informazione giornalistica per scovare nuove vie di racconto dello stesso; un percorso, lungo la Via di Francesco, per ricalcare i passi compiuti dal Santo durante il lungo e rigido inverno del 1206. Una celebrazione tripartita, quella dal 1 al 3 Settembre, che ha in primo luogo l’aspirazione a diffondere un turismo sostenibile, ma anche il desiderio di tutelare i beni culturali e la bellezza paesaggistica in cui questi, come noi, sono immersi. A porsi come comun denominatore, il Santo di Assisi, patrono d’Italia e degli Ecologisti: chi meglio di Francesco, che aveva vagato in queste terre rapito dalla loro magnificenza e dalla perfezione del Creato, avrebbe potuto costituirsi come simbolo di una rinnovata attenzione all’ambiente?
Eremo di San Piero in Vigneto
Il Pellegrinaggio
Giunto ormai alla sua nona edizione, il pellegrinaggio di 50 km da Assisi a Gubbio si offre come un’occasione per entrare a pié pari nell’atmosfera della succitata celebrazione. Ripercorre, infatti, l’itinerario compiuto da Francesco dopo la sua spoliazione, il gesto di radicale rifiuto degli agi a cui era stato abituato che prelude però ad una vestizione quanto mai simbolica, non solo perché il sacco che gli verrà poi donato diventerà il simbolo del suo Ordine, ma anche perché la nudità gli permetterà di indossare lo splendore dell’Eden, emblema di un mondo armonico.
È proprio su questo assunto che prende il via il percorso, articolato non solo sui luoghi realmente visitati dal Santo, ma anche sul valore unico che essi hanno avuto per l’elaborazione degli stilemi della sua dottrina, mutuati sulla bellezza, semplice ed essenziale, del Creato.
Partendo da Assisi, si toccano dapprima la Pieve di San Nicolò e la Chiesa di Santa Maria Assunta; si arriva poi al Castello di Biscina e alla Chiesa di Caprignone, nei pressi della quale il Santo si proclamò, di fronte ai briganti, «l’Araldo del Gran Re». Dopo essere stato malmenato, Francesco trovò rifugio presso l’Abbazia di Vallingegno, altra tappa del pellegrinaggio di Settembre, a cui si arriva dopo essersi riforniti d’acqua potabile a San Piero in Vigneto, un eremo benedettino dalle fattezze di una fortificazione, così come volevano i dettami dell’epoca. A Vallingegno, Francesco venne accolto con riluttanza, al punto da essere ridotto alla stregua di un semplice sguattero; vi tornerà diverse volte, rendendosi protagonista di episodi che testimoniano il suo grande amore per gli animali.
Senza dubbio, però, quello più famoso riguarda il feroce lupo, la belva che Francesco riuscì ad ammansire nei pressi di Santa Maria della Vittorina, penultima tappa del pellegrinaggio prima della meta. Gubbio si staglia infatti non molto distante, tra gli argentei ulivi, pronta ad accogliere i viandanti nella Chiesa di San Francesco, sulla cui facciata incompiuta si specchia la statua del Santo col lupo, personaggio di primaria importanza nella definizione della santa figura.
Ma se ad Assisi ogni chiesa e ogni angolo rifulge dell’aura di Francesco, è a Gubbio che hanno avuto luogo le svolte biografiche più significative: è qui che Francesco indossa per la prima volta il saio, è qui che ritrova l’amico Giacomo Spadalonga, con il quale aveva condiviso la prigionia a Perugia dopo la sconfitta di Collestrada. Ed è sempre a Gubbio che il Vescovo concede ai francescani il loro primo cenobio, almeno secondo il proto biografo Tommaso da Celano.
Il Forum
Un percorso simile, diretto però agli esperti della comunicazione, è poi la novità dell’annuale Forum dell’Informazione Cattolica per la Custodia del Creato. Partendo dal nuovo – ed emblematico – Santuario della Spoliazione di Assisi, il forum toccherà il borgo di Valfabbrica, dove verrà presentata la nuova Ippovia Slow, tesa a migliorare l’offerta di questa parte di percorso lungo la Via di Francesco. Se infatti numerose donne e uomini, magari accompagnati da fidati amici al guinzaglio, avevano intrapreso tale tracciato sia a piedi sia in bicicletta, la parte dedicata al turismo equestre non era stata abbastanza valorizzata, tanto che s’incontravano spesso scivolosi tratti asfaltati e sparuti punti di ristoro. Da qui l’idea di potenziare l’Ippovia – secondo un progetto integrato tra i Comuni di Valfabbrica, capofila del progetto, Assisi, Gubbio e Nocera Umbra, sostenuti dalla Regione Umbria e da Sviluppumbria – con maniscalchi, assistenza e punti di ristoro per cavalieri e cavalli: il tratto da Gubbio ad Assisi si porrà così come emblema di un turismo slow, ideale per assaporare la bellezza del paesaggio che ci circonda.
Il Forum, organizzato dall’Associazione Greenaccord Onlus, farà poi rotta verso Gubbio, dove tra luoghi pregevoli dal punto di vista artistico e spirituale si discuteranno le responsabilità della Stampa nella copertura delle notizie durante le fasi successive alle grandi emergenze, in modo da favorire la rinascita delle aree colpite. Nell’ambito di questo articolato dialogo, quei giornalisti che si saranno distinti nella divulgazione e nell’approfondimento delle tematiche ambientali, verranno insigniti dell’onorifico titolo di “Sentinella del Creato”.
