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Attraversarono il Mediterraneo come oggi fanno i migranti: nel V secolo d.C. in Siria infuriavano le persecuzioni religiose a seguito dei concili orientali. Nel V secolo d.C. dalla Siria si fuggiva e si attraversava il Mediterraneo. Nel V secolo d.C. i monaci eremiti siriaci, che avevano messo la loro residenza in una grotta nel deserto per pregare in libertà, furono costretti a scappare per avere salva la vita.

Abbazia di Sant’Eutizio

Attraversarono il Mediterraneo come fanno oggi i migranti, anche quelli che provengono proprio dalla Siria, e circa 300 monaci siriani approdarono in Italia e andarono dal Papa. Il Papa vide che il loro stile di vita era conforme ai dettami della chiesa e li accettò. Con la benedizione papale lasciarono Roma alla ricerca di un luogo adatto alle loro esigenze di solitudine. Alcuni risalirono la via Flaminia fino alla Valnerina e lì si fermarono. Era il luogo ideale per installarsi perché c’era abbondanza d’acqua, c’erano erbe con cui placare la fame e c’erano tante grotte sui fianchi della montagna. Lì gli eremiti si sistemarono. Tre di essi continuarono ad avanzare fino alla Valcastoriana: erano Spes, Fortunato ed Eutizio. Su uno sbalzo del terreno videro il luogo dove fermarsi per sempre. Il clima della valle era molto più rigido di quello dei deserti siriani e l’inverno era pieno di neve. I nostri intrepidi eremiti si videro costretti a edificare un riparo più valido di una grotta e non si adattava a una vita solitaria estrema.

I monaci siriani misero le basi anche per la vita in comunità, cenobitica e, mettendo una pietra sull’altra, iniziarono la costruzione di quella che sarebbe diventata l’Abbazia di Sant’Eutizio, uno dei primi complessi monastici sorti in Italia. Il V secolo è un’epoca assai remota, ma anche senza telefoni o televisioni o social le notizie si diffondevano e la presenza di monaci venuti da lontano non passò inosservata. Norcia è vicina alla Valnerina e alla Valcastoriana e sicuramente si sarà parlato in città dell’arrivo di questa gente che veniva da lontano e che viveva nelle grotte come i poveri più poveri.

 

Museo della Scuola Chirurgica di Preci

 

Le voci arrivarono fino a un ragazzo di Norcia destinato a far parlare di sé per molto tempo, un tal Benedetto da Norcia. Sembra che il giovane Benedetto sia entrato in contatto con questi eremiti, probabilmente comunicavano in latino, e il loro stile vita ispirò il ragazzo per elaborare il suo pensiero e la sua futura regola. Da questi incontri prese forma la cellula primordiale del monachesimo occidentale benedettino. I monaci venuti da fuori ignoravano tutto di quel luogo così pieno di verde e di erbe, ma presto conobbero l’efficacia delle erbe selvatiche, impararono a riconoscere quali andavano raccolte e quali erano pericolose. Era una questione di vita o di morte perché non basta raccogliere e mettere in bocca, il rischio di mangiare piante letali è elevatissimo. Un giorno dopo l’altro, assaggia un’erbetta oggi e cuoci una radice domani è andata a finire che i monaci di sant’Eutizio sono diventati degli erboristi raffinati e non solo. I santi monaci che erano approdati in Italia avevano portato con sé il sapere dell’arte medica, che in Siria era più avanzata, e misero le basi di quella che sarebbe diventata la famosa Scuola chirurgica preciana. Ci sarebbe ancora molto da raccontare e a Sant’Eutizio mi sarebbe piaciuto visitare il museo dedicato all’erboristeria e all’arte della chirurgia preciana. Purtroppo nel 2016 in terremoto ha devastato l’Abbazia che è a tutt’oggi impraticabile. A breve inizieranno i lavori di restauro di questo luogo così antico e così legato al nostro passato remoto. Non ci resta che aspettare.

Fino agli anni Sessanta del secolo scorso, le donne provenienti dal reatino, ternano e ascolano, salivano fino a Castelluccio di Norcia per raccogliere a mano la celebre lenticchia nella fase della carpitura. Da qui il nome dato a queste lavoratrici: le Carpirine.

Per la prima volta ho sentito parlare delle Carpirine dall’attuale vicesindaco di Monteleone di Spoleto, Federica Agabiti, mentre mi narrava della strada che corre nei pressi dell’antico borgo, che partiva dalla conca ternana fino a giungere a Castelluccio. Questo sentiero, fino al secolo scorso, era percorso a piedi dalle Carpirine. Per queste donne, andare a raccogliere la lenticchia, aveva molti significati: riportare un importante contributo economico a casa, uscire dalla consueta quotidianità e per le più giovani, conoscere dei bei giovanotti.

 

lenticchia

Le Carpirine erano suddivise in vari in gruppi ed erano accompagnate nell’ultimo tratto da un musico, che con il suo strumento preannunciava l’arrivo e sosteneva il loro canto fatto soprattutto da stornelli. Lavoravano sempre in piccole compagini e quando avevano terminato di raccogliere la lenticchia su un campo, le tipiche note dell’organetto erano il segnale di avviso che avevano finito il lavoro e potevano iniziarne un altro. A questo punto le donne aspettavano il successivo committente che le avesse ingaggiate per prime. Le lavoratrici raccoglievano la lenticchia in mucchietti che lasciavano sul campo a essiccare. Fare questo lavoro era una gran fatica: cogliere la lenticchia dall’alba al tramonto, piante basse, tutto il giorno sotto il sole.
Ci sono anche dei racconti di chi ha vissuto queste esperienze che ricorda come le giovani Carpirine, durante la fase della battitura, ballavano sopra la lenticchia essiccata, accompagnate dalle note del solito organetto. Era un momento di grande festa!
Il sentiero delle Carpirine, che transita anche nei pressi di Monteleone di Spoleto, andrebbe ripercorso e rivalutato e potrebbe essere d’interesse turistico, magari affiancato da qualche reperto storico (fotografie, lettere di corrispondenza, attrezzi). Un recupero che vada ad alimentare una sede storica di rimembranza e che testimoni, soprattutto ai più giovani, quello che hanno vissuto queste fantastiche donne nel segno dell’emancipazione femminile e della tradizione contadina dei luoghi.

