Nel Parco del Monte Subasio, a metà strada tra Armenzano e Collepino, esiste un borgo incantevole, sconosciuto a molti: San Giovanni di Collepino, “il paradiso di pietra rosa”.
Si tratta di un castello le cui mura, che cingevano il centro abitato, oggi non esistono più. Pare che qui San Francesco abbia compiuto uno dei suoi miracoli donando la vista a Beatrice, la sorella del custode del castello, la quale, in seguito, si fece suora presso il Monastero di Vallegloria.
San Giovanni di Collepino. Foto di Marta Alunni
San Giovanni è un luogo di pace e silenzio, il rifugio perfetto per staccare la spina dal traffico e dal caos delle grandi città. Non ha nulla di turistico: non ci sono negozi, generi alimentari, bar, ristoranti, nessun servizio. Ma si respira l’aria buona e si fanno quattro chiacchiere con le poche anime che ci vivono. In realtà gli abitanti di San Giovanni trascorrono qui solo una parte dell’anno, trattandosi per lo più di seconde case. Una signora che gestisce un b&b mi ha raccontato che molte persone anche dall’estero scelgono di passare qualche giorno nel borgo, proprio per rigenerarsi, consapevoli del fatto che è impossibile trovare una rete wi-fi a cui connettersi. Anzi, chi viene qui, cerca proprio questo: un po’ di tempo per disintossicarsi da tutto. Mi ha poi raccontato che sotto Natale, per festeggiare San Giovanni il 27 dicembre, il castello è avvolto da un’atmosfera ancor più affascinante, perché ogni sua viuzza è illuminata da candele e luci di ogni sorta. Tuttavia, la festa vera e propria si svolge a fine giugno, in occasione di San Giovanni Battista.
L’aspetto del borgo, come lo vediamo oggi, è dovuto ai lavori di restauro avvenuti dopo il terremoto del 1997. Le case in pietra, la piccola chiesa, i gatti che si riposano all’ombra delle siepi, i fiori sui davanzali, il cinguettio degli uccelli fanno di San Giovanni un gioiello di cui prendersi cura, che mi auguro rimanga così, autentico e solitario.
Come raggiungere San Giovanni di Collepino…
Da Assisi, si esce da Porta Perlici, percorrendo la SS. 444 e poi si svolta a destra in direzione Costa di Trex. A piedi è possibile percorrere invece uno dei numerosi sentieri del Monte Subasio, il numero 353 chiamato anche sentiero dei fossi che, dagli Stazzi, passa per Costa di Trex, Armenzano e infine giunge a San Giovanni.
Assisi non è un borgo sconosciuto, Assisi è famosa in tutto il mondo e solo percorrendo le sue vie e le sue piazze, se ne comprende il motivo.
Adagiata sulla collina, protetta alle spalle dal Monte Subasio e affacciata sulla valle umbra, è una città che, ammirata da lontano, sembra proprio un presepe. Date le sue dimensioni, molti sono convinti che bastino poche ore a visitarla. Una sosta veloce alla Basilica dedicata a Santa Chiara, una visita più approfondita di San Francesco e si pensa di aver visto tutto. Non è così. Ecco perché ho deciso di dedicarle lo spazio che merita e creare un itinerario approfondito, della durata di tre giorni, per permettere al turista curioso di cogliere tutte le ricchezze che si celano tra i suoi vicoli medievali e nei sotterranei dei suoi palazzi.
Primo giorno: l’Assisi romana e i principali musei della città
Assisi è innanzitutto una città romana ed è per questo che il percorso non può che prendere il via dalla visita dei resti di quel tempo. Partendo dalla parte più alta della città, ovvero Piazza Matteotti, è possibile raggiungere l’anfiteatro romano, di cui oggi si può osservare la forma originaria e dove tutt’intorno sorgono abitazioni di epoca medievale. Proseguendo la passeggiata e imboccando via del Torrione, si notano le rovine di un mausoleo (detto Torrione) e procedendo sempre dritto, a metà via sulla destra, si possono scorgere, nel giardino di una proprietà privata, alcune arcate che rappresentano i resti delle gradinate di un teatro romano. La visita prosegue verso piazza del comune, dove è situato il Tempio di Minerva che oggi ospita all’interno la Chiesa di Santa Maria sopra Minerva. Una volta visitati gli interni, il mio suggerimento è quello di recarsi presso lo IAT di piazza del Comune. È qui che si può prenotare l’Assisi Underground, un tour guidato che porta alla scoperta del foro romano, posto proprio nei sotterranei della Piazza, e delle due Domus romane: la Domus di Properzio e la Domus del Larario. La prima si trova sotto la Chiesa della Spogliazione e vi si accede proprio passando attraverso la cripta, mentre la seconda è situata sotto Palazzo Giampè. È una visita affascinante che consiglio di fare assolutamente, anche a chi non è appassionato di archeologia, perché le sapienti e appassionanti spiegazioni delle guide permettono di fare un vero e proprio tuffo nel passato, tra sarcofaghi, mosaici e ricche decorazioni.
Rocca Maggiore
Dopo aver dedicato parte della giornata alla visita dell’Assisi romana, si può proseguire andando alla scoperta di altri due musei importantissimi per Assisi. Il primo è anche il monumento laico più visitato della città: la Rocca Maggiore, facilmente raggiungibile a piedi. Si tratta di una fortezza medievale costruita nel 1365 per volere del Cardinale Egidio Albornoz. Il castello, ottimamente conservato, dall’alto delle sue torri offre una vista meravigliosa su tutta la vallata. Dopo una visita delle stanze interne del museo, si torna in centro, fino a raggiungere via San Francesco dove, all’interno di Palazzo Vallemani, è situata la Pinacoteca Comunale, in cui si possono ammirare affreschi medievali e rinascimentali provenienti da edifici civili e religiosi di Assisi e dintorni. Un tempo il palazzo ospitava anche il Museo della Memoria, una mostra sui trecento ebrei salvati grazie allo spirito dell’accoglienza francescana di Assisi. Da qualche anno la mostra è stata spostata presso il Santuario della Spogliazione.