Pellegrini a cavallo
La Giornata Mondiale del Creato
Ognuno di questi percorsi troverà il proprio epilogo il 3 Settembre, con la solenne celebrazione liturgica per la Giornata del Creato, trasmessa in diretta su Rai Uno. Viaggiatori nella Terra di Dio – il tema scelto per questa XII edizione – non è altro che il sunto delle due esperienze precedentemente descritte. È il titolo perfetto di una storia di crescita interiore, che si travasa nel rispetto per il mondo circostante; è il preludio perfetto per la Giornata Mondiale del Turismo del 27 Settembre, imperniata anch’essa sulle modalità adatte ad un turismo sostenibile, al cento per cento.
L’articolo è stato promosso da Sviluppumbria, la Società regionale per lo Sviluppo economico dell’Umbria
Grazie alla sua posizione mozzafiato su di una dolce collina che contrasta per altezza con il vicino Monte Subasio, il comune di Spello si è guadagnato anche per il 2017 la selezione tra i Borghi più Belli d’Italia.
Celebre per le sue maestose infiorate in occasione del Corpus Domini, che di anno in anno diventano sempre più conosciute anche fuori dall’Umbria e durante le quali le strade si colorano di tappeti rappresentanti scene di natura religiosa create con i petali, il piccolo borgo fu fondato dagli Umbri per poi passare sotto la dominazione romana intorno al 41 a.C. e nell’epoca augustea ricevette l’appellativo di “Splendida colonia Iulia”. Fu proprio con la presenza dei Romani che Spello venne dotata delle strutture urbanistiche tipiche dell’impero, quali mura, terme, un teatro e persino un impianto idrico che, nonostante le varie vicissitudini – dall’invasione dei Barbari ai passaggi di dominio tra vari Ducati e il Papato, sono giunte fino ai giorni nostri.
Veduta di Spello, foto di Marica Sorbini
Ed è la riscoperta di una di esse che ha reso il borgo un’attrattiva anche per gli sportivi: se siete degli escursionisti con la passione per la natura c’è un meraviglioso percorso che fa per voi! Infatti, nel 2009, un tratto dell’acquedotto romano è stato recuperato grazie ad un progetto voluto dell’architetto Stefano Antinucci, realizzando un tracciato per gli amanti del trekking e della mountain bike. L’antico manufatto, in pietra calcarea locale, bianca e rosata, subì diverse ristrutturazioni nel corso degli anni ed è stato funzionante fino all’Ottocento, quando a causa dell’eccessive perdite fu sostituito da una nuova struttura e quindi temporaneamente cadde nel dimenticatoio.
Ma oggi l’acquedotto costituisce un importante reperto, conservando molti tratti originali, che si possono ammirare durante il percorso, intersecandosi con antichi ponti e persino un abbeveratoio, un tempo utilizzato per dissetare gli animali, dove attualmente si trova una fontanella dalla quale è possibile attingere acqua fresca.
Acquedotto romano, foto di Marica Sorbini
Il sentiero ha il suo punto di partenza a Spello, dal cui centro storico si deve arrivare alla Fonte dellaBulgarella (quota 313 m) e da lì si va attraverso una via ben tracciata che giunge sotto il piccolo e caratteristico borgo di Collepino (quota 456 m), ma ovviamente è percorribile anche in senso contrario e anzi, è considerato come il naturale proseguimento del preesistente Sentiero 52 che collega direttamente il Monte Subasio a Collepino. Si sviluppa per circa 5 km ed è prevalentemente pianeggiante, aspetto che lo rende adatto a escursionisti di tutte le età, compresi bambini e anziani. Lungo di esso sono presenti delle panchine che consentono alle persone di riposarsi, ma soprattutto di godere e ammirare il paesaggio circostante: scorci sulla valle del Chiona, sulle colline appenniniche e su Spello, sono indubbiamente buone ragioni per cui intraprendere questa passeggiata.
Il Geolab è uno spazio espositivo permanente dedicato alla Scienze della Terra. Un luogo pensato per raccontare come è fatto e come funziona il nostro pianeta, come è nata l’Umbria, e quali sono i meccanismi che sono alla base della sua evoluzione. Al Geolab è: “vietato non toccare”.
Più che un museo, Geolab è quasi un laboratorio, che a San Gemini ospita una serie di macchine interattive
che spiegano divertendo, ma soprattutto invitando il visitatore a osservare e sperimentare con il metodo di
uno scienziato.
Alla scoperta della Terra
La visita si snoda attraverso cinque sale, lungo un percorso che accompagna il visitatore dalla scoperta della
struttura della Terra fino alla lettura del paesaggio, attraverso le principali emergenze geologiche dell’Umbria.
La prima sala si apre con la scoperta, grazie a una lente speciale, che la superficie della terra è divisa in grandi placche: un gioco che permette di smontare e rimontare il planisfero di 150 milioni di anni fa, e una ruota del tempo che separa Africa e Sud America che, visualizzando i movimenti delle placche nel passato, aiutano a comprendere anche il modo in cui nascono gli oceani.
Tra la prima e la seconda sala si entra in un grande globo terreste, in cui si può vedere come è fatto l’interno del nostro pianeta, il nucleo. In seguito il visitatore, con l’aiuto di un plastico interattivo, può scoprire come nascono le catene montuose, perché si scatenano i terremoti e dove si aprono i vulcani.
Con la terza sala si arriva alle vicende geodinamiche dell’area del Mediterraneo e dell’Italia. Un gioco permette di tornare indietro nel tempo e di scoprire in che modo si è formata la nostra Penisola: rispondendo correttamente alle domande, si possono far sollevare tre plastici che rappresentano altrettanti momenti della storia geologica italiana.