Ingredienti:

  • 400 g di farina
  • 200 g di zucchero
  • 100 g di uvetta
  • 1 scorza di limone non trattato
  • 50 g di lievito di birra
  • ½ litro di mosto fresco bianco
  • 1 bicchiere di olio extravergine d’oliva
  • 1 pizzico di sale

 

Preparazione

Far intiepidire due o tre cucchiai di mosto, porvi mezzo cubetto di lievito e lasciar riposare, coperto, fino a quando sulla superficie non compariranno delle crepe (saranno necessarie circa 2 ore). Sciogliere in poca acqua tiepida il lievito rimasto. Mescolare farina, zucchero, uvetta, scorza grattugiata di limone, mosto e lievito. Impastare fino a ottenere una pasta di pane piuttosto morbida. Se l’impasto fosse troppo fluido, unire un po’ di farina; se fosse troppo duro, aggiungere del mosto.
Lavorare bene e ricavare delle pagnottelle del diametro di 5-6 centimetri. Disporle su una placca da forno unta, piuttosto distanti l’una dall’altra, coprirle con un telo pulito e poi con uno leggermente impermeabile. Far lievitare 2-3 ore. Infornare a 180° e cuocere per 20-30 minuti.

 

 

I maritozzi al mosto sono tipici dell’Umbria del sud, in particolare del ternano. Si preparano anche maritozzi di forma ovale, senza mosto nell’impasto (e, in questa versione, a Norcia erano tipici della trebbiatura) oppure sempre con il mosto, ma cotto. Il mosto cotto, dolcificante tipico di tutta l’Italia contadina, si otteneva facendo cuocere per molte ore il mosto fresco in recipienti di rame bassi e larghi. Si arrivava al giusto punto di cottura quando il liquido si fosse ridotto di 2/3 rispetto a quello iniziale. L’uso del mosto cotto, squisito ma di lunga preparazione, è andato estinguendosi mano a mano che tutti potevano permettersi di acquistare lo zucchero. I maritozzi sono una preparazione che si trova anche nel Lazio.  

 


Per gentile concessione di Calzetti&Mariucci.

Foto di Strada dei Vini Cantico

Ogni anno, tra giugno e la prima metà di luglio, migliaia di turisti si riversano nel piccolo paese di Castelluccio di Norcia, per assistere alla famosa “Fiorita”, cioè la fioritura di lenticchie e di “piante infestanti” che si sviluppano durante la crescita del legume.
Il costante aumento di turisti rappresenta certamente una grande opportunità per l’economia del territorio, ma deve contemplare anche il concetto di sostenibilità ambientale, in modo tale che gli ingenti flussi di visitatori non vadano a incidere negativamente sui delicati equilibri ecosistemici che caratterizzano il contesto ambientale.
Un turismo consapevole per uno sviluppo sostenibile che è l’obiettivo del Parco Nazionale dei Monti Sibillini e del suo Presidente, il professore Andrea Spaterna.

Buongiorno professore, innanzitutto, secondo lei, che cosa è che spinge migliaia di persone, da ogni parte del mondo, a venire ad ammirare la fioritura di Castelluccio?

I Piani di Castelluccio di Norcia sono un contesto naturalistico di assoluto pregio, Sito di Interesse Comunitario, uno scenario di unica bellezza durante tutto l’arco dell’anno, che si esalta nei mesi di giugno e luglio con il ripetersi del suggestivo spettacolo della fioritura, che “colora” tale contesto, come una tavolozza di un pittore, regalando ai visitatori un’esperienza memorabile. Il segreto sono le cosiddette “piante infestanti”, che, grazie alla totale assenza di pesticidi nella coltivazione delle lenticchie, nascono e fioriscono in momenti differenti, andando a creare un grande mosaico colorato: dal giallo della senape selvatica al rosso del papavero e al blu del fiordaliso. I campi non seminati a lenticchia aggiungono poi ulteriori colori, come il verde del grano e il viola tenue della lupinella. Il risultato è un suggestivo scenario policromo.

 

fioritura_castelluccio

Piana di Castelluccio di Norcia, foto di Enrico Mezzasoma

Quest’anno si sono prese iniziative riguardo la gestione dei flussi turistici, bloccando l’accesso agli autoveicoli, esclusi i residenti, e favorendo un servizio di navette.  Qual è stata la ragione principale di questa decisione?

