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San Gemini appartiene al Club de
I Borghi Più Belli d’Italia

 


Il Geolab è uno spazio espositivo permanente dedicato alla Scienze della Terra. Un luogo pensato per raccontare come è fatto e come funziona il nostro pianeta, come è nata l’Umbria, e quali sono i meccanismi che sono alla base della sua evoluzione. Al Geolab è: “vietato non toccare”.
Più che un museo, Geolab è quasi un laboratorio, che a San Gemini ospita una serie di macchine interattive
che spiegano divertendo, ma soprattutto invitando il visitatore a osservare e sperimentare con il metodo di
uno scienziato.

 

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Alla scoperta della Terra

La visita si snoda attraverso cinque sale, lungo un percorso che accompagna il visitatore dalla scoperta della
struttura della Terra fino alla lettura del paesaggio, attraverso le principali emergenze geologiche dell’Umbria.
La prima sala si apre con la scoperta, grazie a una lente speciale, che la superficie della terra è divisa in grandi placche: un gioco che permette di smontare e rimontare il planisfero di 150 milioni di anni fa, e una ruota del tempo che separa Africa e Sud America che, visualizzando i movimenti delle placche nel passato, aiutano a comprendere anche il modo in cui nascono gli oceani.
Tra la prima e la seconda sala si entra in un grande globo terreste, in cui si può vedere come è fatto l’interno del nostro pianeta, il nucleo. In seguito il visitatore, con l’aiuto di un plastico interattivo, può scoprire come nascono le catene montuose, perché si scatenano i terremoti e dove si aprono i vulcani.
Con la terza sala si arriva alle vicende geodinamiche dell’area del Mediterraneo e dell’Italia. Un gioco permette di tornare indietro nel tempo e di scoprire in che modo si è formata la nostra Penisola: rispondendo correttamente alle domande, si possono far sollevare tre plastici che rappresentano altrettanti momenti della storia geologica italiana.
La quarta è dedicata all’Umbria: qui si può provare a far sollevare l’Appennino dal mare e vedere poi i fenomeni di erosione. Al centro, un grande plastico con acquario propone, in un unico colpo d’occhio, sia la storia geologica della regione, che gli ambienti di formazione delle rocce che la costituiscono, insieme a campioni delle rocce stesse. Uno spazio è dedicato ai fossili e un altro all’esame al microscopio dei segreti delle rocce umbre.
Nell’ultima sala, ricavata in una chiesa sconsacrata, si possono infine conoscere i principali fenomeni e i luoghi di interesse geologico dell’Umbria.
Alcuni esempi: la registrazione, con un sismografo, dei salti dei visitatori introduce allo studio dei terremoti; un plastico attivo spiega come si forma l’acqua minerale San Gemini. Scavando in una vasca, riempita di palline di plastica, si possono recuperare modelli di ossa fossili, per poi identificare l’antico animale umbro ormai estinto al quale sono appartenute.

 

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Laboratori didattici

Il Geolab è uno spazio nel quale è possibile la manipolazione diretta dei materiali esposti. A questa caratteristica si è voluta aggiungere l’esperienza diretta e la ricerca scientifica. L’attività di laboratorio è strutturata in diversi percorsi tematici.
Pagine scritte nella roccia: le rocce sono le uniche testimonianze di un’antica e lenta storia che si perpetua  fino ai nostri giorni, fatta di sedimentazioni, eruzioni e sconvolgimenti all’interno della terra. Interessante è quindi il loro studio e il loro riconoscimento in base alle caratteristiche macroscopiche che presentano: colore, durezza, peso e tessitura.
I fossili: la scienza che studia la vita del passato, la paleontologia, ha il potere di riportarci indietro nel tempo, in un mondo fatto di strani animali e piante. I fossili sono l’unico elemento per capire l’eterno pulsare della vita e il continuo divenire del pianeta.
Descrizione e rappresentazione del paesaggio, la geografia e topografia: lo studio delle forme del paesaggio per la costruzione di una carta geografica.
Le avventure di Teo il trilobite e Minnie l’ammonite: attraverso il racconto delle avventure del trilobite Teo e quelle della tiranna ammonite, i bambini scoprono le diverse fasi evolutive degli esseri viventi, anche con la realizzazione di fossili (colorandoli e ritagliandoli) e la collocazione nelle diverse ere geologiche riportate sul tappeto.
La scienza a casa nostra: il filo conduttore di questo laboratorio è il racconto dell’esperienza quotidiana attraverso gli occhi dello scienziato. Con una serie di esperimenti, si potranno conoscere alcuni fenomeni che, pur sembrando scontati, inconsapevolmente ci introducono alle leggi della fisica che li regolano.

 

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Deruta appartiene al Club de
I Borghi Più Belli d’Italia

 


Nella storia della formazione dei borghi storici italiani, è noto che sia arrivato un momento in cui da semplici strutture difensive spesso a presidio di vie di comunicazione, essi siano poi diventati veri e propri snodi commerciali, spesso specializzati in peculiari produzioni. A quel tempo, la differenza tra artisti e artigiani era piuttosto labile; il giudizio di valore su alcune capacità umane – come la pittura e la scultura – piuttosto che su altre, sarebbe arrivato solo nel Cinquecento, generando a sua volta una gerarchia di classi nelle produzioni artigiane.

cosa vedere in umbria
Guardando tuttavia a Deruta – alle sue decorazioni, ai suoi fregi e ai suoi inserti di ceramica – spesso si perde la cognizione di cosa sia l’arte e cosa l’artigianato. Basta fare una passeggiata per le vie della piccola cittadina per rendersi conto di quanto la ceramica sia pervasiva di queste contrade, e di come quella che era a tutti gli effetti un’arte si sia trasformata in una forma di artigianato non tanto per un’inferiorità nei confronti di discipline “nobili” come la pittura e la scultura, quanto per la sua capacità di essere popolare.

Le strade della tecnica

La parte sud di questo comune che presidia il fiume Tevere è dominata da una stella che, impiantata nel terreno come un meteorite caduto dal cielo, rappresenta una figura femminile. Realizzata dagli allievi della Scuola Internazionale d’Arte Ceramica Romano Ranieri, inaugura la via Tiberina, incorniciata da prunus dai colori saturi, da cui si dipartono numerose stradine laterali dai nomi suggestivi quanto testimoni di una tradizione vecchia di secoli, in cui la specializzazione era tale da generare addirittura dei segreti professionali.

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L’opera realizzata dalla Scuola Internazionale d’Arte Ceramica Romano Ranieri, all’ingresso di Deruta

 

La serie di vie che si intersecano a pochi metri dalla superstrada ha a che fare con le diverse fasi della produzione delle ceramiche artistiche che di questo luogo sono caratteristiche. Via dei Fornaciai, dei Tornianti, dei Modellatori, degli Stampatori, ma anche dei Pittori e dei Decoratori, fanno riferimento alla lavorazione della materia prima –l’argilla, a cui è dedicata una via nella parte nord  – prima impastata in modo che le bolle d’aria e la compattezza non facciano aprire delle crepe sul prodotto finito, e poi modellata. In base alla complessità e alle fattezze del prodotto da ottenere, si avrà una modellazione a colombino – nel caso delle coppe –  a lastre, a stampo –usato principalmente per i piatti – o al tornio –per vasi, lampade o addirittura piatti da portata.