La quarta è dedicata all’Umbria: qui si può provare a far sollevare l’Appennino dal mare e vedere poi i fenomeni di erosione. Al centro, un grande plastico con acquario propone, in un unico colpo d’occhio, sia la storia geologica della regione, che gli ambienti di formazione delle rocce che la costituiscono, insieme a campioni delle rocce stesse. Uno spazio è dedicato ai fossili e un altro all’esame al microscopio dei segreti delle rocce umbre.
Nell’ultima sala, ricavata in una chiesa sconsacrata, si possono infine conoscere i principali fenomeni e i luoghi di interesse geologico dell’Umbria.
Alcuni esempi: la registrazione, con un sismografo, dei salti dei visitatori introduce allo studio dei terremoti; un plastico attivo spiega come si forma l’acqua minerale San Gemini. Scavando in una vasca, riempita di palline di plastica, si possono recuperare modelli di ossa fossili, per poi identificare l’antico animale umbro ormai estinto al quale sono appartenute.
Laboratori didattici
Il Geolab è uno spazio nel quale è possibile la manipolazione diretta dei materiali esposti. A questa caratteristica si è voluta aggiungere l’esperienza diretta e la ricerca scientifica. L’attività di laboratorio è strutturata in diversi percorsi tematici.
Pagine scritte nella roccia: le rocce sono le uniche testimonianze di un’antica e lenta storia che si perpetua fino ai nostri giorni, fatta di sedimentazioni, eruzioni e sconvolgimenti all’interno della terra. Interessante è quindi il loro studio e il loro riconoscimento in base alle caratteristiche macroscopiche che presentano: colore, durezza, peso e tessitura.
I fossili: la scienza che studia la vita del passato, la paleontologia, ha il potere di riportarci indietro nel tempo, in un mondo fatto di strani animali e piante. I fossili sono l’unico elemento per capire l’eterno pulsare della vita e il continuo divenire del pianeta.
Descrizione e rappresentazione del paesaggio, la geografia e topografia: lo studio delle forme del paesaggio per la costruzione di una carta geografica.
Le avventure di Teo il trilobite e Minnie l’ammonite: attraverso il racconto delle avventure del trilobite Teo e quelle della tiranna ammonite, i bambini scoprono le diverse fasi evolutive degli esseri viventi, anche con la realizzazione di fossili (colorandoli e ritagliandoli) e la collocazione nelle diverse ere geologiche riportate sul tappeto.
La scienza a casa nostra: il filo conduttore di questo laboratorio è il racconto dell’esperienza quotidiana attraverso gli occhi dello scienziato. Con una serie di esperimenti, si potranno conoscere alcuni fenomeni che, pur sembrando scontati, inconsapevolmente ci introducono alle leggi della fisica che li regolano.
Nella storia della formazione dei borghi storici italiani, è noto che sia arrivato un momento in cui da semplici strutture difensive spesso a presidio di vie di comunicazione, essi siano poi diventati veri e propri snodi commerciali, spesso specializzati in peculiari produzioni. A quel tempo, la differenza tra artisti e artigiani era piuttosto labile; il giudizio di valore su alcune capacità umane – come la pittura e la scultura – piuttosto che su altre, sarebbe arrivato solo nel Cinquecento, generando a sua volta una gerarchia di classi nelle produzioni artigiane.
Guardando tuttavia a Deruta – alle sue decorazioni, ai suoi fregi e ai suoi inserti di ceramica – spesso si perde la cognizione di cosa sia l’arte e cosa l’artigianato. Basta fare una passeggiata per le vie della piccola cittadina per rendersi conto di quanto la ceramica sia pervasiva di queste contrade, e di come quella che era a tutti gli effetti un’arte si sia trasformata in una forma di artigianato non tanto per un’inferiorità nei confronti di discipline “nobili” come la pittura e la scultura, quanto per la sua capacità di essere popolare.
Le strade della tecnica
La parte sud di questo comune che presidia il fiume Tevere è dominata da una stella che, impiantata nel terreno come un meteorite caduto dal cielo, rappresenta una figura femminile. Realizzata dagli allievi della Scuola Internazionale d’Arte Ceramica Romano Ranieri, inaugura la via Tiberina, incorniciata da prunus dai colori saturi, da cui si dipartono numerose stradine laterali dai nomi suggestivi quanto testimoni di una tradizione vecchia di secoli, in cui la specializzazione era tale da generare addirittura dei segreti professionali.
L’opera realizzata dalla Scuola Internazionale d’Arte Ceramica Romano Ranieri, all’ingresso di Deruta
La serie di vie che si intersecano a pochi metri dalla superstrada ha a che fare con le diverse fasi della produzione delle ceramiche artistiche che di questo luogo sono caratteristiche. Via dei Fornaciai, dei Tornianti, dei Modellatori, degli Stampatori, ma anche dei Pittori e dei Decoratori, fanno riferimento alla lavorazione della materia prima –l’argilla, a cui è dedicata una via nella parte nord – prima impastata in modo che le bolle d’aria e la compattezza non facciano aprire delle crepe sul prodotto finito, e poi modellata. In base alla complessità e alle fattezze del prodotto da ottenere, si avrà una modellazione a colombino – nel caso delle coppe – a lastre, a stampo –usato principalmente per i piatti – o al tornio –per vasi, lampade o addirittura piatti da portata.