Innanzitutto, quest’anno è intervenuto un fattore di discontinuità con il passato, una sentenza della Corte di Appello di Roma per gli usi civici che, nel marzo scorso, ha confermato quanto già stabilito dalla sentenza del Commissario agli usi civici di Lazio, Umbria e Toscana e cioè il divieto di realizzare parcheggi per autoveicoli, anche solo temporanei, sul Pian Grande di Castelluccio. Questo ha indotto a ritenere che, con la fioritura di quest’anno, si sarebbe potuta aggravare la già critica situazione del flusso veicolare registrata negli anni precedenti, soprattutto nei fine settimana. Si è aperto pertanto un lungo confronto tra i diversi attori istituzionali dei due versanti, umbro e marchigiano, che ha visto l’Ente Parco svolgere un ruolo di mediazione per cercare di contemperare le diverse istanze. Purtroppo, malgrado i tanti incontri e l’impegno di tutte le Istituzioni, l’intento non è andato, almeno per il momento, a buon fine, in quanto non si è riusciti a fare sintesi delle diverse esigenze e aspettative, peraltro tutte più che comprensibili e legittime.
Quello che è seguito è l’ormai nota iniziativa, assunta dal versante umbro, di chiudere ad auto e camper l’accesso nei primi due fine settimana di luglio, lasciando libero transito solo ai mezzi a due ruote, alle auto di residenti e autorizzati, così come a navette e bus turistici, organizzando per gli altri mezzi un servizio di prenotazione on line presso i parcheggi di corona, con la possibilità di arrivare poi a Castelluccio attraverso un sistema di navette.
Certamente è di tutti la consapevolezza che la fioritura rappresenta un’opportunità straordinaria e attesa per l’economia locale, messa in ginocchio da tutta una serie di eventi avversi (tra gli ultimi, il terremoto del 2016 e l’emergenza pandemica), e quindi non solo riferita alla frazione di Castelluccio e dei tre Comuni porte di ingresso ai piani (Norcia, Castelsantangelo sul Nera, Arquata del Tronto), ma anche ai numerosi altri comuni che, ad anelli concentrici, beneficiano dell’impennata turistica che si registra in questo periodo.

 

Cresta del Monte Sibilla, Parco dei Monti Sibillini, foto di Eleonora Cesaretti

Un turismo sostenibile non si può scindere da una consapevolezza e responsabilità dei turisti. Come si può promuovere un turismo più consapevole e sostenibile?

 

Faggeta nei pressi dell’Eremo di San Leonardo, Parco dei Monti Sibillini, foto di Eleonora Cesaretti

Il Parco è ricco di siti bellissimi ma altrettanto fragili, che vanno pertanto tutelati e protetti. Uno scrigno di straordinaria biodiversità, con un inestimabile patrimonio naturalistico che impone rispetto e attenzione: è questa la consapevolezza che l’Ente Parco cerca di trasmettere ai turisti, attraverso le campagne di sensibilizzazione, le guide del Parco, gli addetti ai tanti centri di Educazione ambientale e di Informazione, ma anche attraverso accordi di collaborazione, come quello con il Club Alpino Italiano, finalizzato a trasmettere, soprattutto alle nuove generazioni, la cultura per la montagna e per l’ambiente. Tutto improntato a un turismo inteso non come una mera fruizione del territorio, ma come un’esperienza di intima connessione con il contesto naturale.
Tra le iniziative più recenti in ambito di sostenibilità vi sono quelle riferite alla mobilità dolce e a forme di fruizione alternativa.
Sulla mobilità dolce il Parco sta investendo, di comune accordo con le amministrazioni locali, risorse importanti, con la realizzazione di piste ciclabili, stazioni di scambio e di ricarica per e-bike, auto e navette elettriche: una modalità di fruizione in grado di non impattare negativamente sull’ambiente in termini di inquinamento e che consenta un’esperienza rispettosa e al contempo piacevole e suggestiva.
Vi è poi la fruizione alternativa, che coniuga l’amore per la natura e la montagna con aspetti salutari e culturali. Un esempio è l’iniziativa denominata “bagno di foresta”, camminate emozionali all’interno dei boschi del Parco, che, oltre a permettere di godere di sentieri di rara bellezza e di una straordinaria biodiversità animale e vegetale, possono avere un riscontro positivo sia a livello psichico, sia a livello fisico, grazie alla possibilità di respirare delle sostanze prodotte dalle piante, i terpeni, con acclarati effetti benefici sullo stato di salute. Altra iniziativa è la connessione tra la rete sentieristica e quella museale, che permette di trasformare un’esperienza naturalistica in una che sia anche culturale, facendo scoprire, ad esempio, come dei pregevoli manoscritti leopardiani, tra cui una delle due versioni originali della poesia l’Infinito, siano custoditi nel Museo di Visso.

In conclusione, qual è quindi l’obiettivo da raggiungere in ambito turistico?

Sicuramente quello di promuovere sempre più e sempre meglio il Parco dei Monti Sibillini, per raccontare le sue straordinarie bellezze, naturalistiche, paesaggistiche, architettoniche e culturali, al fine di incrementare, in un contesto di sicurezza e di sostenibilità ambientale, quel turismo lento, responsabile e consapevole, in grado anche di contribuire a rigenerare il tessuto socioeconomico del territorio di riferimento.

Sulla stele a lui dedicata, posta nell’atrio della Castellina a Norcia, è scritto: «Antonio Ferri… Pioniere degli studi sui fenomeni aerodinamici e termo-fluido-dinamici delle altissime velocità. Geniale progettista, apriva nuovi campi della scienza, proiettando l’uomo alla conquista dello spazio…».

Il geniale Antonio Ferri, nato in Umbria nella bellissima Norcia nel 1912, fu un ingegnere aeronautico che diede vita agli studi sulle velocità ultrasonore e avviò un eccezionale impulso al progresso aeronautico e spaziale. Fu il primo a sviluppare la ricerca sul volo supersonico e spaziale, aprendo la strada al mondo su nuovi orizzonti da scoprire.