Decorazioni cittadine, Deruta

Ai tornianti è dedicata un’intera via perché utilizzare il tornio -almeno quello a pedale – era sinonimo di un alto grado di specializzazione: l’oggetto doveva essere creato a partire da un unico panetto di argilla, il che significava che l’artigiano doveva essere in grado di prevedere quanta ne potesse occorrere per dare vita ad un certo oggetto con una certa forma e con un certo spessore. La difficoltà stava poi nel mantenere costante la velocità di rotazione del tornio, in modo da concedersi il tempo necessario a modellare la materia, a scavarla, ad allungarla e a contorcerla, per donarle proporzioni equilibrate e affusolate. La diffusione dei torni elettrici non ha poi cambiato così tanto lo stato delle cose: quello del torniante è un lavoro difficile e altamente specializzato, al pari di quello dello stampatore, che deve essere in grado di creare uno stampo in gesso, formato da un pezzo unico o addirittura da molteplici, per riprodurre un prototipo assegnatogli, senza ovviamente rompere il manufatto al momento del distacco.

Firme illustri

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Una piccola fornace per la ceramica a lustro, conservata nel chiostro del Museo della Ceramica, Deruta

Continuando a camminare, via dei Decoratori incontra un quartiere le cui strade sono dedicate a personalità più o meno note che hanno scritto la storia del piccolo borgo umbro.
Via Francesco Briganti è la prima: questo notaio derutese fondò nel 1898 il Museo della Ceramica donando pezzi di sua proprietà, ma –cosa ancora più importante – finalizzò la ricerca storico-filologica alla creazione di laboratori dedicati agli artigiani. Alla Pinacoteca Comunale di Deruta restano invece una quarantina di opere di un altro filantropo, Lione Pascoli, che, appassionato di collezionismo, era riuscito a raccogliere ben trecento opere di arte minore, tra cui nature morte, battaglie, bambocciate. La via a lui dedicata si interseca con quella che porta il nome di uno dei più grandi promotori della cultura ceramica degli inizi del XX secolo: Alpinolo Magnini, a cui è dedicato anche il liceo artistico locale, che contribuì dapprima ad integrare la collezione del museo con disegni ad acquerello di maioliche antiche, poi a rinnovare la ceramica a lustro in stile raffaellesco basandosi su un’antica ricetta. Magnini fu anche direttore tecnico-artistico della Società Anonima Ceramiche, della Società Maioliche Deruta e della CIMA –Consorzio Italiano Maioliche Artistiche; per ammirare però edifici che ne portano il nome, è necessario inerpicarsi lungo le strette vie del borgo vero e proprio. Da via Magnini si svolta dunque a destra e si oltrepassa via Nicolò di Liberatore, meglio conosciuto come L’Alunno a causa di un errore del Vasari: quest’ultimo infatti scambia l’iscrizione alumnus funginie per un soprannome, mentre ne indicava soltanto la provenienza folignate. Resta il fatto però che il pittore, famoso per le sue teste ritratte dal vivo, sia l’unico artista del Rinascimento umbro ad essere citato dal famoso biografo degli artisti. Insieme al suocero fu autore, nel 1458, della Madonna dei Consoli, conservata alla pinacoteca comunale di Deruta.

Dettagli della Chiesa di San Francesco da Chiostro del Museo della Ceramica, Deruta

Una struttura urbanistica particolare

Salendo ancora e passando sotto il vecchio semaforo sospeso che caratterizza il quartiere chiamato borgo –dal nome della strada che lo taglia a metà, via Borgo Garibaldi, incorniciata da alberi e da un muro litico glassato di decori in arabesco e dalle mattonelle degli artigiani locali – sulla sinistra si apre una maestosa scalinata: domina l’intero paesaggio sottostante, infilandosi poi sotto un arco abbellito da piatti decorati e brocche incastonate nella pietra.

Una delle porte di accesso al borgo

Alzando lo sguardo, si notano alberi di nespole pendere da terrazzamenti posti ad un livello ancora superiore: questo è un tratto caratteristico di Deruta, dove l’irregolarità e l’asimmetria delle costruzioni si sposano con gli innumerevoli livelli del tessuto urbano, a volte difficili da indovinare.
Camminando però tra viuzze anguste ed erte, spesso cieche, è possibile individuare edifici storici e altri dall’aspetto quanto mai folkloristico: è il caso della Società Anonima Maioliche sopracitata, caratterizzata da un’elegante entrata in stile Liberty che si apre tra edifici dai tratti pressoché comuni, che risente però dell’incuria e degli sbalzi termici. La maiolica è infatti soggetta a fratture e distaccamenti, nel momento in cui è esposta alle intemperie.

Le pareti corazzata dell’Antica Fornace, Deruta

Portoni fregiati e facciate punteggiate da figure di donne, ci conducono ai piedi della seconda tipologia di edificio, quella più caratteristica: tra tutte le fornaci disseminate nel tessuto urbano, sicuramente quella antica è una costruzione dai tratti pittoreschi, spesso grotteschi, composta com’è da squame di ceramica di recupero. Le spioventi pareti esterne sono infatti ricoperte di mattonelle, piatti, coperchi o addirittura di semplici frammenti, al punto da donarle l’aspetto di una burlesca fortezza.

Dettaglio delle pareti esterne dell’Antica Fornace

È difficile distogliere lo sguardo dalla visione d’insieme degli innumerevoli frammenti, ma via El Frate – soprannome di Giacomo Mancini, altro grande pittore di coppe e piatti con soggetti tratti da Le Metamorfosi di Ovidio (XVI secolo) – ci aspetta.
Dopo una breve salita, si arriva all’Istituto Statale d’Arte Alpinolo Magnini, anch’esso abbellito da un caratteristico fregio. A fronteggiarlo, Piazza dei Consoli, dalla forma allungata di un viale, sul quale ogni anno si disputa il caratteristico Palio della Brocca. Vi si aprono lo scarlatto Municipio e la Chiesa di San Francesco, ristrutturata con la locale pietra scura, un tranquillo gigante che sembra coccolare la piazza, soprattutto nella parte terminale, dove gli spazi si riducono e comprimono. Questo snodo è di particolare bellezza: a differenza di molte chiese tipiche dell’Italia centrale, il maggiore edificio religioso di Deruta ha un’entrata un po’ in sordina, posta com’è lungo una via piuttosto stretta e discosta rispetto alla spaziosa Piazza dei Consoli. Questa ombrosa via conduce altresì al placido chiostro del Museo della Ceramica, dove spiccano una piccola fornace per la ceramica a lustro e un elce dalle ombrose fronde.

Materiali pregiati

A malincuore abbandoniamo le tranquille mura del complesso per riscendere a valle; attraversiamo un giardino pubblico di rara bellezza, una sorta di balcone su Deruta dove persino le panchine e la fontanella sono decorate con gli arabeschi tipici dell’artigianato artistico locale. Una serie pressoché infinita di scalette ci permette di scendere poi attraverso gli innumerevoli livelli su cui si sviluppa il borgo, fino a giungere alla fine di via Fratelli Maturanzio, una coppia di artisti del XVI secolo la cui memoria si perde ormai nelle pieghe del tempo.

Le splendide panchine decorate dei giardini pubblici, Deruta

A fare da tappo alla discesa, la Chiesetta di Madonna delle Piagge che, dopo qualche centinaia di metri, lascia spazio a due significative vie: via Verde Ramina e via della Zaffera. Il primo, insieme al bruno di manganese, è il colore della ceramica arcaica, caratterizzata da motivi geometrici, floreali o zoo-antropomorfi; il secondo trae il proprio nome dallo zaffiro, ovvero il colore blu che, durante la cottura, si gonfiava, restituendo motivi vegetali, emblemi e creature fantastiche a rilievo. È importante comprendere il procedimento di decorazione del biscotto, ovvero del pezzo ottenuto dopo la prima cottura, perché in questa fase i colori cambiano. Dopo essere stato smaltato e decorato, il pezzo viene cotto una seconda volta in modo che i colori vetrifichino e assumano la loro reale tonalità: il verde ramina da nero diventa del caratteristico pallido verde, mentre il blu resta uguale, ma temperature troppo elevate fanno sciogliere l’ossido di cobalto, eliminando il decoro.