Decorazioni cittadine, Deruta
Ai tornianti è dedicata un’intera via perché utilizzare il tornio -almeno quello a pedale – era sinonimo di un alto grado di specializzazione: l’oggetto doveva essere creato a partire da un unico panetto di argilla, il che significava che l’artigiano doveva essere in grado di prevedere quanta ne potesse occorrere per dare vita ad un certo oggetto con una certa forma e con un certo spessore. La difficoltà stava poi nel mantenere costante la velocità di rotazione del tornio, in modo da concedersi il tempo necessario a modellare la materia, a scavarla, ad allungarla e a contorcerla, per donarle proporzioni equilibrate e affusolate. La diffusione dei torni elettrici non ha poi cambiato così tanto lo stato delle cose: quello del torniante è un lavoro difficile e altamente specializzato, al pari di quello dello stampatore, che deve essere in grado di creare uno stampo in gesso, formato da un pezzo unico o addirittura da molteplici, per riprodurre un prototipo assegnatogli, senza ovviamente rompere il manufatto al momento del distacco.
Firme illustri
Una piccola fornace per la ceramica a lustro, conservata nel chiostro del Museo della Ceramica, Deruta
Continuando a camminare, via dei Decoratori incontra un quartiere le cui strade sono dedicate a personalità più o meno note che hanno scritto la storia del piccolo borgo umbro.
Via Francesco Briganti è la prima: questo notaio derutese fondò nel 1898 il Museo della Ceramica donando pezzi di sua proprietà, ma –cosa ancora più importante – finalizzò la ricerca storico-filologica alla creazione di laboratori dedicati agli artigiani. Alla Pinacoteca Comunale di Deruta restano invece una quarantina di opere di un altro filantropo, Lione Pascoli, che, appassionato di collezionismo, era riuscito a raccogliere ben trecento opere di arte minore, tra cui nature morte, battaglie, bambocciate. La via a lui dedicata si interseca con quella che porta il nome di uno dei più grandi promotori della cultura ceramica degli inizi del XX secolo: Alpinolo Magnini, a cui è dedicato anche il liceo artistico locale, che contribuì dapprima ad integrare la collezione del museo con disegni ad acquerello di maioliche antiche, poi a rinnovare la ceramica a lustro in stile raffaellesco basandosi su un’antica ricetta. Magnini fu anche direttore tecnico-artistico della Società Anonima Ceramiche, della Società Maioliche Deruta e della CIMA –Consorzio Italiano Maioliche Artistiche; per ammirare però edifici che ne portano il nome, è necessario inerpicarsi lungo le strette vie del borgo vero e proprio. Da via Magnini si svolta dunque a destra e si oltrepassa via Nicolò di Liberatore, meglio conosciuto come L’Alunno a causa di un errore del Vasari: quest’ultimo infatti scambia l’iscrizione alumnusfunginie per un soprannome, mentre ne indicava soltanto la provenienza folignate. Resta il fatto però che il pittore, famoso per le sue teste ritratte dal vivo, sia l’unico artista del Rinascimento umbro ad essere citato dal famoso biografo degli artisti. Insieme al suocero fu autore, nel 1458, della Madonna dei Consoli, conservata alla pinacoteca comunale di Deruta.
Dettagli della Chiesa di San Francesco da Chiostro del Museo della Ceramica, Deruta
Una struttura urbanistica particolare
Salendo ancora e passando sotto il vecchio semaforo sospeso che caratterizza il quartiere chiamato borgo –dal nome della strada che lo taglia a metà, via Borgo Garibaldi, incorniciata da alberi e da un muro litico glassato di decori in arabesco e dalle mattonelle degli artigiani locali – sulla sinistra si apre una maestosa scalinata: domina l’intero paesaggio sottostante, infilandosi poi sotto un arco abbellito da piatti decorati e brocche incastonate nella pietra.
Una delle porte di accesso al borgo
Alzando lo sguardo, si notano alberi di nespole pendere da terrazzamenti posti ad un livello ancora superiore: questo è un tratto caratteristico di Deruta, dove l’irregolarità e l’asimmetria delle costruzioni si sposano con gli innumerevoli livelli del tessuto urbano, a volte difficili da indovinare.
Camminando però tra viuzze anguste ed erte, spesso cieche, è possibile individuare edifici storici e altri dall’aspetto quanto mai folkloristico: è il caso della Società Anonima Maioliche sopracitata, caratterizzata da un’elegante entrata in stile Liberty che si apre tra edifici dai tratti pressoché comuni, che risente però dell’incuria e degli sbalzi termici. La maiolica è infatti soggetta a fratture e distaccamenti, nel momento in cui è esposta alle intemperie.
Le pareti corazzata dell’Antica Fornace, Deruta
Portoni fregiati e facciate punteggiate da figure di donne, ci conducono ai piedi della seconda tipologia di edificio, quella più caratteristica: tra tutte le fornaci disseminate nel tessuto urbano, sicuramente quella antica è una costruzione dai tratti pittoreschi, spesso grotteschi, composta com’è da squame di ceramica di recupero. Le spioventi pareti esterne sono infatti ricoperte di mattonelle, piatti, coperchi o addirittura di semplici frammenti, al punto da donarle l’aspetto di una burlesca fortezza.
Dettaglio delle pareti esterne dell’Antica Fornace
È difficile distogliere lo sguardo dalla visione d’insieme degli innumerevoli frammenti, ma via El Frate – soprannome di Giacomo Mancini, altro grande pittore di coppe e piatti con soggetti tratti da Le Metamorfosi di Ovidio (XVI secolo) – ci aspetta.