Interno della Basilica Superiore
Secondo giorno: l’Assisi di Francesco e Chiara
L’itinerario del secondo giorno inizia dalla visita dell’Oratorio di San Francesco Piccolino, la piccola cappella dove si dice sia nato San Francesco. Da lì, imboccando vicolo Sant’Antonio, si giunge alla Chiesa Nuova, costruita sui resti della casa paterna di San Francesco. Sono conservati l’ingresso principale e le altre tradizionali porte della casa: quella degli ospiti e quella che immetteva al piano superiore. Si può inoltre ammirare la vecchia via della città, su cui si affacciava l’ingresso della casa. Quella via ora è dedicata a Pietro di Bernardone. Una volta visitata la casa natale del poverello e prendendo Corso Mazzini, si arriva alla Basilica di Santa Chiara. Non c’è nulla da dire, la piazza in cui si trova è una delle più belle, grazie anche all’ampio belvedere che offre un paesaggio mozzafiato, soprattutto al tramonto. La Basilica di Santa Chiara, oltre a contenere le spoglie della Santa, custodisce il Crocifisso originale di San Damiano, quello che parlò a San Francesco, incitandolo a lasciare la sua vita agiata per dedicarsi ai più deboli. La tappa successiva ci porta alla scoperta dell’imponente Cattedrale di San Rufino, dedicata al primo vescovo della città. All’interno è custodito il fonte battesimale in cui furono battezzati San Francesco e Santa Chiara. Oltre al Duomo consiglio di visitare il Museo Diocesano e la Cripta di San Rufino.
In estate è possibile anche salire in cima alla torre campanaria, da cui si gode di uno splendido panorama sui tetti di Assisi e sulla Rocca Maggiore. Ci si può concedere una breve sosta al bar che si trova di fronte alla Cattedrale, per poi rimettersi in cammino e raggiungere la meravigliosa Basilica di San Francesco. Il mio suggerimento è quello di evitare di passare per le strade principali questa volta, ma di inoltrarsi nel dedalo di vicoletti che si snoda a partire da via Santa Maria delle Rose. Qui è possibile fare una breve visita nell’omonima chiesa che dal 2000 ospita la mostra permanente Maria di Guido Dettoni. Una volta visitata l’esposizione, tramite via Capobove, si torna in una delle vie principali, via San Paolo che si trasformerà poi in via Metastasio. A un certo punto, lungo la via, sulla sinistra, si trova un grande arco con delle scalette che conducono alla Chiesa di Santa Margherita, dalla cui piazzetta si gode di una vista meravigliosa sulla Basilica di San Francesco. Una volta contemplato il paesaggio in un’atmosfera così pacifica da sembrare surreale, ci si dirige verso la chiesa che ha reso nota Assisi in tutto il mondo. Nella Basilica Superiore si ammirano affreschi di grande rilevanza, tra i più celebri vi sono quelli di Giotto, che raccontano la vita di San Francesco. La Basilica Inferiore è decorata da dipinti di alcuni tra più importanti pittori, come Cimabue, Lorenzetti e Sermei. Al suo interno è possibile visitare la tomba di San Francesco. Dopo aver visitato l’intero complesso, è doveroso concedersi un po’ di relax sotto il porticato della Piazza della Basilica Inferiore di San Francesco, provando a individuare la Basilica di Santa Maria degli Angeli tra il verde dei campi della pianura circostante che si può scorgere dalle inferriate. Sempre in questa piazza è presente l’ufficio informazioni del Sacro Convento, punto di riferimento da tenere a mente per chi ha intenzione di partecipare ad una visita guidata della Basilica con un frate.
I monumenti fuori le mura
L’ultimo giorno ad Assisi, lo dedichiamo ai monumenti fuori le mura della città. Anch’essi ci raccontano molto della vita di Francesco e Chiara. Il primo santuario da non perdere è l’Eremo delle Carceri. È qui che San Francesco si rifugiava in preghiera e si trova sulla strada che conduce al Monte Subasio, a circa 4 km dal centro storico. È possibile raggiungerlo anche a piedi, prendendo il sentiero numero 350 che parte da Porta Cappuccini e arriva fino a Spello. Dopo essersi rigenerati in questo luogo mistico, ci si può dirigere verso il Santuario di San Damiano, la chiesa che venne restaurata da San Francesco e dove il santo scrisse il Cantico delle Creature. Sempre qui per un lungo periodo visse Santa Chiara. Anche questo posto è pervaso da un’atmosfera di serenità e di quiete, la natura circostante fa la sua parte rendendo San Damiano un’oasi di pace dove concedersi momenti di riflessione e spiritualità. Le ultime due tappe dell’itinerario non possono non includere il Sacro Tugurio di Rivotorto, luogo in cui visse San Francesco nel primo periodo della sua nuova vita e dove nacque l’ordine dei frati minori, e la Basilica di Santa Maria degli Angeli. È all’interno di quest’ultima che si trova la Porziuncola, la chiesetta in cui San Francesco fondò l’ordine dei francescani. Vi è poi la Cappella del Transito dove invece il Santo morì il 3 ottobre del 1226. Infine, dal chiostro si accede al Roseto, un giardino famoso per un episodio riguardante San Francesco. Pare che una notte, infatti, il Santo si rotolò nudo sul roseto spinoso per sfuggire alle tentazioni del diavolo. I fiori, narra la tradizione, al contatto con il corpo del Santo persero tutte le spine così da non arrecargli danno. Ancora oggi qui le rose nascono senza spine.
Un itinerario di questo tipo permette di conoscere a fondo la città ed è così che si tornerà a casa con ricordi vividi e racconti coinvolgenti che indurranno amici e parenti a organizzare al più presto una gita ad Assisi.
Monteluco è il bosco sacro del monte sopra Spoleto, coperto di faggi, lecci e carpini.
Lo hanno considerato sacro i Romani e poi i benedettini, lo hanno considerato sacro i francescani e anche molte signore; ma di questo ne parleremo più avanti. Il monte è stato amato dagli eremiti, che mille anni fa arrivavano a piedi fin lassù ed erano in stretto contatto con la natura e con il cielo.
Eremo di San Francesco
San Francesco non poteva tralasciare un luogo simile tanto che con i confratelli ha costruito un convento; poi vi passarono Michelangelo, Pirandello, il Gabibbo, la Sora Lella, Fiorenzo Fiorentini ed anche il tenore Beniamino Gigli. Non è necessario essere famosi per farsi prendere dal fascino del luogo.