Scorcio di Deruta da via El Frate

Ci sono anche altre tecniche di decorazione, di cui sono testimonianza le vie che fendono la parte nord di Deruta: via del Mosaico, spesso dorato in oro zecchino, via del Riflesso, via dei Lustri – di cui fu innovatore il già citato Alpinolo Magnini – via del Raku, che lascia spazio a tradizioni ceramiche d’oltremare, via dell’Arabesco, del Raffellesco e via dell’Engobbio, che fa il paio con via del Bianchetto. Queste ultime due sono tecniche strettamente connesse: il bianchetto è l’altro nome della mezza maiolica, e consiste nel rivestire l’oggetto con l’ingobbio (o engobbio), cioè uno strato di argilla liquida e bianca, poi decorata o incisa. Questo procedimento veniva adottato quando ancora non si usava la cottura a biscotto e lo smalto a base di stagno risultava troppo costoso. La cottura avveniva solo una volta, dopo che l’oggetto era stato rivestito con un sottile strato trasparente.
Significativa è la presenza di via dell’Argilla che si inerpica verso le colline ancora poco urbanizzate che gli guardano le spalle: non è difficile immaginare generazioni e generazioni di ceramisti reperire la materia prima alle falde di queste alture, come pure nei depositi alluvionali del grande fiume Tevere che scorre poco più in basso.

 

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Allerona appartiene al Club de
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Il mese di maggio è molto sentito dai cittadini di Allerona per l’evento che più di tutti li rende orgogliosi delle loro radici: i Pugnaloni.
La terza domenica di maggio, gli Alleronesi festeggiano infatti Santo Isidoro, patrono degli agricoltori; un uomo dalle umili origini che si è guadagnato la santità grazie una vita dedicata alla preghiera, il duro lavoro e la condivisione con le persone più sfortunate e meno abbienti.

L’origine

Nei Pugnaloni di Allerona sono evidenti gli adattamenti da parte del Cristianesimo di un rito propiziatorio dalle origini pagane.
Il termine Pugnalone potrebbe derivare da “pungolo”, un bastone munito a un’estremità da un puntale di ferro, utilizzato per sollecitare i buoi a lavorare più alacremente, dall’altra da un raschietto che gli aratori usavano per pulire l’aratro dalle zolle.
Altre fonti lo fanno risalire al verbo latino pugnare, che significa combattere, connessione che possiamo trovare piuttosto nell’omonima festa del paese di Acquapendente, nella provincia viterbese.
L’accezione legata alla battaglia, che ad Acquapendente viene celebrata come riconquista della libertà da parte del popolo – il quale, armato con forconi e pungoli, vinse contro l’esercito di Federico Barbarossa – è poco probabile abbia ispirato la rievocazione di Allerona, associabile, in maniera più plausibile, allo strumento agricolo.

Il rito moderno

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Tradizionale pugnalone di Allerona

Ne è testimonianza anche la rappresentazione moderna: si tratta di aste in legno di pioppo alte circa tre metri, sormontate da una gabbia ovoidale, formata da fruste o verghette flessibili di legno e somigliante a una grossa rocca per filare. La gabbia è decorata con nastri dai colori vivaci e con fiori freschi fissati sulla sommità, racchiusi in un mazzo compatto a forma di pomo. Dentro la gabbia si possono trovare formaggi freschi, fiaschette di vino, arnesi per lavorare i campi, piccoli strumenti di legno e bigliettini con motti e proverbi sulla vita contadina e fotografie della famiglia del portatore del Pugnalone.
Nei carri, che ogni anno sfilano nelle strade del centro del borgo, è presente la vita agreste e la scena del miracolo di Sant’Isidoro, riprodotto in miniatura; un vero e proprio presepe realizzato con statuette d’argilla vestite con abiti tradizionali.  L’evento vede come scena centrale il santo, intento a pregare sotto l’ombra di un albero e due forme angeliche che lo sostituiscono trainando al suo posto il carro dei buoi; ecco dunque, come Isidoro sia diventato, grazie a questo evento, patrono del mondo agricolo, e come la sua memoria sia legata, in Italia e in Spagna, ai riti che celebrano la vita nei campi.
I carri sono fabbricati interamente, come vuole tradizione, dagli Alleronesi, i quali ogni anno con i loro quartieri competono alla realizzazione del carro vincitore. I Pugnaloni più belli vengono poi premiati da una commissione e restano in esposizione, per l’intera giornata, nel centro storico; ma mentre un tempo erano i portatori stessi ad offrire a chi partecipava le primizie contenute nei Pugnaloni, oggi sono piuttosto i quartieri alleronesi ad organizzare, nel pomeriggio, insieme alla rievocazione degli antichi mestieri, una più moderna degustazione di prodotti tipici alimentari.

 

Riti parenti

Sfumature simili si possono trovare in alcune tradizioni straniere riguardanti le festività del mese di maggio; una di queste vedeva infatti l’usanza di portare in villaggio un enorme albero, adornato con i frutti della terra – animali e piante – come ringraziamento alla divinità, ritualità legata al concetto elementare di magia simpatica. Era un gesto molto caro al contadino che, offrendo i primi prodotti della terra  a questa entità protettrice della natura, pensava di ricevere in cambio una maggiore fertilità.
Un altro esempio lo possiamo trovare in alcuni riti dell’epoca classica come la celebrazione dei Misteri Eleusini, che si celebrava proprio nei primi mesi di primavera. Anche durante questa festa venivano offerte le primizie della terra, ma per placare la dea dell’agricoltura Demetra, divinità delle messi che, affranta dal ratto della figlia Persefone tenuta prigioniera nell’oltretomba, aveva deciso di condannare l’umanità all’inverno eterno.

Il culto dello spirito arboreo

Una particolare connessione che possiamo trovare all’interno di queste tradizioni popolari del centro Italia è il culto dello spirito arboreo, ancora oggi celato tra le pieghe di queste feste cristiane.

cosa fare in umbria

Rievocazione della vita contadina

Fin dall’inizio dei tempi l’uomo preistorico, che spesso non sapeva dare spiegazione agli strani fenomeni che accadevano intorno a lui, creava una divinità onnipresente in tutto ciò che era selvaggio e misterioso. Con il passare del tempo, però, una nuova idea si fece largo: l’albero non veniva più visto come la divinità, ma come la sua dimora. Lo spirito arboreo invece di essere considerato l’anima di ogni albero, diventò quindi  quella protettrice della foresta e dei campi. A questo si potrebbe ricollegare l’usanza di trasportare nel centro abitato un albero decorato: altro non era che un modo per portare una parte dello spirito che ci risiedeva e farlo diffondere tra la gente, assicurando fertilità e prosperità.

 

 

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Arrone appartiene al Club de
I Borghi Più Belli d’Italia

 


Se siete alla ricerca di un itinerario per il weekend, o anche per le vacanze, è il momento di scoprire i Borghi più belli d’Italia. Il sito ufficiale divide per regioni i paesi selezionati e tra questi, in particolare, c’è Arrone, che sorge ad 8 km da Terni, immerso nel cuore della Valnerina.

Sentiero dell’Olio

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Chiesa di S. Giovanni

La concezione del borgo richiama la tipica cittadina medievale e passeggiando per le vie del paese si fa fatica a non meravigliarsi del verde dei colli che proteggono le mura di pietra, ma le origini di Arrone sono molto più antiche e si scoprono attraverso i percorsi naturalistici che da lì partono. Uno di questi è il Sentiero dell’Olio, che dal centro si addentra tra querce e pini per salire fino al piccolo borgo di Tripozzo, a circa 600 metri. Il percorso si sviluppa in 3,4 km su una strada non molto trafficata, ma che nella bella stagione si ripopola di appassionati, tanto che viene scelta anche come itinerario per la nordic walk, pur essendo adatta a tutta la famiglia.
Mentre si sale, si può notare come la macchia mediterranea lasci rapidamente il posto a distese di olivi secolari e reperti di derivazione romana: questa zona era infatti utilizzata ampiamente per la coltivazione e lavorazione delle olive, di cui ne fanno testimonianza i resti di un mulino e la strada che ora accompagna gli escursionisti era un tempo il collegamento per trasportare il prodotto oleario fino a valle.