Dopo una breve salita, si arriva all’Istituto Statale d’Arte AlpinoloMagnini, anch’esso abbellito da un caratteristico fregio. A fronteggiarlo, Piazza dei Consoli, dalla forma allungata di un viale, sul quale ogni anno si disputa il caratteristico Palio della Brocca. Vi si aprono lo scarlatto Municipio e la Chiesa di San Francesco, ristrutturata con la locale pietra scura, un tranquillo gigante che sembra coccolare la piazza, soprattutto nella parte terminale, dove gli spazi si riducono e comprimono. Questo snodo è di particolare bellezza: a differenza di molte chiese tipiche dell’Italia centrale, il maggiore edificio religioso di Deruta ha un’entrata un po’ in sordina, posta com’è lungo una via piuttosto stretta e discosta rispetto alla spaziosa Piazza dei Consoli. Questa ombrosa via conduce altresì al placido chiostro del Museo della Ceramica, dove spiccano una piccola fornace per la ceramica a lustro e un elce dalle ombrose fronde.
Materiali pregiati
A malincuore abbandoniamo le tranquille mura del complesso per riscendere a valle; attraversiamo un giardino pubblico di rara bellezza, una sorta di balcone su Deruta dove persino le panchine e la fontanella sono decorate con gli arabeschi tipici dell’artigianato artistico locale. Una serie pressoché infinita di scalette ci permette di scendere poi attraverso gli innumerevoli livelli su cui si sviluppa il borgo, fino a giungere alla fine di via Fratelli Maturanzio, una coppia di artisti del XVI secolo la cui memoria si perde ormai nelle pieghe del tempo.
Le splendide panchine decorate dei giardini pubblici, Deruta
A fare da tappo alla discesa, la Chiesetta di Madonna delle Piagge che, dopo qualche centinaia di metri, lascia spazio a due significative vie: via Verde Ramina e via della Zaffera. Il primo, insieme al bruno di manganese, è il colore della ceramica arcaica, caratterizzata da motivi geometrici, floreali o zoo-antropomorfi; il secondo trae il proprio nome dallo zaffiro, ovvero il colore blu che, durante la cottura, si gonfiava, restituendo motivi vegetali, emblemi e creature fantastiche a rilievo. È importante comprendere il procedimento di decorazione del biscotto, ovvero del pezzo ottenuto dopo la prima cottura, perché in questa fase i colori cambiano. Dopo essere stato smaltato e decorato, il pezzo viene cotto una seconda volta in modo che i colori vetrifichino e assumano la loro reale tonalità: il verde ramina da nero diventa del caratteristico pallido verde, mentre il blu resta uguale, ma temperature troppo elevate fanno sciogliere l’ossido di cobalto, eliminando il decoro.
Scorcio di Deruta da via El Frate
Ci sono anche altre tecniche di decorazione, di cui sono testimonianza le vie che fendono la parte nord di Deruta: via del Mosaico, spesso dorato in oro zecchino, via del Riflesso, via dei Lustri – di cui fu innovatore il già citato Alpinolo Magnini – via del Raku, che lascia spazio a tradizioni ceramiche d’oltremare, via dell’Arabesco, del Raffellesco e via dell’Engobbio, che fa il paio con via del Bianchetto. Queste ultime due sono tecniche strettamente connesse: il bianchetto è l’altro nome della mezza maiolica, e consiste nel rivestire l’oggetto con l’ingobbio (o engobbio), cioè uno strato di argilla liquida e bianca, poi decorata o incisa. Questo procedimento veniva adottato quando ancora non si usava la cottura a biscotto e lo smalto a base di stagno risultava troppo costoso. La cottura avveniva solo una volta, dopo che l’oggetto era stato rivestito con un sottile strato trasparente.
Significativa è la presenza di via dell’Argilla che si inerpica verso le colline ancora poco urbanizzate che gli guardano le spalle: non è difficile immaginare generazioni e generazioni di ceramisti reperire la materia prima alle falde di queste alture, come pure nei depositi alluvionali del grande fiume Tevere che scorre poco più in basso.
Il mese di maggio è molto sentito dai cittadini di Allerona per l’evento che più di tutti li rende orgogliosi delle loro radici: i Pugnaloni.
La terza domenica di maggio, gli Alleronesi festeggiano infatti Santo Isidoro, patrono degli agricoltori; un uomo dalle umili origini che si è guadagnato la santità grazie una vita dedicata alla preghiera, il duro lavoro e la condivisione con le persone più sfortunate e meno abbienti.
L’origine
Nei Pugnaloni di Allerona sono evidenti gli adattamenti da parte del Cristianesimo di un rito propiziatorio dalle origini pagane.
Il termine Pugnalone potrebbe derivare da “pungolo”, un bastone munito a un’estremità da un puntale di ferro, utilizzato per sollecitare i buoi a lavorare più alacremente, dall’altra da un raschietto che gli aratori usavano per pulire l’aratro dalle zolle.
Altre fonti lo fanno risalire al verbo latino pugnare, che significa combattere, connessione che possiamo trovare piuttosto nell’omonima festa del paese di Acquapendente, nella provincia viterbese.
L’accezione legata alla battaglia, che ad Acquapendente viene celebrata come riconquista della libertà da parte del popolo – il quale, armato con forconi e pungoli, vinse contro l’esercito di Federico Barbarossa – è poco probabile abbia ispirato la rievocazione di Allerona, associabile, in maniera più plausibile, allo strumento agricolo.