Nel convento c’è ancora la stanzetta dove ha dormito il poverello d’Assisi, ma ci anche sono le celle dei frati che risalgono al 1218. Sono ambienti minuscoli e nudi, costruiti con una tecnica molto spartana; le pareti sono state costruite con i materiali che offriva il posto: due strati di vimini intrecciati, dentro i quali, come in un cesto, sono state versate le pietre, e sopra hanno dato una mano d’intonaco. Il letto, quando c’è, è un tavolaccio e il cuscino è un semplice pezzo di legno… del resto all’epoca di San Francesco si usava dormire sul duro, soprattutto quando c’erano non c’era altra scelta.
Tariffario delle camere
Durante la Grande Guerra
In seguito, durante la Prima Guerra Mondiale, toccò ai prigionieri austriaci di costruire la strada, e da allora l’eremo non è più stato tale. Nel 1921 è stato costruito uno chalet con camere sicuramente più confortevoli delle celle dei frati: talmente confortevoli da venire affittate a ore, a mezze ore e a quarti d’ora; la targa all’interno dell’Hotel Ferretti è lì a dimostrarlo. Era un luogo riservato in mezzo al bosco sacro, lontano da occhi indiscreti. Pochi anni dopo lo chalet divenne Hotel Ferretti e cambiò la destinazione d’uso. I proprietari dell’hotel collezionano moto d’epoca, alcune ancora funzionanti, e tra i memorabilia fa bella figura la locandina dell’Estate Spoletina del 1933. Vent’anni prima di Giancarlo Menotti, Spoleto aveva già una propensione per il festival.
Il bosco sacro
Il bosco di lecci è particolarmente bello e molto ben tenuto, ma descriverlo non è facile sapendo che Pirandello ha soggiornato lì nel 1924: il confronto è impari. Il bosco sacro è gestito con molta attenzione, senza confliggere con l’ecosistema.
Non c’è sottobosco, così le piante morte rimangono in sito per nutrire insetti, larve e quant’altro: cosa che è determinante per il corretto mantenimento del bosco.
La gestione del bosco, così come quella dei boschi attorno a Spoleto, è stata oggetto di grande cura anche in epoca romana: i Romani per istinto regolamentavano tutto, anche i boschi. Al centro del bosco sacro non può sfuggire un blocco di pietra calcarea, dove è incisa la inflessibile Lex Spoletina: gli alberi potevano essere asportati, abbattuti e rimossi solo nei giorni del sacrificio a Giove, mentre per i trasgressori era prevista una multa consistente e si faceva anche obbligo di offrire un bue in sacrificio a Giove. Nel III secolo a.C. i Romani si preoccupavano di preservare il bosco.
Lex Spoletina all’interno del Bosco Sacro di Monteluco
Papa Francesco ha acquistato terre in Umbria? Così sembra. Sembra, ma in realtà si tratta di una fake news, anche se tutto lascia credere il contrario.
Terre che fino al 1860 sono state sotto la giurisdizione dello stato della Chiesa adesso sono Del Papa. Un chiarimento si impone. Del Papa è il nome del titolare di una società che si chiama Terre Del Papa, la quale ha acquistato all’asta circa 300 ettari di terra nella zona del castello di Sismano, ad Avigliano Umbro. Papa Francesco non è della partita.
Quercia ballerina
Non è più della partita nemmeno il principe Corsini, che ha venduto all’asta quelle terre che un suo antenato aveva acquistato all’Asta della Candela nel 1607. Trecento ettari sono tanti e visti dall’alto sembrano immensi. Il colpo d’occhio si ha arrivando da un tratto della via Amerina: si esce dal bosco dopo la salita, dopo aver superato un ponte romano, dopo aver incontrato una quercia molto insolita che crede di essere un rampicante. Potenza della natura: insetti, parassiti e clima hanno trasformato una possente quercia in una gaia ballerina. Comunque, finita la salita si raggiunge la chiesetta della Mestaiola e lì si apre un panorama vastissimo che spazia da Todi a Terni, dai monti Martani al Terminillo.
Una nuova coltura di olivi
Su quelle terre si costruisce il futuro per rilanciare l’olio italiano. Il futuro ha l’aspetto di olivi piccoli, ma innumerevoli. Del Papa ne ha fatti piantare 400.000, rigorosamente allineati, che scendono da tutti i lati delle colline. Si tratta di un nuovo cultivar che non cresce molto, rimane piccolo favorendo la raccolta delle olive con le macchine. Questo cultivar ha delle caratteristiche totalmente diverse dai tradizionali olivi umbri. Non solo è piccolino, ma cresce e va a frutto in due anni soltanto, però avrà vita breve: vent’anni. Il panorama umbro cambierà molto passando dalla visione degli olivi secolari a questi giovanetti di corta esistenza. Il panorama cambierà, ma già tante volte è cambiato. All’epoca di San Francesco gli olivi erano pochi, poi a metà Ottocento Papa Pio IX ne ha fatti piantare 362.000. Poi è stata la volta della vigna. Venticinque anni fa il Sagrantino era un solo un vino locale, adesso è diventato famoso e le vigne si sono moltiplicate. Poi c’è stata la coltivazione estesa del tabacco, che adesso è molto ridotta. Insomma, l’aspetto della natura selvatica e addomesticata varia con il clima e con l’economia delle zone.
Questi piccoli olivi rappresentano il nuovo che avanza anche dal punto di vista dell’irrigazione. Il nostro clima è sempre più secco e il sole implacabile fa evaporare l’acqua d’irrigazione. La società che gestisce queste piante ha introdotto una tecnica d’irrigazione copiando quello che la natura fa già spontaneamente a Pantelleria. Le vigne di Pantelleria non vengono mai irrigate perché il terreno che sopra è polvere, venti centimetri più giù è umido. La vigna cresce bene malgrado la siccità e i venti fortissimi che battono l’isola.
Olivi Del Papa
La leggenda di Eurosia
Il terreno tra Avigliano Umbro e il Castello di Sismano si prestano a introdurre la nuova tecnica di irrigazione. Questi olivi saranno bagnati mediante sub-irrigazione, cioè l’acqua arriverà alla pianta da sotto terra, così manterrà il terreno umido e in inverno non gelerà. L’estremante nuovo si congiunge con l’estremamente antico di Pantelleria.
La zona è inoltre ricca di leggende, in particolare quella della Mestaiola di Santa Eurosia. La cappellina che si incontra viaggiando lungo la via Amerina è dedicata alla santa spagnola o forse slava Eurosia.