La fonte di San Lorenzo


Un’ulteriore conferma della valenza antropologica del territorio è data dalla presenza di una fonte, conosciuta come fonte di San Lorenzo, che si incontra a meno di 500 metri lungo il cammino, ma anche da reperti archeologici quali un edificio e materiali di ceramica, trovati dopo alcuni lavori agricoli, datati orientativamente tra il I sec. a.C e il I sec. d.C. nella stessa Tripozzo per via di strutture e tecniche costruttive tipiche dell’epoca rivenute grazie agli scavi realizzati nel 2000 dalla Soprintendenza dei Beni Archeologici dell’Umbria.
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Si pensa che l’edificio fosse una villa schiavistica e nello studio di questa costruzione si è potuta costatare la presenza di un torchio a trave che serviva per spremere le olive. Dagli scavi, si viene a sapere che l’edificio è stato anche ristrutturato, e questo fa valutare il fatto che sia la costruzione del frantoio e che le modifiche successive non potevano che essere commissionate da una personalità di spicco della prima età imperiale, una sorta di imprenditore che poteva disporre di un ampio numero di manodopera per la sua attività olivicola.
La produzione è tuttora portata avanti in maniera biologica, come mostrano alcuni cartelli posti in mezzo agli olivi; e chissà che non si tratti di discendenti di questa figura imprenditoriale!

Le Marmore



Qui a Tripozzo, la passeggiata trova il culmine della visuale e vale la pena affacciarsi ad ammirare la vallata, da cui si apre un panorama variegato, fatto di boschi, oliveti, alcune frazioni di Arrone come – Montefranco – e, se si affina la vista, si può vedere alla propria sinistra la nube delle acque che scendono impetuose dalla Cascata delle Marmore, nascosta da un altro colle. Con gli occhi pieni di meraviglia, si può far ritorno ad Arrone.


Fonti
Parco Regionale Fluviale Del Nera, Itinerari escursionistici a tema. Sulle orme del nostro passato: alla visita di interessanti siti archeologici.
http://www.turismovalnerina.it/itinerario
https://www.nordicwalkingterni.it/eventi.html?start=165
tipicamenteumbria.it

 

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Norcia appartiene al Club de
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Il dio greco Dioniso, chiamato anche Bacco (“il rumoroso”), è una figura fondamentale della religiosità e della mitologia antiche; egli rappresenta la forza produttiva della natura, la potenza germinativa che regola i cicli dell’agricoltura ed è considerato l’inventore del vino, la bevanda meravigliosa, fonte di gioia e soave lenitivo per le sofferenze degli uomini ai quali insegnò l’arte della sua produzione.

Il mito di Dioniso

Cippo A, Dioniso

La leggenda relativa alla nascita del dio lo indica quale frutto dell’amore tra Zeus, re degli dei, e Semele, fanciulla mortale figlia di Cadmo, sovrano di Tebe. Era, sposa legittima di Zeus, venuta a conoscenza del tradimento si ingelosì e, volendo punire la rivale, prese le sembianze della sua nutrice, suscitando nella fanciulla il desiderio di contemplare l’amante nel pieno del suo splendore divino. Zeus le apparve dunque nella forma della sua suprema maestà, il fulmine, tanto che Semele, già in attesa di Dioniso, ne rimase folgorata e morì incenerita dando alla luce il bambino prematuro; Zeus allora prese il nascituro e se lo cucì all’interno di una coscia per portarne a compimento lo sviluppo e, una volta  nato, lo consegnò ad Ermes perché lo proteggesse dalle ire della sua sposa. Costui condusse il neonato ad Orcomeno e lo affidò alle cure di Ino, sorella di Semele, e di suo marito Atamante, suggerendo loro di travestirlo da bambina affinché Era non lo riconoscesse; lo stratagemma non servì però ad ingannare la regina degli dei che, furiosa, portò i due alla follia inducendoli ad uccidere i loro stessi figli. Ermes riuscì a trarre in salvo Dioniso e, condottolo sul monte Nisa, lo affidò ad un gruppo di Ninfe che ebbero il compito di allevarlo all’interno di una grotta. Una volta divenuto adulto, fu ancora oggetto della furia di Era e, impazzito, cominciò a vagare per i luoghi più remoti del mondo, giungendo fino in India. Di ritorno in Grecia, egli giunse a Tebe, in Beozia, dove è ambientato uno degli episodi più noti della sua saga, reso immortale dalla celeberrima tragedia di Euripide Le Baccanti. Dioniso, desideroso di istituire il proprio culto, arrivò in città sotto mentite spoglie, ritenuto da tutti un semplice banditore della nuova religione; immediatamente le donne furono sopraffatte dalla follia dionisiaca ed abbandonate le loro case corsero sul monte Citerone dove cominciarono a compiere azioni portentose: esse allattavano cerbiatti e lupacchiotti, facevano sgorgare acqua dalle rocce, vino e latte dalla terra, miele dai tirsi, sbranavano animali, si cibavano di carne cruda. Il re locale Penteo, sconvolto dal sovvertimento dell’ordine costituito, fece imprigionare il dio, il quale si liberò con un prodigio e persuase lo stesso sovrano a recarsi sul monte in abiti femminili per spiare gli strani rituali compiuti dalle sue concittadine; ma egli fu scoperto e le donne, in preda al furore dionisiaco, lo scambiarono per un leone e lo fecero a pezzi. Agave, madre dello stesso Penteo, brandendo il macabro trofeo, tornò a Tebe dove rinsavì poco a poco e, resasi conto dell’orrendo delitto, fu colta da disperazione.

Il culto e l’estasi

Cippo B, Menade danzante

Il culto tributato a Dioniso è di tipo estatico; chi vi prende parte è in preda al furore bacchico detto anche mania. La musica, la danza, il vino sono elementi fondamentali del rituale e provocano nei partecipanti uno stato di eccitazione e di follia, in cui gli elementi caratteristici del kosmos greco sono sovvertiti. L’alienazione dalla realtà immette nel mondo dell’illusione dove l’ordine precostituito è sconvolto, le differenze sociali sono annientate; in questa sfera illusoria le donne abbandonano i loro ruoli tradizionali, l’umile diviene potente, l’infelice diviene felice. Dioniso appare così come un liberatore, colui che, seppur in maniera effimera, affranca gli uomini dalle sofferenze donando loro la pienezza della gioia, aiutandoli ad oltrepassare i propri limiti umani e conducendoli verso una condizione che nella vita reale è loro preclusa. Lo stesso corteggio del dio, o thiasos dionisiaco, è composto da creature con caratteristiche solo parzialmente umane; si tratta dei satiri e delle menadi o baccanti, rispettivamente uomini dall’indole e dai tratti ferini, manifestazioni della natura selvaggia, e donne in preda all’ebbrezza dell’alcool che si scatenano in danze sfrenate.