Il rito moderno
Tradizionale pugnalone di Allerona
Ne è testimonianza anche la rappresentazione moderna: si tratta di aste in legno di pioppo alte circa tre metri, sormontate da una gabbia ovoidale, formata da fruste o verghette flessibili di legno e somigliante a una grossa rocca per filare. La gabbia è decorata con nastri dai colori vivaci e con fiori freschi fissati sulla sommità, racchiusi in un mazzo compatto a forma di pomo. Dentro la gabbia si possono trovare formaggi freschi, fiaschette di vino, arnesi per lavorare i campi, piccoli strumenti di legno e bigliettini con motti e proverbi sulla vita contadina e fotografie della famiglia del portatore del Pugnalone.
Nei carri, che ogni anno sfilano nelle strade del centro del borgo, è presente la vita agreste e la scena del miracolo di Sant’Isidoro, riprodotto in miniatura; un vero e proprio presepe realizzato con statuette d’argilla vestite con abiti tradizionali. L’evento vede come scena centrale il santo, intento a pregare sotto l’ombra di un albero e due forme angeliche che lo sostituiscono trainando al suo posto il carro dei buoi; ecco dunque, come Isidoro sia diventato, grazie a questo evento, patrono del mondo agricolo, e come la sua memoria sia legata, in Italia e in Spagna, ai riti che celebrano la vita nei campi.
I carri sono fabbricati interamente, come vuole tradizione, dagli Alleronesi, i quali ogni anno con i loro quartieri competono alla realizzazione del carro vincitore. I Pugnaloni più belli vengono poi premiati da una commissione e restano in esposizione, per l’intera giornata, nel centro storico; ma mentre un tempo erano i portatori stessi ad offrire a chi partecipava le primizie contenute nei Pugnaloni, oggi sono piuttosto i quartieri alleronesi ad organizzare, nel pomeriggio, insieme alla rievocazione degli antichi mestieri, una più moderna degustazione di prodotti tipici alimentari.
Riti parenti
Sfumature simili si possono trovare in alcune tradizioni straniere riguardanti le festività del mese di maggio; una di queste vedeva infatti l’usanza di portare in villaggio un enorme albero, adornato con i frutti della terra – animali e piante – come ringraziamento alla divinità, ritualità legata al concetto elementare di magia simpatica. Era un gesto molto caro al contadino che, offrendo i primi prodotti della terra a questa entità protettrice della natura, pensava di ricevere in cambio una maggiore fertilità.
Un altro esempio lo possiamo trovare in alcuni riti dell’epoca classica come la celebrazione dei Misteri Eleusini, che si celebrava proprio nei primi mesi di primavera. Anche durante questa festa venivano offerte le primizie della terra, ma per placare la dea dell’agricoltura Demetra, divinità delle messi che, affranta dal ratto della figlia Persefone tenuta prigioniera nell’oltretomba, aveva deciso di condannare l’umanità all’inverno eterno.
Il culto dello spirito arboreo
Una particolare connessione che possiamo trovare all’interno di queste tradizioni popolari del centro Italia è il culto dello spirito arboreo, ancora oggi celato tra le pieghe di queste feste cristiane.
Rievocazione della vita contadina
Fin dall’inizio dei tempi l’uomo preistorico, che spesso non sapeva dare spiegazione agli strani fenomeni che accadevano intorno a lui, creava una divinità onnipresente in tutto ciò che era selvaggio e misterioso. Con il passare del tempo, però, una nuova idea si fece largo: l’albero non veniva più visto come la divinità, ma come la sua dimora. Lo spirito arboreo invece di essere considerato l’anima di ogni albero, diventò quindi quella protettrice della foresta e dei campi. A questo si potrebbe ricollegare l’usanza di trasportare nel centro abitato un albero decorato: altro non era che un modo per portare una parte dello spirito che ci risiedeva e farlo diffondere tra la gente, assicurando fertilità e prosperità.
Una voce potente e squillante quella di Antonella Falteri, tanto da conferirle il soprannome de “la Mina perugina”. Ma Antonella è molto di più. È un’artista poliedrica che, nel corso della sua carriera, ha saputo personalizzare stili musicali estremamente diversi.
L’eremo di Santa Maria delle Carceri ha suscitato e suscita descrizioni suggestive, al limite del lirismo, in scrittori che in epoche passate lo visitarono e in chi oggi si accinge a tracciarne la storia o a suggerirne un percorso guidato.
Un luogo affascinante
Un francescano belga, di cui rimane ignota l’identità e che lo visitò all’inizio del Settecento, definisce l’eremo «un deserto estremamente consacrato»[1]. Un secolo più tardi il giornalista e scrittore Thomas A. Trollope scrive «Il monastero […] è veramente una cosa rara. Una cornice sporgente di roccia, più dura e resistente all’azione del tempo dello strato sottostante».[2] Agli inizi del Novecento il poeta Olave M. Potter fotografa così il luogo: «una propria ruga sul fianco del Monte Subasio, […] un piccolo mondo di sogni e di dolci memorie».[3] Ancora oggi Enrico Sciamanna non può resistere dal fare dell’eremo una descrizione poetica: «le Carceri sono un occhio bianco nel sempreverde dei lecci del bosco mediomontano del Subasio. Un occhio sempre aperto sul mondo sottostante e verso il cielo».[4]
Il nome
Eppure il nome di questo luogo di ascesi eremitica sembra contrastare con l’incanto e le suggestioni poetiche suscitate nel visitatore di ogni tempo: Carceri; in realtà carcer come sinonimo di heremus lo troviamo già usato in documenti del XIII secolo a significare la volontaria “carcerazione” cercata da san Francesco e dai suoi seguaci, o forse il nome è da connettersi agli anfratti eremitici che tanto assomigliano a carceres.[5]
La storia
La storia dell’eremo di Santa Maria delle Carceri ha il suo inizio con la scelta del luogo da parte di San Francesco che individuò le vicine grotte di origine carsica come luogo ideale di mistica ascesi, tanto più che vi si trovava un piccolo oratorio che proprio il santo intitolò alla Madonna.[6] L’ambiente non dovette durare in questo modo a lungo e già nella seconda metà del XIII secolo cominciarono a edificarsi umili costruzioni in prossimità delle grotte eremitiche che possono essere individuate nel tratto orizzontale elevato parallelamente alla cappellina dedicata alla Madonna. Da sempre le Carceri rappresentano un luogo fondamentale per la religiosità francescana.