La leggenda vuole che, mentre i Saraceni sui monti Pirenei avevano già cominciato a torturarla, sia scoppiato un violento temporale e un fulmine sia caduto vicino alla ragazza senza farle niente. I Saraceni si spaventarono, ma continuarono il lavoro e la decapitarono. Da allora Eurosia, divenuta santa, è considerata la protettrice della grandine e dei fulmini e basta dire il suo nome per sedare le tempeste. Quindi la presenza della cappellina è quanto mai idonea per assicurare la sopravvivenza del nuovo impianto.
La città di Assisi è attraversata da un senso quasi tangibile di universalità e di apertura al mondo esterno. La storia di Assisi è una storia antichissima: l’Asisium nell’antica e potente Roma era la città dei ricchi mercanti, delle ville lussuose e delle terme.
Rosone della Basilica di San Francesco
Visitare Assisi significa immergersi contemporaneamente nella storia di epoca romana e medievale, ma anche entrare nel cuore della spiritualità e nei luoghi dove due giovani cambiarono la storia del cristianesimo e quella dell’arte.
Le antiche e monumentali chiese guidano i fedeli e i pellegrini lungo i loro viaggi e i rosoni, gli elementi più suggestivi delle facciate, ammaliano i visitatori grazie a semplici giochi di luci. La Basilica di San Francesco, vera e propria meraviglia architettonica della storia italiana, rappresenta l’eredità fisica del Santo. Fu costruita nel 1228, proprio in suo onore, a soli due anni dalla morte e canonizzazione, su iniziativa di Papa Gregorio IX e dal frate Elia di Bombarone.
La basilica sorge sul Colle dell’Inferno, antico nome del luogo, poiché nel periodo medievale era teatro di esecuzioni capitali. Da quando San Francesco venne canonizzato, questo luogo cambiò nome in Colle del Paradiso: tutto intorno infatti regna la pace e la gioia che si percepisce ha una dimensione quasi sovrannaturale.
Il grande rosone della basilica guida i visitatori non solo all’interno della chiesa, con le sue altissime volte a crociera e con il famosissimociclo di Giotto sulla vita di San Francesco, ma è anche alla cripta e alla tomba del Santo.
Il rosone infatti, con i suoi 7.5 metri di diametro e 15 metri di altezza, è il più grande del centro Italia. Dalla ruota un caldo fascio di luce penetra all’interno della basilica illuminando la navata. Inoltre è contornato dall’immagine dei quattroelementi cosmici e funzionava anche come orologio solare.[1]
Santa Chiara
Un secondo eccelso rosone è quello presente nella facciata della Basilica di Santa Chiara, simbolo della potenza e dell’immensità di Dio. Rispetto a San Francesco, il rosone di Santa Chiara presenta una maggiore simmetria radiale, formato com’è da due perfetti cerchi che si allargano verso il bordo esterno. «Oh, donna, non temere, perché felicemente partorirai una chiara luce che illuminerà il mondo».
La madre della Santa, recatasi a pregare nella cattedrale di San Rufino alla vigilia del parto, udì queste parole. La bambina fu infatti chiamata Chiara e battezzata in quella stessa chiesa. Il grande rosone, quasi a protezione di tutta la basilica, sembra richiamare il nome della Santa, creando giochi di profondità e colorati fasci di luce. L’esterno della facciata è caratterizzato da tre grandi contrafforti poligonali a forma di ampi archi rampanti, che rinforzano il fianco sinistro; la facciata invece, è realizzata a filari di pietra locale bianca e rosa.
Rosone della Chiesa di San Rufino
I tre grandi rosoni della chiesa di San Pietro dominano la piazza antistante, dove sorgeva un’antica necropoli romana. La chiesa, costruita dai benedettini nel X secolo, è stata rimaneggiata più volte fino alla ricostruzione definitiva del XIII secolo. La facciata, realizzata in pietra rossa del monte Subasio, ha una forma rettangolare; all’origine culminava con un timpano che fu abbattuto dopo il terremoto del 1832.
Nel registro inferiore tre grandi portali d’ingresso accolgono i fedeli, a cui corrispondono, nella seconda fascia, i tre rosoni. Le due fasce della facciata sono tra loro divise da un cornicione ad archetti pensili. L’interno della chiesa è diviso in tre navate: quella centrale è molto alta e senza finestre proprie, ma interamente illuminata dai fasci di luce che penetrano dal rosone centrale.
Elaborati e antichi rosoni sono presenti in una chiesa che rappresenta uno dei massimi capolavori dell’architettura romanica in Italia centrale: la chiesa di San Rufino. Essa infatti si affaccia in una splendida piazza, punto nevralgico e luogo di incontro del popolo e della società feudale del tempo. Le lesene dividono la facciata in tre parti, sottolineando che anche nello spazio interno, vi sono tre navate. La facciata è quindi suddivisa in tre ordini, scanditi da un finto loggiato e da cornici con archetti ciechi e pensili.
Tutto nell’architettura rimanda al numero tre: tre sono infatti i portali e le lunette sovrastanti, tre i rosoni e tre i telamoni, le possenti figure maschili che sostengono, sulle loro spalle, tutto il peso del rosone.
Chiesa di San Pietro
Il bellissimo rosone, tanto grande da rappresentare tutto il popolo di Assisi, mostra delle caratteristiche decisamente particolari: composto da tre giri di ruota è circondato da una ghiera di fogliame. Il primo giro, composto da archetti a tutto sesto e da colonnine, è abbastanza comune, il secondo invece è assolutamente straordinario: un motivo floreale continuo ed estremamente dinamico, con calici stilizzati e con un andamento serpeggiante dei petali. A completare l’elaborato rosone è un terzo giro di ruota ad archetti di derivazione islamica.[2] Ai lati sono presenti i quattro Evangelisti con elementi naturali del cosmo, enfatizzazione del concetto di Cristo luce e centro del mondo.
[1] L. Lametti, V. Mazzasette, N. Nardelli, Il rosone della basilica di San Francesco in Assisi. Funzione luminosa e allusioni simboliche, Gangemi Editore, 2012.⇑ [2] F. Santucci, La cattedrale di San Rufino in Assisi, Editore Silvana, 1999.⇑
E se il poverello di Assisi fosse stato un estimatore del buon cibo? E se, tra le tante pietanze, fosse stato goloso dei dolci? L’ipotesi non è così remota, come ci dimostrano diverse fonti documentarie. Ma ciò che dovremmo davvero chiederci è: possiamo biasimarlo?