I cippi dionisiaci

Nel maggio del 1986, i lavori di ristrutturazione di una casa privata di via Reguardati, a Norcia, condussero al rinvenimento di una coppia di reperti di alto valore archeologico e artistico: due cippi gemelli scolpiti con scene relative alla saga di Dioniso, attualmente conservati presso Criptoportico Romano di Porta Ascolana della medesima cittadina. Entrambi i pezzi hanno forma cilindrica, leggermente rastremata verso l’alto e sono realizzati in pietra grigiastra locale; il cippo denominato A è alto 65 cm con diametro di 38.5 cm alla base e di 35.5 cm nella parte superiore; al centro della rappresentazione compare Dioniso giovane, visto di profilo, con la mano destra poggiata al tirso, mentre con la sinistra, distesa lungo il fianco, regge il kantharos.

cippi dionisiaci nursini

Riproduzione grafica del Cippo A

Il dio è nudo, vestito unicamente di un drappo che gli avvolge il torace, forse una pelle ferina, e dei calzari. Ai lati compaiono due figure femminili panneggiate, identificabili con delle menadi colte nell’atto di danzare come mostrano le teste rivolte all’indietro, i piedi sollevati dal suolo e i drappeggi degli abiti, volti a sottolineare i movimenti vorticosi del ballo. La figura posta alla destra di Dioniso sorregge un timpano, mentre quella alla sua sinistra, separata dal dio da una palmetta stilizzata, tiene una spada in una mano e una testa umana mozzata nell’altra. Quest’ultima figura è di fondamentale importanza per l’interpretazione della scena, permettendo di identificare con esattezza la vicenda rappresentata, riferibile all’episodio tebano sopra menzionato.

cippi dionisiaci da norcia

Riproduzione grafica del Cippo B

Il cippo B è alto 63 cm con diametro di 41 cm alla base e di 37 cm nella parte superiore; la scena è del tutto simmetrica alla precedente, analogamente composta di tre figure umane e una palmetta. Al centro è un satiro nudo, con un drappo sulle spalle, che suona il doppio flauto fiancheggiato da due menadi danzanti simili a quelle del cippo A; la donna posta sulla destra regge un tirso sopra le spalle, mentre quella a sinistra percuote un timpano con la mano. I reperti possono essere datati alla prima età imperiale (inizi del I sec. d.C.).
Assai difficile dire quale fosse l’esatta funzione dei cippi, anche se appare verosimile attribuire ad essi un valore sacrale, forse legato a specifiche pratiche cultuali legate al culto dionisiaco molto diffuso in ambito italico non solo a Roma, ma anche nelle province.

 

R. Cordella-N. Criniti, Iscrizioni latine di Norcia e dintorni, in Quaderni di Spoletium 1, Spoleto 1982.
R. Cordella-N. Criniti, Nuove iscrizioni latine di Norcia, Cascia e Valnerina, in Quaderni di Spoletium 5, 1988.
D. Manconi, Norcia. Alcune attività sulla città romana, in Spoletium 33, 1988, 63-75

Castiglione del Lago appartiene al Club de
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Oltre novanta opere del grande artista: tre celebri serie di incisioni e acqueforti e un corpo unico di ceramiche, a Palazzo della Corgna di Castiglione del Lago fino al 5 novembre 2017, nella mostra dal titolo: Pablo Picasso. La materia e il segno. Ceramica, grafica.

mostra picasso a castiglione del lago

Uno dei ritratti di Honoré de Balzac esposti presso la mostra a Castiglione del Lago

Organizzata da Sistema Museo in collaborazione con Lagodarte e promossa dal Comune di Castiglione del Lago nell’anno in cui in diversi luoghi della penisola si ricordano, con eventi e mostre, i cento anni dal viaggio in Italia di Picasso, quella di Castiglione del Lago è una bella occasione per conoscere meglio uno dei più grandi artisti del XX secolo e visitare il borgo fortificato, uno dei centri turistici più importanti del Trasimeno.
La mostra è allestita in tre sale del piano nobile di Palazzo della Corgna, il biglietto è unico e permette l’accesso al circuito museale che comprende il Palazzo, le sue sale affrescate che dominano il Trasimeno, e la Rocca del Leone, entrambi simboli di Castiglione del Lago, uno dei borghi più belli d’Italia.
Dopo la scenografica Sala dell’Investitura, che celebra con gli affreschi di Pomarancio (sec. XVI) le gesta del Marchese Ascanio della Corgna, si raggiunge la prima sala espositiva, la Sala di Fetonte, dove sono esposte nove litografie di Picasso del 1957: una serie di otto ritratti di Honoré de Balzac, padre del Realismo letterario che verranno pubblicate in quegli anni come Balzac en bas de casse et Picassos sans majuscule più il frontespizio di un’edizione di Le Père Goriot di Balzac.

mostra picasso castiglione del lago

Testa di toro da La Carmen, Picasso

Picasso avrà un’intensa produzione incisoria che gli permetterà di sperimentare nella sua lunga carriera di artista diverse tecniche e materie, e di trasformare chimicamente e meccanicamente il segno grafico.
La seconda sala espositiva, allestita nella Sala dell’Eneide, propone dodici tavole in acquaforte e acquatinta del 1968, più un frontespizio, che Picasso realizza per illustrare la commedia teatrale Le Cucu Magnifique di Crommelynck, amico di vecchia data. Prendendo ispirazione dalle proprie conoscenze mitologiche, tra cui l’immancabile Minotauro, Picasso riesce a raccontare le conseguenze tragiche del sentimento della gelosia, ma con spirito farsesco. Il tracciato espositivo ci porta nella Sala degli Dei

mostra picasso a castiglione del lago

Testa di donna, Pablo Picasso

dove sono presenti trentotto tavole incise a bulino più due frontespizi del 1949, in cui Picasso evoca La Carmen, con una serie di visi di uomo e di donna stilizzati, costumi andalusi, teste di toro e corride, realizzate per illustrare la novella di Prosper Mériméé del 1845 trasposta in musica da Bizet nel 1875. Sarà l’ultima opera incisoria a bulino di Picasso a Parigi. Dal 1947 si trasferirà in Costa Azzurra dove prevarrà il suo interesse per la scultura, grazie alla presenza di molte manifatture ceramiche e forni. La ceramica gli permetterà di sperimentare la materia terra, modellandola e dipingendola trovando nuove soluzioni: la mostra presenta ventinove manufatti fittili del periodo 1948-1969, creazioni tradizionali e nuovi assemblaggi, reinvenzioni come i vasi strutturali, che perdono la loro funzione e diventano sculture, le brocche-gufo e i piatti con ritratto smaltati.


Orari di apertura: tutti i giorni ore 9.30-19. La biglietteria chiude mezz’ora prima. È possibile prenotare l’apertura straordinaria per visite riservate.
Biglietti: Il biglietto comprende la visita a Palazzo della Corgna e alla Rocca del Leone. Intero 8 euro; ridotto 5 euro (gruppi di oltre 15 unità, ragazzi fino a 25 anni); ridotto famiglia 18 euro (3 persone), 22 euro (4 persone); biglietto unico residenti Comune di Castiglione del Lago 4 euro; ridotto famiglia residente 10 euro (3 persone), 12 euro (4 persone); omaggio bambini fino a 6 anni.
Informazioni: Palazzo della Corgna 075 951099 – cooplagodarte94@gmail.com
Prenotazioni: Sistema Museo call center 0744 422848 (dal lunedì al venerdì 9-17, sabato 9-13, escluso i festivi) – callcenter@sistemamuseo.it


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Paciano appartiene al Club de
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Paciano, un delizioso borgo di appena novecentoquaranta abitanti, sorge sulle verdi colline che si affacciano sul Lago Trasimeno. Conosciuto ormai da tempo come uno dei Borghi più Belli d’Italia e scelto da molti stranieri come luogo ideale per acquistare una seconda residenza, custodisce, nel cuore del centro storico all’interno del seicentesco Palazzo Baldeschi un museo atipico il cui obiettivo è quello di mettere in scena un ricco patrimonio fatto di memorie, di ricordi, di testimonianze sul saper fare artigiano. 

Questo è TrasiMemo, il museo della memoria artigiana di tutti quei mestieri che hanno preso vita nel corso del tempo sulle terre lambite dal lago.