Antonio Ferri

Tra gli anni Trenta e Settanta è stato il riferimento mondiale tra le autorità scientifiche in materia di volo supersonico, ipersonico e spaziale. A partire dal 1937, Antonio Ferri intraprese gli studi nel centro di ricerca di Guidonia, divenendo il riferimento scientifico mondiale per le alte velocità aeronautiche e realizzando, per le sue analisi, la prima galleria del vento supersonica.
Durante la Seconda Guerra Mondiale – dopo l’8 settembre 1943 – rifiutò di trasferirsi in Germania per continuare le sue ricerche ma scelse di far parte della resistenza partigiana nell’Appennino umbro-marchigiano. Nel 1944 andò a lavorare e fare ricerca in U.S.A., su invito personale del Presidente Roosevelt.

Gli innumerevoli studi

I profili alari per le alte velocità aeronautiche, i problemi di rientro nell’atmosfera terrestre dei velivoli spaziali, la ricerca sulla combustione supersonica e sulla termo-fluidodinamica e molto altro, furono tra gli studi che Antonio Ferri compì dando soluzioni ai problemi che, altrimenti, non avrebbero reso possibile molte imprese memorabili in campo spaziale e aeronautico.
Nel tempo l’ingegnere fu consulente dei Presidenti statunitensi, Kennedy, Johnson e Nixon. Dobbiamo ricordare che il 15 dicembre 1964, con la missione San Marco, fu lanciato il primo satellite italiano nello spazio e l’Italia è stata tra le prime Nazioni al mondo, dopo URSS, USA e Canada, a inviare un oggetto oltre l’atmosfera terrestre. Il celeberrimo programma spaziale americano Shuttle ha goduto di importanti e fondamentali contributi del genio dell’ingegnere nursino.

Antonio Ferri stringe la mano al presidente Kennedy

Ancora oggi i suoi studi sono di grande attualità scientifica e tecnologica, per la realizzazione e il miglioramento di velivoli aeronautici a lunga percorrenza e con velocità ipersoniche. Il folignate Arnaldo Ceccato, generale in congedo dell’Aeronautica Militare, ha scritto una dettagliata e interessante opera, Il genio italiano di Antonio Ferri. Dal muro del suono allo spazio, dove racconta dell’affascinante e movimentata vita dello studiatissimo e geniale scienziato umbro. Il generale Ceccato, durante un periodo del suo lavoro, trattava documenti e atti riservati, che gli permisero di venire a conoscenza delle pubblicazioni del Ferri. L’ingegnere umbro veniva considerato come il riferimento principale al mondo, per tutti gli studiosi di aerodinamica supersonica.

Era febbraio quell’anno e la neve scendeva e copriva l’Europa. Tutta l’Italia lentamente si trovò imbiancata dal Brennero a Palermo.

In Umbria scesero prima 10 centimetri poi 50 e la vita si fermò a guardare. Lu nevone, la chiamarono a Norcia. Dopo la neve la temperatura cominciò a scendere, poi nevicò ancora e poi gelò. A Terni la temperatura scese fino a -15° C e il termometro si schiantò. L’Italia batteva i denti. Quando l’inverno sembrava finito – era il 13 marzo – il cielo si coprì ancora di nubi grigie, la primavera fece un passo indietro e di nuovo cominciarono a scendere inesorabilmente i fiocchi bianchi, tanti, troppi.

L’Italia sommersa dalla neve

Dopo la neve tornò ancora il gelo, duro, terribile, crudele. Il proverbio dice sotto la neve pane, ma la neve del ‘56 non ebbe pietà per il pane. Il freddo intenso distrusse il grano nei campi, bruciò gli olivi e seccò le viti. Gli agricoltori si trovarono senza niente da mangiare, niente da vendere, niente da vivere. Le industrie erano scarse in Umbria, nel ‘56, non c’erano reti di salvataggio per chi lavorava la terra.

Un duro inverno

Fu un inverno di dolore che travolse intere famiglie e che cambiò la vita di molte persone. Troppi furono costretti a lasciare la loro casa, il loro mondo, gli affetti più cari e prendere la via dell’esilio. Ci fu chi si spostò solo fino a Terni o a Roma e chi fu costretto ad andare lontano, fino in Germania o in Francia o in Belgio. Chi rimase doveva continuare a vivere e fare i conti con la natura ma essa, con la sua forza devastatrice, non aveva tenuto conto della tenacia degli agricoltori.
Ci furono piantagioni che andarono interamente sostituite. Si buttarono via i frutti sugli alberi e anche gli alberi. Gli olivi che tenacemente resistono anche quando la temperatura scende sottozero, si arresero sotto la sferza del gelo troppo intenso e troppo lungo: si spaccò la corteccia, i rami cedettero sotto il peso della neve, le foglie mutarono colore da verde a marrone. Le colline avevano cambiato volto e gli olivi sembravano zombi. I danni erano gravi, anzi gravissimi, ma quello che si vedeva non era tutto. Gli alberi si alzano da terra belli e frondosi, ma sottoterra ci sono le radici che sono l’apparato vitale e le radici avevano resistito ed erano vive.

 

Norcia sommersa dalla neve nel 1956

La rinascita a primavera

Non tutto è perduto! fu il grido che si levò ovunque. Quando finalmente la primavera arrivò si portò via la neve. Allora andarono tutti nei campi con la sega e tagliarono gli alberi fino a metà tronco, li capitozzarono e rimase la ceppaia. Poi tornò di nuovo l’inverno e tornò la primavera e la ceppaia cominciò a gettare i primi rametti e lì i contadini intervennero.
Invece di far crescere un solo tronco ne lasciarono crescere tre, con spazio e aria tra i rami per difenderla meglio dai vari parassiti che l’attaccano e distruggono il raccolto. Avevano inventato il vaso policonico, cioè erano tre strutture piramidali che avevano la funzione di abbassare i rischi in caso di condizioni avverse. Le avversità atmosferiche sarebbero sempre tornate allora non restava che aumentare le probabilità di sopravvivenza: se i tronchi sono tre, forse uno si salva.
Dopo la gelata del ‘56 o meglio, dopo il Nevone del ‘56, il panorama delle colline umbre è leggermente cambiato: sono spariti quegli alberi biblici che avevano un solo tronco contorto, lavorato dai parassiti ma ricco di leggende e al loro posto si sono sviluppati alberi bassi, facilmente lavorabili, che, dopo un breve tronco, si aprono in tre e che vediamo ovunque attraversando la Regione.