San Francesco
Se è vero che molti dettagli del passato continuano a sfuggirci, è pur giusto riconoscere l’impegno di molti autori nel cercare di ricostruire alcuni aspetti che possano approfondire la Storia ufficiale, come gli studi sul clima o sulle abitudini alimentari dei nostri predecessori. Apparentemente di secondaria importanza, questo tipo di scoperte stanno gettando luce sui molti punti d’ombra che sospendono la linea del tempo, permettendo di guardare alle più grandi personalità del passato in maniera meno distaccata e con meno soggezione, accettando le loro idiosincrasie e debolezze di esseri umani.
Secondo le fonti agiografiche, nemmeno San Francesco, il santissimo poverello di Assisi, può esimersi da questo discorso. Sembra infatti che fosse un estimatore – pacato e moderato, certo – del buon cibo, in particolare dei dolci.
Un certo pasto, fatto di mandorle, zucchero, miele e altri ingredienti
L’aura di santità, coadiuvata dai principi della Regola francescana, rende piuttosto difficile credere che San Francesco sia stato anche solo umano, figuriamoci immaginarlo mentre si gusta dei manicaretti alle mandorle, zucchero e miele.
Tra le diverse lettere attribuite al Santo, però, ne spicca una rivolta a una certa madonna Jacopa (o Giacomina, o Giacoma) detta dei Sette Sogli (Jacoba de septem Soliis). Come ci riporta il Trattato dei Miracoli di Tommaso da Celano (portato a termine nel 1252-1253, anche se poi scomparso fino al 1899) la donna «era ammirata per l’illustre casato, per la nobiltà della famiglia, per le ampie ricchezze, per la meravigliosa perfezione delle sue virtù e per la castità vedovile»[1]: insomma, non era strano che Francesco, a cui era legata anche da una profonda amicizia, chiedesse di lei prima del sopraggiungere della fine.
Ma la richiesta che il frate assisano dettò nella missiva rivolta a Jacopa, vi sorprenderà – come d’altronde sorprese i fratelli che lo stavano vegliando presso Santa Maria degli Angeli. La donna avrebbe dovuto arrecare un panno di colore cinerino per coprire il corpo morente del frate, una sindone per il volto, un cuscino per il capo e uncerto piatto che molte volte gli aveva offerto durante i soggiorni a Roma: il mortariolum, un trito di mandorle, zucchero, miele e altri gustosi ingredienti[2].
La storia vuole che Jacopa sia giunta dal moribondo Francesco con tutto quello che questi aveva richiesto senzaperò aver mai ricevuto la lettera: è qui che sta il prodigio ed è qui che tutte le fonti che ne parlano concordano – non solo il sopracitato Trattato dei Miracoli, ma anche le Considerazioni sulle Stimmate[3], cioè la raccolta dei Fioretti del Santo, e Specchio di Perfezione[4], una compilazione della vita di Francesco datata 1318. Grazie a quest’ultima, sappiamo che Francesco, ormai privo di forze, di questo mortariolum riuscì a mangiarne ben poco.
Ma che cos’era questo dolce per il quale Francesco stravedeva?
Franco Cardini, ne L’appetito dell’imperatore[5], cerca di ricostruirne l’etimo, sebbene tale percorso a ritroso sia piuttosto incerto: mortariolum, esattamente come in mortadella o nel francese mortier, indicherebbe un cibo i cui ingredienti vengono a lungo pestati e amalgamati col mortaio. Nei documenti sopracitati, mortariolum diventa mostacciolo, un biscotto secco presente in diverse regioni d’Italia ma che, in Umbria, accompagna tradizionalmente le celebrazioni dedicate ai morti.
Madonna Jacopa
Bisogna però considerare due dettagli importanti: il primo è che la preparazione nostrana trae il proprio nome non tanto dal mortaio, quanto dal mosto di vino bianco che ne bagna l’impasto di farina e semi di anice. Il secondo riguarda invece madonna Jacopa, la donna a cui Francesco fa l’insolita richiesta, che appartiene a una nobile famiglia romana: è più probabile, quindi, che quelli richiesti da Francesco siano gli antenati di quei biscotti a base di farina, frutta secca, pepe, cannella, miele e albumi che tuttora si preparano nella Capitale.
Nella sua ricostruzione romanzata, Cardini immagina invece che i dolcetti tanto agognati da Francesco siano simili ai ricciarelli senesi, frutto di un impasto in cui spicca un trito di mandorle, zucchero semolato e altri ingredienti.
Se il lettore ci accordasse una licenza, ci piacerebbe però pensare – prendendo anche spunto dal titolo dell’episodio narrato da Cardini, Profumo d’aranci – che il Santo assisano, al giungere di Jacopa, si sia inebriato dell’odore di quella buccia d’arancia tagliata a dadini che arricchisce – assieme a uvetta, olio d’oliva e lievito – un’altra versione della ricetta dei mostaccioli, quei biscotti che tanto deliziano le tavole umbre nel periodo invernale.
[1] Cfr. http://www.santuariodelibera.it/FontiFrancescane/framemiracoli.htm⇑ [2]«De illa commestione, quam pluries fecit michi, cum fui apud Urbem… Illa autem comestionem vocant Romani mortariolum, que fit de amigdalis et zucaro vel mellea et aliis rebus». Compilatio Assisiensis vol. 8, a cura di E. Menestò, in Fontes Franciscani, Assisi, 1995.⇑ [3] Cfr. http://www.sanpiodapietrelcina.org/stimmatesanfrancesco.htm⇑ [4]http://www.ofs-monza.it/files/specchiodiperfezione.pdf⇑ [5] L’appetito dell’imperatore, F. Cardini, Mondadori, Milano, 2014. Il libro si inquadra nella fiction storica in quanto, partendo da fatti storici, l’autore aggiunge elementi verosimili e storicamente plausibili che però non hanno evidenze documentarie. Nel caso di Profumo d’aranci, il racconto dedicato a San Francesco, Cardini parte dall’incontro – plausibile, ma non attestato dalle fonti – tra il Cardinale Ugolino d’Ostia ed Elia da Cortona, scossi dalla morte del frate assisano come della richiesta che quest’ultimo aveva fatto in punto di morte.⇑
Nei momenti più bui della sua storia, quando imperiali e Chiesa si fronteggiavano e mentre i condottieri costruivano castelli e massacravano gli avversari, l’Umbria ha partorito due grandi figure che sono agli antipodi rispetto alla violenza che era attorno a loro: San Francesco e Jacopone da Todi.