Fiore all'occhiello della comunità


TrasiMemo è un progetto innovativo voluto e fortemente desiderato in primo luogo dagli abitanti di questo piccolo comune, cittadini responsabili che si prendono cura del proprio patrimonio in cui vedono una generosa spinta propulsiva verso un futuro di rinnovamento. Entrando nella sala del museo subito si respira un sentimento di comunità; non è raro incontrare cittadini volontari all’Info Point o chi in questo momento sta all’amministrazione comunale; ognuno di loro avrà da raccontare un aneddoto o un particolare personale che andrà ad arricchire la già speciale visita al museo.
L’allestimento è assai piacevole. L’ambiente è accogliente, i rumori tipici delle lavorazioni introducono i visitatori nelle realtà artigiane sollecitando l’udito; luci calde accompagnano i loro passi e attirano l’attenzione su dettagli mai scontati. Si ha l’impressione di attraversare un archivio dove sono contenuti documenti di vario genere divisi nei quattro ambiti principali: lavorazione di ferro e metalli, legno, cotto e tessile.

museo a paciano

I cassetti della memoria


Cari visitatori, non vi aspettate di trovare tomi da sfogliare, ma lasciatevi incuriosire dai cassetti delle quattro scrivanie e dallo schedario posizionato all’ingresso; aprite questi cassetti ed ammirate i tesori che contengono: un tombolo per il ricamo, fili colorati, fusi, ma anche pinze, lime, pialle e poi ancora disegni, colori e maioliche. Tutto il sapere della tradizione artigiana condensato in piccoli oggetti dal forte potere evocativo. E poi c’è lo schedario, pieno di volti, di chi il mestiere lo fa ancora e con passione o di chi vorrebbe passare il testimone a validi eredi dalle mani d’oro.
trasimemo umbriaSono stati questi artigiani i protagonisti dei tanti racconti che animano le pareti di TrasiMemo nonché i fornitori del materiale custodito nella Banca della Memoria; fautori di tante opere che ancora fanno parte dell’arredo urbano del borgo, sono anche gli animatori dei laboratori organizzati dal museo. Periodicamente infatti è possibile partecipare ai workshop proposti e rivolti sia agli adulti che ai bambini per testare con mano e mettersi alla prova in un’esperienza di lavoro artigianale vero!

Un museo smart


L’esperienza di una visita a TrasiMemo è entusiasmante per tutti; oltre a toccare e vedere affascinanti oggetti significativi, ci sono quattro grandi pannelli riassuntivi, uno per ogni area, che raccontano in pillole lavorazioni, aneddoti e segreti legati alla vita quotidiana e alla storia di quel mestiere. In più, contenuti multimediali contribuiscono a rendere più smart l’esperienza al museo.
Di grande impatto è la parete di parole, divertitevi a scegliere e fotografare quella che più ricorderà la vostra visita. Non dimenticate infine, usciti dal museo, di andare a cercare gli oggetti simbolo dell’attività artigiana che fanno bella mostra di sé per le vie del borgo di Paciano. L’illuminazione pubblica, i numeri civici dipinti su maioliche e la struttura in ferro del pozzo cittadino sono solo alcuni esempi.
Quindi, perché andare a vedere TrasiMemo?
«TrasiMemo è un luogo di tutti e per tutti: è degli artigiani e di chi ha memoria dei saperi locali; è delle persone che abitano il territorio e che in esso continuano a pensare spazi di lavoro e di vita; è dei professionisti del patrimonio che, attraverso la ricerca, provano a tutelare le forme del ricordare, sistematizzandole in narrazioni per il futuro; è dei visitatori che decideranno di attraversare le zone del Trasimeno conoscendo meglio il rapporto tra i suoi abitanti, i suoi paesaggi e le sue risorse locali.»

TrasiMemo, il museo della memoria artigiana – Paciano

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Sellano appartiene al Club de
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Un salto nel passato di quasi due secoli, per scoprire una delle ultime voci bianche della Musica Sacra. Dalle umili origini, alla direzione della Cappella Sistina Vaticana: è il 16 aprile del 1829 quando a Sterpara, nel comune di Sellano, nasce Domenico Mustafà, il cantore evirato distintosi nel tempo per un eccellente virtuosismo vocale, oltre che per essere un geniale compositore.

Non tutti – per fortuna – dimenticano i personaggi del passato e si possono rintracciare omaggi al Verdi della Musica Sacra, come definito da alcuni nel tempo, nei luoghi dove vive e si forma divenendo cantore, direttore e compositore.

Il percorso a ritroso parte dal sapore della sua terra, laddove è cresciuto, attraverso i luoghi di nascita e crescita che lo celebrano. È il caso della Sala Domenico Mustafà, situata nel Castello di Postignano, a Sellano, che dedica al celebre Maestro uno spazio all’interno delle sue mura, luogo che spesso ospita eventi musicali.

L’estro geniale e la caratteristica voce bianca, frutto di un’evirazione, consentono a Mustafà di avviarsi verso una carriera importante. Non si ha certezza in merito alla causa della sua castrazione, ma la più accreditata sembrerebbe essere per volontà di suo padre. Si tratta di una scelta attuata al tempo da molte famiglie povere che, volendo assicurare un futuro migliore ai propri figli, decidono di sottoporli a questa pratica, sperando che li aiuti ad avviarsi alla carriera di cantori.
Da giovanissimo arriva a Roma, ma è necessario attendere il 1848 perché il futuro Maestro sia ammesso come Soprano alla Cappella Sistina, dove tenta – senza ottenere risultati – di attuare delle riforme. Non riuscendoci, decide di ritirarsi dall’incarico nel 1870 e tornare in Umbria per stabilirsi a Montefalco. Tuttavia, le pressioni dei colleghi e dei personaggi del tempo, lo convincono ad accettare la direzione artistica della Società Musicale Romana dal 1874 fino al 1884, ottenendo anche la nomina di Direttore Perpetuo della Sistina nel 1878; ne abbandona però l’incarico nel 1887 per tornare a Montefalco, presso la sua dimora chiamata “Villa Cavolata” e attuale B&B Villa Mustafà, per celebrare i suoi ultimi anni di vita accanto ad una donna.
La città umbra lo omaggia dedicandogli Piazzetta Mustafà.

Piazzetta Domenico Mustafà 

Targa dedicata a Domenico Mustafà nella piazza a lui dedicata

Il Maestro si cimenta molto presto nella composizione sia nello stile organico quanto nel genere a voci sole, molte delle quali esclusivamente composte per la Cappella Sistina. Tra le opere più famose si cita Tu es Petrus, eseguita nel 1867 per celebrare il centenario di San Pietro, nella Basilica Vaticana; un evento mai tentato prima, che suscita invidia, stima ed entusiasmo al tempo.

È indubbia la sua fisicità e il carattere irrompente e nel 1894 Mustafà decide di celebrare il terzo centenario dalla morte di Giovanni Pierluigi da Palestrina con un grande concerto chiedendo ai maestri del tempo le loro composizioni a sole voci e per eseguirlo con sicurezza di intonazione, richiede l’ausilio di un armonium. A questa decisione si oppone il Maestro Giuseppe Verdi, scatenando una lite tra i due, un dissenso che raggiunge la pace solo dopo due anni, quando si incontrano a Montecatini e Verdi ammette l’errore.

Articolo dell’epoca che riporta la notizia della pace fra Domenico Mustafà e Giuseppe verdi

Nel 1877 compone musiche anche per la celebrazione del Patrono San Feliciano, nella Cattedrale di Foligno, dove il successivo anno dirige Musica, solenne a piena orchestra, da lui composta.