Ingredienti

  • 40 g di tartufo nero di Norcia o bianco di Gubbio
  • 6 uova
  • 6 cucchiai di olio extravergine d’oliva
  • Sale

 

Preparazione

Fare a scaglie il tartufo; rompere in una terrina le uova, salarle e sbatterle leggermente. Versare l’olio in una padella per friggere, aspettare che sia ben caldo e versarvi le uova sbattute. Lasciar rapprendere la frittata in modo che sotto sia leggermente dorata e rimanga morbida in superficie. Togliere la padella dal fuoco, cospargrte rapidamente la superficie morbida con le scagliette di tartufo e ripiegare la frittata su sé stessa. Servire subito.

 

 

Molti mescolano il tartufo alle uova sbattute, ma questo era il modo in cui un tempo a Norcia e Gubbio preparavano la frittata di tartufi; la tecnica usata, è di fatto, quella delle omelettes ma mi pare più giusto il termine frittata, che era quello usato in queste due cittadine umbre del tartufo.

 


Per gentile concessione di Calzetti&Mariucci.

Un itinerario turistico fuori dagli schemi, tra suggestivi borghi medievali: si parte dal territorio perugino e si attraversa un lungo tratto della Valle Umbra per arrivare in terra marchigiana.

Ho scritto questo lungo articolo non nascondendo il mio amore per l’Umbria. Ho percorso questo itinerario in estate e ne ho tratto un giro turistico-leggendario che forse potrà piacere anche ad altri. Il resoconto, con notizie anche note – ma non sempre e non a tutti – mette insieme  un vero e proprio viaggio di oltre 130 chilometri da Casa del Diavolo (PG) ad Acquasanta Terme (AP). Il testo è molto lungo e così potete decidere di leggerlo a pezzi, scegliendo le località che più vi interessano, o per intero, compiendo intanto questo viaggio virtuale per poi, perché no, programmarne uno reale, che difficilmente vi deluderà. E quindi chi lo ha detto che non si può unire il Diavolo con l’Acquasanta?

In viaggio

Per chi vuol fare un giro turistico attraverso borghi e località conosciute e non e piene d’incanto, per chi ha un budget ristretto e poco tempo a disposizione propongo questo itinerario che certamente vi sorprenderà dal punto di vista paesaggistico, storico ma soprattutto leggendario.

Casa del Diavolo

Si parte da Casa del Diavolo, che è una frazione del comune di Perugia a 237 metri sul livello del mare. Il suo nome è intriso di mistero e di segreto tale da farne il luogo più inquietante di tutta la regione e tale da stuzzicare la curiosità del viaggiatore e del turista. È proprio il caso di dire: «Perché diavolo si chiama così questo posto?». Le origini del nome non sono certe e per questo si sono moltiplicate le leggende. Secondo alcuni storici l’origine è legata al passaggio di Annibale (216 a.C.) che causò così tanta distruzione e tanta morte che portò il luogo a essere considerato come la dimora del male e quindi del Diavolo.
Un’altra tesi, basata anche su reperti archeologici, fa risalire questo nome all’età medievale, quando molti bambini nascevano morti o morivano prematuramente. Non essendo stati battezzati in tempo, i bambini non potevano così accedere al Paradiso e il loro destino era l’Inferno. Secondo un’altra leggenda, d’ispirazione medievale, questo luogo era sede di una locanda dove solitamente vi soggiornavano banditi, assassini e briganti delle zone vicine. Queste frequentazioni attirarono l’attenzione del Diavolo stesso, che non esitò ad intrattenersi e a stringere patti con questi loschi figuri, per poi aprire una profondissima buca e tornare all’Inferno.
Uscendo da Casa del Diavolo si percorre la E45 e poi la strada provinciale 174 e dopo circa 19 km si arriva a Perugia.

 

cosa vedere a perugia umbria

Perugia

Perugia

Nota per le mura difensive, il Palazzo dei Priori e la Fontana Maggiore, Perugia è il capoluogo di Regione. La leggenda che caratterizza maggiormente questa città è quella che vede coinvolta anche Narni. Si narra infatti che, in epoca medievale, un Grifo, creatura dal corpo di leone e testa di aquila, tormentava gli abitanti e faceva razzia di animali dei due centri cittadini e delle campagne circostanti. Perugini e narnesi allora unirono le forze, mettendo da parte la loro rivalità, per eliminare questa bestia che alla fine, dopo dure battaglie, fu catturata. Come trofeo Perugia prese la pelle e Narni il corpo scuoiato. Da qui l’origine degli stemmi: Perugia, Grifo bianco (la pelle) in campo rosso e, Narni, Grifo rosso (il corpo scuoiato) in campo bianco.
La tappa successiva, dopo circa 20 minuti di auto, è Assisi.