Un santo e un mistico. Due uomini che attraverso la sofferenza hanno scritto e parlato di pace, di intima serenità e di povertà. Se di SanFrancesco si è scritto e visto tanto, del poeta di Todi si sa tanto e niente. Entrambi si sono scontrati con un papa. Innocenzo III approva la regola di San Francesco, Bonifacio VIII non sopporta le critiche. Prima scomunica Jacopone e poi lo costringe a un’orrenda prigionia. Cinque anni di carcere durissimo, da cui esce ferito nel corpo ma pacificato nello spirito.
Jacopone è un poeta come San Francesco ed entrambi, prima di Dante, hanno usato il volgare italiano con risultati elevatissimi. Jacopone si è servito della poesia per esprimere la sua relazione personale con Dio. Molti ricordano i versi struggenti tratti dalPianto della Madonna ai piedi della croce:
O figlio figlio figlio
amoroso giglio,
…
figlio bianco e vermiglio
figlio senza simiglio
figlio a chi m’appiglio.
Tutti amavano la sua poesia, ma il tempo ha calato su di lui un velo di silenzio. Il silenzio è durato trecento anni e finalmente con lentezza c’è stato il risveglio. Dopo il Todi International Music Master, il Todi Festival e la mostra dedicata ad Ayrton Senna, Todi ha dedicato un ciclo di conferenze alla scoperta della verità su Jacopone. O meglio, la verità su dove è morto, nell’Abbazia di San Lorenzo a Collazzone e su chiostro della chiesa di San Fortunato, dove è stato tenuto prigioniero. Sembra che abbia soggiornato anche nel convento di Montesanto.
Jacopone era uno spilungone: era magro e lungo – da cui il soprannome – e si vestiva da bizzoco francescano: indossava cioè il saio da terziario francescano. In un’immagine è raffigurato in ginocchio, in meditazione, davanti all’immagine di Cristo e senza aureola. Jacopone non è stato fatto santo perché la chiesa non ha mai perdonato la scomunica che gli era stata inflitta da Bonifacio VIII, il papa che peraltro sgambettava a testa in giù nell’Inferno di Dante.
Fra pochi giorni è Natale, la festa di tutti, ma che ognuno lo festeggia a modo suo. Nei paesi di lingua tedesca si fa l’albero e si accendono le quattro candele dell’Avvento. Ancora più a nord, dove la notte è molto lunga, dietro ogni finestra sono posizionate delle luci che, riflettendosi sulla neve, rendono la notte meno buia. Londra Parigi e New York sfoggiano luminarie sempre più belle. A Piazza San Pietro, a Roma, si rispettano tutte le tradizioni, cioè presepe e albero.
Qui sull’altopiano, invece, domina il presepe, che si fa in vari modi. A Massa Martana, limite sud dell’altopiano, si allestiscono presepi fatti con ogni tipo di materiale, ghiaccio compreso. Provengono da tutte le regioni d’Italia e non solo, sono tradizionali e modernissimi, classici e astratti. Il castello è la cornice suggestiva dentro cui si aprono i locali dei presepi. Ogni vicolo e ogni slargo ha qualcosa di natalizio da mostrare.
Il presepe vivente di Marcellano
In un altro castello si fa il presepe vivente. Si deve andare a nord dove si incontra l’ultimo castello dell’altopiano che è Marcellano, ultimo possedimento orientale di Todi che ancora conserva l’aquila tuderte. Se ci andate, cercatela! Il borgo risale ai primi del 1200, è piccino, graziosissimo e tutto costruito all’interno del castello. Sono ormai trent’ anni che Marcellano mette in scena il presepe vivente, un evento che richiama un pubblico sempre più numeroso.
L’azione coinvolge tutti gli abitanti di Marcellano che, all’interno del castello, ricostruiscono la vita al tempo di Gesù a lume di candela, con una piccola aggiunta di dolcetti deliziosi.
Poi, quando si fa notte, le attività commerciali si fermano e sul sagrato della chiesa inizia la sacra rappresentazione. Tutto ciò che dice il Vangelo viene messo in scena, partendo dall’Annunciazione. I turisti sono pigiati davanti alla chiesa, quando si comincia a sentire una musica dolce: sulle note della Barcarola di Offenbach l’azione si sposta nella valletta. Laggiù si è illuminata la grotta con i personaggi principali: Maria, Giuseppe e il Bambinello.
I turisti sono ancora fermi in paese quando appare la stella cometa che, gracchiando, scende lungo un filo fino alla grotta e guida la strada ai Magi. I re magi, elegantissimi e a cavallo, vanno a rendere omaggio a Gesù Bambino e a portare i loro doni preziosi. Solo adesso i turisti possono muoversi e scendere. Lì nella grotta, al freddo e al gelo, c’è l’ultimo nato dell’anno, accuratamente coperto contro il freddo e sempre molto elegante per celebrare un onore che può capitare una sola volta nella vita.
Il presepe di Marcellano
La magia delle laudi del 1200
Natale però è caratterizzato anche dai canti. Quelli americani dominano, ma l’Italia ha canti antichi e belli che non hanno venduto milioni di dischi, ma che hanno attraversato i secoli. Questi canti sono le laudi, nate in Umbria attorno al 1200 e ancora cantate e ascoltate, soprattutto in Umbria.
Se 5.000 persone per un concerto vi sembrano poche, starete sicuramente pensando ai concerti di Vasco Rossi. Ma se pensate che 5.000 persone si sono radunate per ascoltare il Coro Polifonico M° Tommaso Frescura, diretto dal prof. Emore Paoli, vi renderete conto che è un’enormità.
Si sono riuniti per ascoltare le laudi del 1200 e i canti popolari umbri, una musica così di nicchia che di solito si rivolge a un pubblico specializzato. Quindi, per traslato, gli Umbri sono musicalmente molto colti. Di certo molti di essi, anche se non tutti e 5.000.
Accade che il prof. Paoli, umbro DOC, abbia coinvolto in un’avventura raffinata gli abitanti del suo paese, proprio quel Marcellano dove si mette in scena il presepe vivente. Egli ha dato nuovamente vita alla musica umbra, quella del territorio, ancor prima di Umbria Jazz.