Come si può immaginare, il Maestro essendo evirato non ha figli, ma alcuni suoi discendenti ne conservano la storia e le virtù, come la famiglia Postelli. Nell’incontro con il pronipote Massimo si percepisce la passione che si tramanda da padre in figlio e racconta che: «Domenico Mustafà ha due sorelle e un fratello, quest’ultimo ha dei figli, tra cui Ottavio, mio bisnonno che purtroppo nasce quando suo padre è in carcere, per avere rubato delle pecore, e non può essere da lui riconosciuto all’anagrafe. Per non marchiarlo a vita, si decise di cambiare il suo cognome da Mustafà a Postelli. Tuttavia, sembrerebbe che l’origine del cognome Mustafà si debba alla migrazione di fedeli mussulmani dalla Turchia al territorio sellanese. In ragione del loro credo, non essendo consumatori di carne di maiale, sono utilizzati al tempo dalla popolazione locale per la guardia a questi animali».

Monumento funebre in onore di Domenco Mustafà, nel cimitero cittadino di Montefalco

Una lunga vita per Domenico Mustafà che si spegne a Montefalco all’età di ottantatré anni, nel 1912, nella città scelta da lui anni prima, lasciando un patrimonio importante nella storia della Musica Sacra. È seppellito nel Cimitero cittadino, dove gli rende omaggio un monumento marmoreo che lo raffigura insieme ad altri interpreti della Cappella Sistina.

 

 

 


Fonti

Informazioni tratte dall’intervista con il pronipote del Cantore, Massimo Postelli, e dal libro da lui stesso fornito dal titolo: “Mustafà, cantore, direttore, compositore, il Verdi della Musica Sacra. Hanno detto di lui”, a cura di Lanfranco Cesari, Giornalista.

  Montone appartiene al Club de I borghi più Belli d’Italia


«Correva l’anno 800 e sulle colline che dividono Città di Castello da Umbertide vivevano i cosiddetti popoli Arienatiche secondo quanto sarebbe stato riferito dallo storico Lucantonio Canizi in un’opera da lui scritta nel 1626, in quell’epoca abitavano nell’Alta Valle del Tevere, divisi in sei castelli.»

Storia

Con queste parole prende l’avvio la storia di Montone in un vecchio articolo;[1] mentre Mario Tabarrini scrive che «il primitivo Montone sarebbe poi stato distrutto dai Goti e solo intorno al 1000 esso fu riedificato»[2]. Di certo il primo documento che cita Montone definendolo castrum con un castaldo – diviso in due borghi e con una pieve già dotata di possedimenti terrieri posti tra le tenute dei marchesi del Colle (poi di Monte S. Maria) e del monastero benedettino di Camporeggiano – risale al 1121.

Andrea Fortebraccio, noto come Braccio da Montone (Perugia, 1 luglio 1368 – L’Aquila, 5 giugno 1424), foto Wikipedia

Nel gennaio dell’anno 1200 i due fratelli, Fortebraccio e Oddone, figli di Leonardo, chiedono a Perugia la cittadinanza, cedendo al comune ogni loro possedimento e venendo annoverati nella nobiltà cittadina con dimora nel rione di Porta S. Angelo. Anche Montone viene assegnato al contado di Porta S. Angelo e i consoli della città, firmando l’atto, scatenano la sollevazione, appoggiata da Città di Castello, della parte capeggiata dalla famiglia degli Olivi, avversa ai Fortebracci. La sconfitta dei tifernati che ne consegue, obbliga i montonesi, come tutti gli altri castelli sottomessi, a portare il palio a Sant’Ercolano. La sottomissione viene ribadita nel 1216 «con promissione di correr sempre et nella guerra et nella pace l’istessa fortuna del popolo perugino».[3]
Da questo momento e per due secoli a seguire Montone resta legata a Perugia, sebbene sempre contesa da Città di Castello, fino a che nel 1250 anch’essa finisce per sottomettersi a Perugia.
Il 1368 è un anno importante per Montone, infatti il 1° luglio nasce (alcuni storici sostengono proprio a Montone, altri invece a Perugia) Andrea Braccio da Montone, il più grande condottiero di ventura umbro. Nel 1392 lo troviamo schierato dalla parte dei nobili perugini in lotta contro i Raspanti, i quali però hanno la meglio e mandano in esilio tutti gli avversari sconfitti; compreso Braccio, che si rifugia a Montone. Da qui nel 1394 tenta di occupare la Fratta (l’odierno Umbertide) per impedire che finisca nelle mani dei Raspanti perugini, ma un agguato lo rende prigioniero. Interviene Biordo Michelotti a liberarlo, che era a capo dei Raspanti perugini, ma pretende che gli venga ceduto Montone, pertanto «l’avventura della Fratta costò a Braccio l’onore e alla famiglia il feudo»[4].
Successivamente Braccio lascia Montone e passa al servizio di Firenze. Alla morte di Biordo Michelotti i fuoriusciti tentano di rientrare a Perugia così Braccio, alleatosi con Bartolomeo degli Oddi detto il Miccia, insieme ad un piccolo drappello di uomini cerca di impossessarsi di Perugia, ma questa per difendersi si sottomette al Duca di Milano. Braccio passa poi al servizio di Alberico da Barbiano che si trovava in guerra con i bolognesi e poi di Ladislao, re di Napoli. Il 28 agosto 1414 l’antipapa Giovanni XXIII concede a Braccio e ai suoi discendenti la signoria perpetua di Montone. Nel 1416 Braccio attacca Perugia e ottiene a Sant’Egidio, dopo una cruenta battaglia, una schiacciante vittoria sui suoi nemici, così il 19 luglio può entrare trionfalmente a Perugia dove viene acclamato signore. Seguono le conquiste di Todi, Terni, Narni e Orvieto e ancora Montefeltro e Urbino.
Braccio Fortebracci muore a causa delle ferite riportate in battaglia a L’Aquila nel 1424. Con la sua scomparsa il Pontefice riprende possesso dei territori conquistati da Braccio e Montone nel 1478 diviene parte integrante dello Stato della Chiesa: le sue mura vengono distrutte così come la dimora della famiglia Fortebracci «che era delle più belle e magnifiche d’Italia»[5]. «Alla morte del grande Braccio […] il paese cessa di essere uno dei principali protagonisti nella storia dell’Italia medioevale e il suo nome ricorre con sempre minore frequenza nelle cronache del tempo»[6]. Ma la storia di Montone continua e dal 1518 al 1640 assistiamo alla presenza nella contea (elevata a marchesato nel 1607) della famiglia tifernate dei Vitelli a cui papa Leone X l’aveva data come compenso per l’aiuto prestato nella conquista del ducato di Urbino. Ultimo marchese è Chiappino Vitelli, alla cui morte Montone passa al governo diretto della Chiesa. Dopo Napoleone si mantiene libero comune e con il regno d’Italia entra a far parte del mandamento di Umbertide.

Chiesa di San Francesco


Foto di Enrico Mezzasoma

L’edificazione della Chiesa di San Francesco viene fatta risalire al primo decennio del Trecento, ma recenti ricerche d’archivio compiute da Maria Rita Silvestrelli hanno prodotto nuovi risultati per la ricostruzione della storia dell’insediamento francescano documentandolo già dal 1268[7]. Essa sorge all’interno delle mura cittadine, sul luogo denominato Castelvecchio, uno dei sei castelli situati all’imbocco della valle del Carpina e del Tevere. «Così, mentre sul colle, detto il Monte, dominavano le magioni dei Fortebracci e degli Olivi simbolo di guerra e di potenza, sull’altro colle, dove esisteva ab antiquo un oratorio dedicato a S. Ubaldo, i Minori Conventuali costruirono la loro chiesa, come simbolo di pace e di carità»[8]. La chiesa, di cui non si conosce l’architetto, presenta la struttura tipica degli edifici religiosi degli Ordini mendicanti: forme semplici e lineari, unica navata con abside poligonale, copertura a capriate.