Assisi

È qui che, nel 1180, nacque Francesco divenuto Santo e fondatore dell’Ordine dei Francescani. Intorno a San Francesco si mescola storia e leggenda, così agli oltre 40 miracoli riconosciuti dalla Chiesa, si aggiungono altrettante leggende che lo vedono protagonista. Vediamone una tra le più rappresentative: quella del pesce.
Si narra che un pescatore, vedendo passare Francesco, lo avesse fermato e gli avesse regalato una tinca appena pescata. Francesco accettò il regalo, ma rigettò la tinca in acqua ed iniziò a cantare le lodi di Dio. La leggenda racconta che il pesce rimase vicino al Santo a giocare e ad ascoltare le lodi e che, appena gli fu dato il permesso, tornò libero tra gli altri pesci. Ad Assisi non ho resistito a comprare i Baci, morbidi pasticcini con pasta di mandorle e granella di pistacchio e il Bocconcello, focaccia biscottata arricchita da formaggio. Continuando sempre in direzione sud, dopo circa 15 minuti arriviamo a Spello.

 

Spello

Spello

Spello è un borgo ricchissimo di storia e di arte, carico di tradizioni ma anche di leggende. La più famosa è quella legata alla figura del paladino Orlando, il celebre compagno dell’Imperatore Carlo Magno. La leggenda vuole che Orlando passasse per Spello e, nonostante la sua fama fosse grandissima, non fosse riconosciuto dagli abitanti del luogo e così rinchiuso dalle guardie in una specie di prigione. Una volta accortisi chi veramente era, gli spellani lo liberarono e lo nominarono protettore della città.
Un segno del leggendario passaggio di Orlando a Spello lo troviamo nelle mura, dove c’è un’epigrafe che allude all’eroe. A Spello ho fatto acquisti in una salumeria; palle del nonno e ciauscolo. Le avrei provate in serata, terminato il viaggio, anche se dall’aspetto mi era venuta voglia di provarle subito.
Neanche 10 minuti di auto e giungiamo a Foligno.

Foligno

Terra mistica l’Umbria, dove molti racconti, tramandati anche per via orale, hanno origini che si perdono nella memoria. Foligno per la sua posizione è considerata, fin dai tempi antichi, lu centru de lu munnu e i suoi abitanti, oltre a chiamarsi folignati si chiamano pure Cuccugnau, cioè civetta. Ci sono tre leggende che spiegano questo appellativo. La prima fa riferimento alle monete d’oro fabbricate nella zecca di Foligno e chiamate occhi di civetta. La seconda narra di una colomba di cartapesta fatta calare dal campanile della cattedrale durante la festa di Pentecoste, ma più che una colomba assomigliava a una civetta. La terza leggenda ci parla invece di come i folignati fossero degli esperti nella caccia alla civetta.
Dopo appena 12 km arriviamo a Trevi.

Trevi

Continua così il nostro viaggio attraverso le meraviglie e le leggende dell’Umbria. Nel Comune di Trevi, ma non semplicissima da trovare e tra l’altro completamente immersa nella vegetazione, si trova un luogo di culto affascinante ma anche dimenticato: l’Abbazia di Santo Stefano in Manciano. Quasi totalmente divelta, di essa oggi rimangono parte delle mura, una parte della cripta e dell’abside. Attorno a questa chiesa aleggia una leggenda che la vorrebbe come sede di un tesoro nascosto. Si narra che i monaci ivi residenti fossero talmente ricchi e pieni d’argento da poter ferrare con questo metallo i propri cavalli. La leggenda continua a narrare che i lupi, mentre attaccavano i cavalli, spaventati per la luminosità dell’argento, scapparono via senza colpo ferire. Si dice che questo tesoro è ancora sepolto sotto l’Abbazia.
Passeggiando tra gli oliveti è obbligo visitare anche il Santuario della Madonna delle Lacrime e, a proposito di oliveti, non può mancare l’acquisto di una bottiglia d’olio extravergine, il più rinomato dei prodotti tipici trevani. Con una bottiglia di Trebbiano e con del sedano nero ho terminato i miei acquisti enogastronomici.
Dieci minuti di macchina e siamo a Campello sul Clitunno.

 

Trevi

Campello sul Clitunno

Principale caratteristica del luogo sono le Fonti del Clitunno, parco naturale con un laghetto di acque limpide e calme, polle sorgive e salici piangenti. Si racconta che le acque del Clitunno fossero una fonte di purificazione dell’anima: chiunque s’immergeva nel fiume ne usciva migliorato. La leggenda sul Clitunno ci dice che i buoi che si fermavano ad abbeverarsi al fiume ne uscivano con un manto più pulito. Siamo in orario sulla tabella di marcia e lo stomaco comincia a dare segni inequivocabili; abbiamo fame. È ora di trovare un’osteria o locanda e assaggiare i piatti tipici di questa zona. Da queste parti non riesco a rinunciare alla strapazzata con il tartufo, agli strangozzi e alle lumache. Per finire un’ottima porzione di rocciata, dolce che assomiglia un po’ allo strudel. Da bere? Un calice di Sagrantino e uno di Montefalco.

Spoleto

Soddisfatti del pranzo arriviamo a Spoleto, famosa soprattutto per il Festival dei Due Mondi. La leggenda di Spoleto è legata al Ponte Sanguinario. Il Ponte Sanguinario è situato nel sottosuolo, a pochi metri dalla Basilica di San Gregorio Maggiore, l’ingresso è possibile grazie ad una breve scala che si interra sotto il piano stradale.
La leggenda narra che, intorno al II secolo d.C., viveva a Spoleto un giovane nobile di nome Ponziano che iniziò a predicare la religione dei cristiani. Le politiche anticristiane dell’epoca erano implacabili e anche Ponziano non fu risparmiato dalle persecuzioni. Condotto sul ponte che al tempo conduceva allla via Flaminia oltre il fiume Tessini, venne decapitato. La testa mozzata raggiunse il luogo dove poi è sorta la chiesa e prese a zampillare una fonte di acqua purissima.
Percorrendo la strada statale 685 in 50 minuti arriviamo a Norcia.