La laude italiana è sia religiosa sia popolare e si è tramandata nei secoli quasi inalterata. Da qui l’interesse di tante persone che ricordano canti sentiti in gioventù, mente i giovani ascoltano curiosi i suoni e le parole di un passato che è dietro le loro spalle. Quel passato così lontano invece è vicino, anzi vicinissimo. Infatti, c’è una laude che prende origine dai Fioretti di San Francesco, che sicuramente l’ha cantata e danzata quando andava in giro per il mondo. La laude in questione l’abbiamo cantata anche noi, in gita, ma anche in chiesa; è stata suonata con l’armonica, con le chitarre e cantata con cori non particolarmente intonati.
Il primo è stato Claudio Baglioni nel film che Zeffirelli ha girato sulla storia di San Francesco: Fratello sole e sorella luna erano sia il titolo del film che della canzone. L’ha scritta Riz Ortolani appositamente per il film. Ma Riz Ortolani era un uomo colto che conosceva le laudi del 1200 e ha rielaborato proprio quella di San Francesco.
Se Fratello sole e sorella luna è famosissima, le laudi natalizie riservano a loro volta delle sorprese. Sentendole si ritrova l’Italia dei pastori, dei presepi e degli zampognari con le cioce. Un piccolo piacere che il prof. Paoli regala ogni anno durante le feste di Natale e Capodanno tenendo un concerto sull’altopiano.
Imboccando il sentiero 505 da Triponzo verso Visso, si risale il tortuoso corso di un torrente. Lo chiamano lu raiu de la scafa, laddove raiu, derivato da gravarium, indica una deiezione di pietrisco. A tratti sarà necessario guadare il fiume, cercando di non scivolare sulle rocce bagnate, e cercando di distinguere gli ostacoli dai giochi d’ombra della cupola di fronde sopra la propria testa. Poi le pareti di roccia, dritte e lisce come se fossero state tagliate con una lama, ci attireranno in una forra angusta, richiamandoci con l’ipnotico suono dell’acqua scrosciante.
La cascata de Lu Cugnuntu, foto di Maurizio Biancarelli
Lu Cugnuntu
Siamo in Valnerina, a pochi chilometri dal borgo di Preci, dove il fosso di San Lazzaro e il Fosso Acquastrino si gettano in quella che è una vera e propria ferita negli strati calcarei di Scaglia Rossa che caratterizzano la zona. Non a caso, la forra è chiamata Lu Cugnuntu, la congiunzione – dal latino coniunctio, anche se non si esclude una derivazione volgare di coniuntius, una sorta di condotto idraulico. Giunti ai piedi della congiuntura, si viene investiti da una nube di aerosol, sprigionata dall’acqua che precipita per ben ventiquattro metri.
A monte, le calcareniti – rocce piuttosto resistenti all’erosione – hanno infatti creato un dislivello tale da dare origine a uno spettacolo maestoso, quasi soverchiante per quell’angusta fenditura. Sebbene le guide consiglino di intraprendere questa escursione in primavera, quando la prospettiva di bagnarsi non crea più particolari problemi, è in inverno che la forra sprigiona tutta la sua magica atmosfera. Non è solo per la gittata maggiore propria della stagione, ma anche per le basse temperature che, congelando l’aerosol, creano arazzi di ghiaccio a decorazione delle ripide pareti.
Acque miracolose
In tempi antichi si credeva che queste acque avessero poteri terapeutici, come quelle vicine di Triponzo e di Madonna della Peschiera. La convinzione era tale che, nel 1218, venne persino creato un lebbrosario, favorito anche dalla posizione isolata. In una pergamena del 1342, si legge come Razzardo di Roccapazza – Roccapazza era un castello che fu completamente distrutto dal terremoto del 1328 – avesse donato un terreno, in parte coltivato e in parte adibito a pascolo, al borgo di SanLazzaro in Valloncello. Per alcuni Razzardo fu influenzato da San Francesco, o almeno dall’ideologia francescana che cominciava a prendere piede; in ogni caso la struttura che venne costruita, annessa all’omonima chiesa, fu affidata dapprima ai monaci dell’Abbazia di Sant’Eutizio, poi ai frati minori e ai francescani.
Dalla stessa pergamena si evince che i malati potevano vivere nel lebbrosario con le proprie famiglie, ma non potevano in nessun caso allontanarsi, figurarsi lasciarlo. Veniva servito del cibo ritenuto prodigioso, come la carne di vipera di montagna. Allo stesso modo, sappiamo che i superiori godevano del privilegio di ordinare il ricovero ai malati delle diocesi di Spoleto, Camerino e Ascoli, anche se i parenti non approvavano.
Il lebbrosario – di cui sono ancora visibili le navate centrali della chiesa annessa – fu soppresso nel 1490 da Papa Innocenzo VIII, perché fortunatamente i casi di lebbra stavano scomparendo.
La mappa
Cascata de Lu Cugnuntu:
Latitudine 42°51’04”N Longitudine: 12°59’19”E
Quota massima: 620 m
Tempo di percorrenza: 2h
Lunghezza: 1,75 km
Dislivello: +220 m / -220 m
Punti d’acqua: 3
Valore scenico: alto
Sito panoramico: basso
Modalità di accesso
a piedi: facile
in bici: difficile
A cavallo: media
In auto: non consentito
Stagioni consigliate: tutte
Consigli per l’escursionista: munirsi di scarpe impermeabili e di caschetto
Fonti:
R. Borsellini, Riflessi d’Acqua – Laghi, fiumi e cascate dell’Umbria, Città di Castello, Edimond, 2008.
M.Biancarelli, L’Umbria delle Acque, Ponte San Giovanni, Quattroemme, 2003.
L’eremo di Santa Maria delle Carceri ha suscitato e suscita descrizioni suggestive, al limite del lirismo, in scrittori che in epoche passate lo visitarono e in chi oggi si accinge a tracciarne la storia o a suggerirne un percorso guidato.