Interno chiesa San Francesco, foto gentilmente concessa dal comune di Montone

I resti degli affreschi più antichi, databili alla seconda metà del Trecento, fanno ritenere che fin dalla sua costruzione la chiesa sia stata oggetto di un ampio intervento decorativo, tuttavia è nel secolo successivo che la sua decorazione consegue gli esiti più alti, quando divenne la chiesa di famiglia dei Fortebracci che la arricchirono di altari, suppellettili e dipinti. Al pittore di Braccio, al ferrarese Antonio Alberti tra il 1423 e il 1424 si devono le scene della Vita di S. Francesco e del Giudizio universale. Si deve invece al figlio di Braccio, Carlo Fortebracci, l’erezione di altare a metà della parete di sinistra della chiesa come ex voto per la nascita del figlio Bernardino. Il figlio Bernardino, come visibile sull’iscrizione posta nella targa in basso, commissionò al perugino Bartolomeo Caporali un affresco a completamento dell’altare voluto dal padre. Si deve invece a Margherita Malatesta, moglie di Carlo, la commissione del gonfalone a Bartolomeo Caporali. Nei primi anni del Cinquecento la chiesa si arricchisce delle belle porte lignee intagliate di Bencivenni da Mercatello. Durante l’occupazione francese il complesso subì gravi danni e a causa di un incendio andò perduto il ricchissimo archivio della chiesa-convento e con esso la gran parte dei documenti conservati oltre alla mobilia e agli affreschi con i quali era interamente decorata.
Oggi la chiesa è parte integrante del complesso museale, costituito oltre che dalla chiesa di S. Francesco, dalla Pinacoteca comunale e dal Museo etnografico. Tra le opere di maggior pregio conservate nella Pinacoteca vanno menzionati il gruppo ligneo della Deposizione proveniente dall’antica pieve di San Gregorio Magno fuori le mura, la Madonna della Misericordia dipinta da Bartolomeo Caporali, gli alberi genealogici della famiglia Fortebracci e l’Annunciazione della Scuola del Signorelli. Il museo etnografico Il Tamburo parlante nasce allo scopo di raccogliere ed esporre in modo sistematico la collezione di oggetti africani raccolti nei numerosi viaggi dall’antropologo Enrico Castelli.

La Santa Spina


La Santa Spina, foto gentilmente concessa dal Comune di Montone

 

Racchiusa in un prezioso reliquiario d’argento un tempo era conservata nella chiesa di San Francesco, mentre ora si trova nella collegiata di Santa Maria Assunta. Molti testi ne parlano, ma il più dettagliato è senza dubbio la Lettera istorico-genealogica della famiglia Fortebracci da Montone scritta da Giovanni Vincenzo Giobbi Fortebracci, il quale racconta come «vivente il conte Carlo, siccome portava grand’affetto alla sua patria, così non volle mancare di riconoscerla con farle un preziosissimo regalo, mentre l’anno 1473 mandò con molto onore a Montone, una delle spine con le quali fu coronato il Signore N. Giesù Cristo, e la fè collocare nella Chiesa di San Francesco dè Minori Conventuali, dove si conserva anche al presente con somma venerazione e riguardo. Si può pienamente e certamente credere che sia quella, la quale più d’ogni altra penetrasse adentro nel cervello di Cristo del che si vedono chiarissimi argomenti; poiché nell’essere da capo a piedi aspersa del suo preziosissimo Sangue, vi restano due capelli sottilissimi, quali appaiono intrecciati insieme, misti col sangue, e nella sommità della Spina sopravanzano assai; sì come a piedi di quella si vede la radichetta di essi. Ma quello che è sopramodo stupendo e terribile, ogni anno nel Venerdì santo nell’ora della passione, la Spina si rinverde, il Sangue si rinfresca, e dall’una e dall’altro insieme si vedono apparire piccoli fiori aurei bianchi, azurri e verdi con alcuni splendoretti, che appariscono e spariscono; quasi ribollisse quel pretioso sangue, e la Spina non fosse arida da migliaia d’anni, ma colta in questo giorno, e ora, da uno spineto vivo e verdeggiante. Questa meravigliosa Reliquia il conte Carlo l’ebbe, essendo Generale de’ Venetiani, da un arciprete della villa di Tugnano, contado di Verona, e insieme con essa mandò a Montone l’autentica, che conservandosi in pergamena nell’armadio della Sacrestia de’ Minori Conventuali, l’ho più di una volta veduta…»[9]. Angelo Ascani due secoli più tardi attesta che la pergamena «è ora introvabile, anche se questo nulla toglie alla veridicità della traslazione a Montone d’una così preziosa reliquia» e aggiunge «lasciamo stare le fioriture leggendarie circa i prodigi verificatisi al suo arrivo a Montone […] parto della fantasia popolare degna del Seicento o giù di lì»[10]. Egli si rifà poi agli Annali di Montone che riferiscono delle feste in occasione dell’ostensione della reliquia iniziate nel 1597, mentre risale al 1635, come documentato da un manoscritto parrocchiale, la collocazione della Santa Spina in un reliquiario d’argento finemente cesellato e da quell’anno fu stabilito di spostare la festa dal venerdì santo al lunedì di Pasqua[11]. Nell’aprile del 1703 giunge una lettera da Roma indirizzata al Vice-Governatore di Montone: «la festa solita celebratasi costì nel secondo giorno di Pasqua per l’Ostensione della Santissima Spina è cagione di tantissimo concorso. Per evitare dunque i disordini, che potessero nascere, dovrà Ella ordinare al Capitano deputato secondo il solito d’assistere alla Porta con li venticinque huomini, che a tutti quelli che vogliono entrare facci lasciare le armi di ogni sorte». La Rievocazione storica della Donazione della Santa Spina è nata con la Pro Loco Montonese nel 1961. Nei primi anni era legata quasi esclusivamente all’evento religioso dell’ostensione della Santa Spina, con l’arrivo nella piazza del Conte Carlo Fortebracci che portava in dono la reliquia al popolo montonese e che negli anni successivi si è sviluppato arricchendosi nella parte del corteo storico. Anche i tre Rioni di Montone, Porta del Borgo, Porta del Monte e Porta del Verziere iniziano a prendere parte al corteo con i propri stendardi e le coppie di nobili. È invece degli anni Settanta del Novecento l’introduzione del Palio dei Rioni che si assegna con una sfida tra gli arcieri di Montone.

Per maggiori informazioni sulla rievocazione storica si veda qui

Per saperne di più su Montone

 


[1] Una finestra sull’Umbria. Montone, Spoleto, Panetto & Petrelli, 1968, p. 3.

[2] M. TABARRINI, Montone, in M. TABARRINI, L’Umbria si racconta, v. E-O, p. 418.

[3] P. PELLINI, Dell’historia di Perugia, Venezia, Giovanni Giacomo Hertz, 1664, v. 1, p. 238.

[4] A. ASCANI, Montone. La patria di Braccio Fortebracci, Città di Castello, GESP, 1992, p. 56.
[5] P. PELLINI, Dell’historia di Perugia, Venezia, Giovanni Giacomo Hertz, 1664, v. 2, p. 769.
[6] P. PELLINI, Una finestra sull’Umbria. Montone, Spoleto, Panetto & Petrelli, 1968, p. 8.
[7] P. PELLINI, M. R. SILVESTRELLI, Appunti sulla storia e larchitettura della chiesa di San Francesco, in G. SAPORI, Museo comunale di San Francesco a Montone, Perugia, Electa, 1997, p. 23.
[8] A. ASCANI, Montone. La patria di Braccio Fortebracci, Città di Castello, GESP, 1992, p. 250.
[9] G.V. GIOBBI FORTEBRACCI, Lettera istorico-genealogica della famiglia Fortebracci da Montone, Bologna, Giacomo Monti, 1689, pp. 84-85.
[10] A. ASCANI, Montone. La patria di Braccio Fortebracci, Città di Castello, GESP, 1992, p. 263.
[11] Notizia riferita da A. ASCANI, cit., p. 264.

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