Il complesso
La cella
Da un voltone si accede a una suggestiva terrazza di pianta triangolare, detta “Il chiostrino dei frati”, che si affaccia a strapiombo sulla roccia dove è costruito il convento delle Carceri, formato da due braccia che si incrociano ad angolo retto. Sopra la porta del convento è visibile il monogramma di San Bernardino; all’interno si trovano il refettorio e al piano superiore il dormitorio con le cellette dei frati. Dal chiostro del convento si accede alla cappella di San Bernardino sulla porta della quale è visibile un’iscrizione che ricorda il nome dato da san Francesco alla chiesina primitiva. La cappella è illuminata da un’unica finestra chiusa da una vetrata francese del XIII secolo, sulla quale è raffigurata una Madonna col Bambino, posta qui in epoca recente. Segue la primitiva cappella di Santa Maria delle Carceri scavata nella roccia, sopra l’altare della quale è visibile l’affresco raffigurante la Madonna col Bambino e San Francesco, realizzata da Tiberio d’Assisi nel 1506 sopra una Crocifissione duecentesca. Accanto vi è il coretto dei frati con gli stalli in legno risalenti al periodo bernardiniano.
Scendendo una ripida scala si arriva alla grotta di San Francesco, ora divisa in due piccoli ambienti: nel primo vi è il giaciglio di nuda roccia dove il poverello riposava, nell’altro una piccola cella dove egli si ritirava in meditazione. Usciti all’esterno è visibile anche se molto consunto un affresco raffigurante la Predica agli uccelli, mentre nel terreno una lastra con il foro attraverso il quale si intravede il fondo del burrone che si dice aperto dal demonio, che si racconta cacciato dal santo luogo da frate Rufino. Salendo per una breve rampa si raggiunge la cappella della Maddalena, luogo di sepoltura del beato Barnaba Manassei. Nella selva sovrastante si trovano le grotte dei beati Rufino e Masseo. Oltrepassato un ponte è visibile la statua bronzea di San Francesco che libera le tortorelle realizzata a fine Ottocento da Vincenzo Rosignoli e da qui si dipana il viale alberato al termine del quale si apre, nella roccia, un teatro utilizzato per le funzioni liturgiche a beneficio dei pellegrini. Scendendo per un ripido viottolo si accede alle grotte eremitiche di frate Leone e dei primi seguaci di san Francesco.[7]
Testi di riferimento Guida di Assisi e de’ suoi dintorni, Tip. Metastasio, Assisi 1911, pp. 47-49.
M. Gatti, Le Carceri di San Francesco del Subasio, Lions Club di Assisi, Assisi 1969.
P.M. della Porta-E. Genovesi-E. Lunghi, Guida di Assisi. Storia e arte, Minerva, Assisi 1991, pp. 175-178.
E. Lunghi, Santa Maria delle Carceri, in Eremi e romitori tra Umbria e Marche, Cassa di Risparmio di Foligno, Foligno 2003.
E. Sciamanna, Santuari francescani minoritici. I luoghi dell’osservanza in Assisi, Minerva, Assisi 2005, pp. 60-68.
L. Zazzerini, Eremo di Santa Maria delle Carceri, in L. Zazzerini, In ascolto dell’Assoluto. Viaggio tra gli eremi in Umbria, Edimond, Città di Castello 2007, pp. 2-9.
[1] L’anonimo belga visitò l’eremo tra il 1726 e il 1733 e ne lasciò una memoria manoscritta; il testo relativo è riferito da A. Sorbini, Assisi nei libri di viaggio del Sette-Ottocento, Editoriale Umbra – ISUC, Foligno 1999, p. 46. ⇑ [2] T.A. Trollope, A Lenten journey in Umbria and the Marches, London 1862, citato da A. Sorbini, cit., p. 131. ⇑ [3] O.M. Potter, A little Pilgrimage of Italy, London 1911, riferito da A. Brilli-S. Neri, Alla ricerca degli eremi francescani fra Toscana, Umbria e Lazio, Le Balze, Montepulciano 2006, pp. 23-24. ⇑ [4] E. Sciamanna, Santuari francescani minoritici. I luoghi dell’osservanza in Assisi, Minerva, Assisi 2005, p. 68. ⇑ [5] Cfr. M. Sensi, L’Umbria terra di santi e di santuari, in M. Sensi-M. Tosti-C. Fratini, Santuari nel territorio della Provincia di Perugia, Quattroemme, Perugia 2002, p. 75. ⇑ [6] Un’iscrizione quattrocentesca posta sull’arco della porta della chiesetta recita “Sancto Francesco puose a q[u]esta chapella el nome di Santa Maria”. Per un’attenta disamina della stratificazione costruttiva delle Carceri si rimanda a M. Gatti, cit., pp. 35-65. ⇑ [7] Per una descrizione puntuale delle Carceri si rimanda a P.M. Della Porta-E. Genovesi-E. Lunghi, Guida di Assisi. Storia e arte, Minerva, Assisi 1991, pp. 175-178. ⇑
«ScheggiAcustica nasce dalla volontà di valorizzare i luoghi più particolari e affascinanti del territorio di confine tra l’Umbria e le Marche, molto bello ma poco conosciuto».