Un luogo affascinante
Un francescano belga, di cui rimane ignota l’identità e che lo visitò all’inizio del Settecento, definisce l’eremo «un deserto estremamente consacrato»[1]. Un secolo più tardi il giornalista e scrittore Thomas A. Trollope scrive «Il monastero […] è veramente una cosa rara. Una cornice sporgente di roccia, più dura e resistente all’azione del tempo dello strato sottostante».[2] Agli inizi del Novecento il poeta Olave M. Potter fotografa così il luogo: «una propria ruga sul fianco del Monte Subasio, […] un piccolo mondo di sogni e di dolci memorie».[3] Ancora oggi Enrico Sciamanna non può resistere dal fare dell’eremo una descrizione poetica: «le Carceri sono un occhio bianco nel sempreverde dei lecci del bosco mediomontano del Subasio. Un occhio sempre aperto sul mondo sottostante e verso il cielo».[4]
Il nome
Eppure il nome di questo luogo di ascesi eremitica sembra contrastare con l’incanto e le suggestioni poetiche suscitate nel visitatore di ogni tempo: Carceri; in realtà carcer come sinonimo di heremus lo troviamo già usato in documenti del XIII secolo a significare la volontaria “carcerazione” cercata da san Francesco e dai suoi seguaci, o forse il nome è da connettersi agli anfratti eremitici che tanto assomigliano a carceres.[5]
La storia
La storia dell’eremo di Santa Maria delle Carceri ha il suo inizio con la scelta del luogo da parte di San Francesco che individuò le vicine grotte di origine carsica come luogo ideale di mistica ascesi, tanto più che vi si trovava un piccolo oratorio che proprio il santo intitolò alla Madonna.[6] L’ambiente non dovette durare in questo modo a lungo e già nella seconda metà del XIII secolo cominciarono a edificarsi umili costruzioni in prossimità delle grotte eremitiche che possono essere individuate nel tratto orizzontale elevato parallelamente alla cappellina dedicata alla Madonna. Da sempre le Carceri rappresentano un luogo fondamentale per la religiosità francescana.
Il complesso
La cella
Da un voltone si accede a una suggestiva terrazza di pianta triangolare, detta “Il chiostrino dei frati”, che si affaccia a strapiombo sulla roccia dove è costruito il convento delle Carceri, formato da due braccia che si incrociano ad angolo retto. Sopra la porta del convento è visibile il monogramma di San Bernardino; all’interno si trovano il refettorio e al piano superiore il dormitorio con le cellette dei frati. Dal chiostro del convento si accede alla cappella di San Bernardino sulla porta della quale è visibile un’iscrizione che ricorda il nome dato da san Francesco alla chiesina primitiva. La cappella è illuminata da un’unica finestra chiusa da una vetrata francese del XIII secolo, sulla quale è raffigurata una Madonna col Bambino, posta qui in epoca recente. Segue la primitiva cappella di Santa Maria delle Carceri scavata nella roccia, sopra l’altare della quale è visibile l’affresco raffigurante la Madonna col Bambino e San Francesco, realizzata da Tiberio d’Assisi nel 1506 sopra una Crocifissione duecentesca. Accanto vi è il coretto dei frati con gli stalli in legno risalenti al periodo bernardiniano.
Scendendo una ripida scala si arriva alla grotta di San Francesco, ora divisa in due piccoli ambienti: nel primo vi è il giaciglio di nuda roccia dove il poverello riposava, nell’altro una piccola cella dove egli si ritirava in meditazione. Usciti all’esterno è visibile anche se molto consunto un affresco raffigurante la Predica agli uccelli, mentre nel terreno una lastra con il foro attraverso il quale si intravede il fondo del burrone che si dice aperto dal demonio, che si racconta cacciato dal santo luogo da frate Rufino. Salendo per una breve rampa si raggiunge la cappella della Maddalena, luogo di sepoltura del beato Barnaba Manassei. Nella selva sovrastante si trovano le grotte dei beati Rufino e Masseo. Oltrepassato un ponte è visibile la statua bronzea di San Francesco che libera le tortorelle realizzata a fine Ottocento da Vincenzo Rosignoli e da qui si dipana il viale alberato al termine del quale si apre, nella roccia, un teatro utilizzato per le funzioni liturgiche a beneficio dei pellegrini. Scendendo per un ripido viottolo si accede alle grotte eremitiche di frate Leone e dei primi seguaci di san Francesco.[7]
Testi di riferimento Guida di Assisi e de’ suoi dintorni, Tip. Metastasio, Assisi 1911, pp. 47-49.
M. Gatti, Le Carceri di San Francesco del Subasio, Lions Club di Assisi, Assisi 1969.
P.M. della Porta-E. Genovesi-E. Lunghi, Guida di Assisi. Storia e arte, Minerva, Assisi 1991, pp. 175-178.
E. Lunghi, Santa Maria delle Carceri, in Eremi e romitori tra Umbria e Marche, Cassa di Risparmio di Foligno, Foligno 2003.
E. Sciamanna, Santuari francescani minoritici. I luoghi dell’osservanza in Assisi, Minerva, Assisi 2005, pp. 60-68.
L. Zazzerini, Eremo di Santa Maria delle Carceri, in L. Zazzerini, In ascolto dell’Assoluto. Viaggio tra gli eremi in Umbria, Edimond, Città di Castello 2007, pp. 2-9.
[1] L’anonimo belga visitò l’eremo tra il 1726 e il 1733 e ne lasciò una memoria manoscritta; il testo relativo è riferito da A. Sorbini, Assisi nei libri di viaggio del Sette-Ottocento, Editoriale Umbra – ISUC, Foligno 1999, p. 46. ⇑ [2] T.A. Trollope, A Lenten journey in Umbria and the Marches, London 1862, citato da A. Sorbini, cit., p. 131. ⇑ [3] O.M. Potter, A little Pilgrimage of Italy, London 1911, riferito da A. Brilli-S. Neri, Alla ricerca degli eremi francescani fra Toscana, Umbria e Lazio, Le Balze, Montepulciano 2006, pp. 23-24. ⇑ [4] E. Sciamanna, Santuari francescani minoritici. I luoghi dell’osservanza in Assisi, Minerva, Assisi 2005, p. 68. ⇑ [5] Cfr. M. Sensi, L’Umbria terra di santi e di santuari, in M. Sensi-M. Tosti-C. Fratini, Santuari nel territorio della Provincia di Perugia, Quattroemme, Perugia 2002, p. 75. ⇑ [6] Un’iscrizione quattrocentesca posta sull’arco della porta della chiesetta recita “Sancto Francesco puose a q[u]esta chapella el nome di Santa Maria”. Per un’attenta disamina della stratificazione costruttiva delle Carceri si rimanda a M. Gatti, cit., pp. 35-65. ⇑ [7] Per una descrizione puntuale delle Carceri si rimanda a P.M. Della Porta-E. Genovesi-E. Lunghi, Guida di Assisi. Storia e arte, Minerva, Assisi 1991, pp. 175-178. ⇑