 

Norcia

Norcia

Norcia è posta a 600 metri s.l.m. ed è inserita nel comprensorio del Parco Nazionale dei Monti Sibillini. Sappiamo quanto è stata colpita dal terremoto del 2016 ma il carattere tenace dei suoi abitanti la riporterà a nuovi splendori. Norcia è soprattutto famosa per le sue norcinerie piene di prosciutti, salsicce e ogni ben di Dio. Famosa altrettanto per il tartufo, le lenticchie, la pasta alla norcina, la birra dei monaci benedettini e i coglioni di mulo, il salume irriverente. La birra me la sono comprata direttamente dai monaci presso il Monastero. La Guida alle birre d’Italia l’ha definita imperdibile!
La leggenda che avvolge il Parco Naturale è la leggenda della Sibilla. Secondo la comune credenza, lungo le pareti dei monti si troverebbe la grotta, luogo ora incantato ora stregato in cui una fata o una megera riceveva la visita dei più coraggiosi che volevano conoscere il proprio futuro. Dopo secoli di favole tramandate della grotta non resta che un cumulo di macerie e un’infinità di teorie si sono sviluppate intorno a questa favola magica. Da notare che la leggenda si è diffusa in tutta Europa grazie al romanzo cavalleresco Il Guerin Meschino.
Uscendo da Norcia s’imbocca la strada provinciale 477 e dopo 18 km si arriva a Forca Canapine.

Forca Canapine

Innanzitutto c’è da specificare bene che Forca Canapine non ha niente da condividere con la Foce di Canapino. I nomi sono simili ma i luoghi sono distanti. La Foce di Canapino non è altro che un impegnativo fuoripista dell’appennino tosco-emiliano, sconosciuto a molti. Forca Canapine invece è un valico stradale dell’appennino umbro-marchigiano situato sui monti Sibillini, ad un’altezza di 1541 metri s.l.m.; siamo quindi sul confine tra Umbria e Marche. Il toponimo deriva da due termini: Forca che vuol dire valico, mentre Canapine fa riferimento alla coltivazione e alla raccolta della canapa. Interessante notare che la località fa parte dell’itinerario del Sentiero E1 che congiunge Capo Nord a Capo Passero, in provincia di Siracusa.
Con un passo siamo nelle Marche.

 

Forca Canapine

Arquata del Tronto

Percorrendo la strada provinciale 64, poi la strada statale 685 e ancora le strade provinciali 230 e 129, in circa 25 minuti arriviamo ad Arquata del Tronto, provincia di Ascoli Piceno.
È un piccolo Comune di poco più di mille abitanti ed anche questo è stato gravemente danneggiato dal terremoto del 2016. Anche Arquata ha la sua leggenda. Si narra infatti che il locale castello sia infestata da fantasmi, o meglio, da un fantasma femminile. La leggenda racconta che il re Giacome di Borbone rinchiuse la moglie e regina Giovanna II d’Angiò nella torre più alta del maniero dopo averla dichiarata pazza perché più volte macchiatasi del peccato di lussuria. Si dice che, in base alla qualità della prestazione, la regina aveva il potere di dare in pasto ai lupi i pastori che non raggiungevano la sufficienza sotto le lenzuola. Povero Giacomo di Borbone! Giovanna II D’Angiò abiterebbe ancora dentro quelle mura sotto forma di fantasma; qualcuno dice ancora di sentire dei rumori sinistri riecheggiare dalla rocca.
Dopo circa 12 km, percorrendo la provinciale 129 e la statale 4, arriviamo alla nostra ultima tappa: Acquasanta Terme.

 

Acquasanta Terme

Acquasanta Terme

Acquasanta Terme è un comune di 2600 abitanti in provincia di Ascoli Piceno e si trova nel comprensorio del Parco Nazionale del Gran Sasso. Già il nome della località è un programma: dal sottosuolo infatti sgorga un’acqua termale sulfurea alla temperatura di 38 gradi. Il territorio poi è ricco di tesori artistici e di principale interesse sono il Castel di Luco e il monastero di San Benedetto in Valledacqua. La piccola leggenda di questo paese vuole che le sue terme abbiano dato sollievo, nel 712, a un console romano, tanto che da quel momento vennero segnate sulla mappa per curare i feriti dopo le battaglie.

Con questo itinerario, che consiglio veramente a tutti ma specialmente ai forestieri, sono riuscito a unire il Diavolo (Casa del Diavolo) con l’Acquasanta (Acquasanta Terme). Buon Viaggio!

Un viaggio lungo 7.000 km, 2 anni e mezzo e 354 tappe: i ragazzi di Va’ Sentiero riprendono il loro percorso attraverso il sentiero più lungo del mondo, il Sentiero Italia. Prima tappa: Visso-Norcia.

Definito dalla CNN «Il più grande tra i grandi cammini», il Sentiero Italia è l’alta via che percorre le catene montuose dello Stivale, collegando tutte le regioni (comprese quelle insulari) e oltre 350 borghi montani. Un percorso, lungo otto volte il Cammino di Santiago, è stato realizzato circa una trentina di anni fa dall’Associazione omonima e dal Club Alpino Italiano, ma è stato, col passare del tempo, pressoché dimenticato. Fino al 2018, quando il CAI ne annuncia il progetto di restauro, attraverso non solo interventi di ripristino del tracciato e della segnaletica, ma anche tramite una serrata campagna di promozione.