L’ottava edizione di ScheggiAcustica – I Luoghi da Ascoltare andrà in scena dal 5 al 9 agosto nello scrigno dell’entroterra fra Umbria e Marche. Il format conferma cinque giornate con eventi e protagonisti, dove cruciale è la simbiosi tra luoghi, musica e pubblico che il festival ha sempre sperimentato, favorendo il coinvolgimento di artisti e spettatori in magnifiche location. Mattia Pittella, ideatore di ScheggiAcustica, e presidente dell’Associazione Musicale Culturale Tuttisuoni ci svela i segreti dell’evento.
Com’è nata l’idea di questo particolare festival?
Ho sempre desiderato realizzare un’esperienza che coniugasse la mia infanzia e adolescenza in Umbria e la mia formazione professionale in Nord Italia. Da qui anche l’idea di un’occasione per raccogliere giovani talenti e nuove energie rimaste finora inespresse e di ospitare tanta gente da fuori, anche stranieri, a partire dagli stessi artisti, che diventano i primi a scoprire le bellezze – ad esempio del Parco del Monte Cucco e di borghi come Pascelupo o il Castello di Frontone, giusto per citarne alcuni. Ho una grande passione per l’acustica, che deriva anche dal lavoro che svolgo. Di conseguenza ho sempre pensato che un modo per poter riscoprire questi luoghi fosse proprio quello di mostrarne le potenzialità acustiche. Un luogo su tutti è l’Abbazia di Sitria. È magica. Un luogo dove puoi parlare tranquillamente con un’altra persona a 20 metri di distanza! Ricordo che, durante una mia esibizione in questo scrigno meraviglioso, mi resi conto che la sua acustica era eccezionale. Così, una decina di anni fa, nacque tutto…
Tre parole per descrivere quest’evento?
Va da sé: Luoghi da Ascoltare!
Sono otto anni che va in scena questo festival. Cosa lo caratterizza?
Valorizza proprio i luoghi più belli e insoliti, rendendoli i veri protagonisti del festival, con un punto di partenza del tutto particolare: l’acustica degli stessi. A quanto pare sembra che il concept funzioni ogni volta un po’ di più, tra l’altro anche con alcuni tentativi di imitazione provenienti da più parti. In più, il territorio di confine tra Umbria e Marche, può – e deve essere – una risorsa turistica e culturale per entrambe le regioni e il nostro obiettivo è fare il possibile affinché ciò accada: quando certi luoghi così belli vengono conosciuti o riscoperti, poi, in genere, “funzionano”.
Qual è il filo conduttore di quest’anno?
Il viaggio: in un festival così legato al territorio, c’è la possibilità di viaggiare attraverso i suoni e le suggestioni di diverse culture, spaziando dall’Africa all’Oriente, passando per una ballata messicana, un tango argentino e un valzer siciliano. Quindi è un percorso che porta con sé musica folk e popolare da tutto il mondo.
Quali sono gli eventi da non perdere?
È difficile dire quale evento sia imperdibile rispetto ad altri… Ogni momento è pensato come un “incastro” ideale tra luogo-evento-partecipanti. Sicuramente la giornata di domenica 6 agosto sarà molto intensa, perché si comincia la mattina presto con un’escursione nel Parco del Monte Cucco e nella zona del Catria verso Fonte Avellana, poi c’è lo yoga nella splendida Abbazia di Sitria, un seminario di canto e voce, steet food all’aperto e un concerto nel tardo pomeriggio a Sassoferrato.
L’ospite più atteso?
Forse l’ospite imperdibile in assoluto sarà di scena mercoledì 9 agosto al Castello di Frontone: Gafarov e la sua ensemble, La stella d’Oriente, musicista azero molto noto e davvero interessante per concludere il giro del mondo di ScheggiAcustica 2017. Ma, appunto, per concluderlo al meglio prima andrebbe intrapreso in ogni sua tappa.
Ci sono novità rispetto alle passate edizioni?
Gli eventi collaterali mattutini e pomeridiani: dal 2016 abbiamo intrapreso un nuovo approccio alla programmazione, cercando di far vivere i luoghi in modi e orari diversi rispetto a quelli consueti. Quest’anno c’è una novità assoluta, come l’escursione mattutina da Isola Fossara all’Abbazia di Sitria passando per i sentieri e sfiorando anche Fonte Avellana. Oppure le pratiche yogiche e lo street food con piadineria, oltre alle ormai consolidate master class. Come artisti, oltre a Gafarov, stupirà Camilla Barbarito con musiche, canti e balli popolari da ogni latitudine. E per i luoghi, oltre ai confermati, riscopriremo il centro storico di Scheggia, dove manchiamo dall’edizione 2014 e, per la prima volta, saremo al Chiostro di Palazzo Merolli a Sassoferrato. In un’edizione dedicata soprattutto alla musica folk e popolare, l’itinerario del festival non può che virare verso scenari più “centrali” rispetto agli abitati principali dei Comuni che andrà a toccare.