 

Il percorso, courtesy of www.vasentiero.org

Il progetto Va’ Sentiero

È proprio nel tratto centrale di questo percorso che sfiora i 7.000 km che incontriamo i ragazzi di Va’ Sentiero, la spedizione che, nel maggio 2019, è partita da Muggia (TS) per attraversare prima tutto l’arco alpino e poi discendere verso le estremità dello stivale, in nome dell’amore per la montagna e del turismo lento, nonché della volontà di rispettare le peculiarità locali e di contribuire al sostegno del tessuto socio-economico di aree interne in via di spopolamento. Il progetto, nato dalle menti dei fondatori Yuri Basilicò, Giacomo Riccobono e Sara Furlanetto, è basato su due principali sfumature del termine condivisione, quella digitale – attraverso il racconto in tempo reale sui social (Facebook, Instagram) e di media partner di primo livello (Touring Club Italiano, Radio Francigena, Gazzetta dello Sport) – e quella fisica. Chi vuole, infatti, può aggregarsi per una o più tappe, così da creare spazi di condivisione per idee, progetti e storie di vita, nonché per camminare qualche ora in compagnia circondati dalla bellezza autentica dei paesaggi italiani.

 

I ragazzi di Va’ Sentiero sulla cima del monte Patino (Norcia)

Il collante dei luoghi spezzati

In apertura del secondo anno di progetto – sebbene slittato di qualche mese a causa del Covid-19 – si sono poste tappe a cavallo tra Marche, Umbria, Abruzzo e Lazio, in zone che recano ancora gli evidenti segni di un terremoto devastante e dove la presenza umana sembra sia stata quasi sopraffatta dalla natura. Norcia, Castelluccio di Norcia, Arquata del Tronto, Accumoli, Colle d’Accumoli e Campotosto sono luoghi in cui l’unica forma di turismo possibile è ormai quello lento, che permette di stare a contatto con la natura, di mangiare buon cibo e di fare esperienza di rapporti umani più genuini.

E allora il passaggio dei ragazzi di Va’ SentieroYuri Basilicò, guida del team sul sentiero e coordinatore del progetto; Sara Furlanetto, fotografa e responsabile della comunicazione; Giacomo Riccobono, ufficiale logistico; Andrea Buonpane,  videomaker; Francesco Sabatini, cambusiere e responsabile della ricerca culturale; Martina Stanga, social media manager, Giovanni Tieppo, driver del furgone – assume qui un valore ancora maggiore, tanto da coinvolgere anche sezioni locali del CAI e associazioni come Trekkify (Perugia), Arquata Potest e Monte Vector (Arquata del Tronto, AP), Il Cammino delle Terre Mutate (Roma) e Discover Sibillini (Macerata).

 

Parco Nazionale Monti Sibillini, foto di Sara Furlanetto

Una sfida su più fronti

Si tratta senza ombra di dubbio di un’enorme sfida. Non solo fisica – i ragazzi hanno già affrontato forti nevicate, uragani, pioggia, zecche, tendiniti, infiammazioni e vesciche – ma anche personale, data dalla difficoltà del percorso e dal fatto di trovarsi sotto i riflettori, tutti insieme, per almeno sette mesi all’anno. Di grande aiuto, in questo senso, sono l’accoglienza data dalle comunità locali e il sostegno della community di oltre 40.000 followers, nonché quello della campagna di crowdfunding e degli sponsor (Montura, Ferrino, Oxeego, Lenovo, Motorola, Fondazione Cariplo, F. Carispezia, Wonderful Outdoor Week, F. di Venezia, F. Agostino De Mari, F. CariLucca, F. dei Monti Uniti di Foggia ed EOM Italia).

Ma c’è anche un’altra sfida, forse la più grande: far conoscere un percorso unico al mondo, capace di unire l’Italia nonostante le sue differenze, godibile attraverso un punto di vista privilegiato, quello della montagna. «Il nostro sogno è che il progetto sia il seme per una svolta nell’approccio dei giovani alla montagna. Siamo consapevoli si tratti di un percorso impegnativo: la montagna stessa è una strada in salita. Ma Walter Bonatti, cui dedichiamo il progetto, disse che “chi più in alto sale, più lontano vede”. E noi proprio là puntiamo, in alto!» dichiara Sara Furlanetto, co-founder di Va’ Sentiero.

E noi, vedendo quanto coinvolgimento, quanta speranza e quanto senso comunitario ha scatenato tale impresa, non possiamo che essere d’accordo con lei.

Ingredienti:

  • 400 g di farina di roveja
  • 2 l di acqua salata
  • 5 filetti d’acciuga sott’olio, più altri per decorare
  • 2 spicchi d’aglio
  • olio EVO q.b.

 

Preparazione:

Mettete sul fuoco la pentola con l’acqua salata. Appena l’acqua arriva a ebollizione, versatevi la farina di roveja a pioggia e mescolate energicamente con una frusta per evitare che si formino grumi. Mantenendo un fuoco lento, continuate a girare la polenta con un mestolo di legno per circa 40 minuti. Mentre la Farecchiata cuoce, in una padella antiaderente scaldate l’olio extravergine con gli specchi di aglio interi; quando saranno dorati rimuoveteli e inserite i filetti di acciughe, lasciandoli sciogliere lentamente a fuoco lento. Raggiunta la cottura della polenta rimuovetela dal fuoco, versatela nei piatti e condite con l’olio insaporito che avete preparato; fatela riposare un minuto, poi servitela con un filetto di acciuga arrotolato al centro del piatto. La vostra Farecchiata di Roveja è finalmente pronta per essere gustata.
Una variante stuzzicante: per rendere più croccante la vostra Farecchiata, tagliatela a fette, friggetela e servitela con un filetto di acciuga.

 


La Farecchiata, (o polenta con farina di Roveja), è una polenta tipica dal gusto delicato e lievemente amarognolo che viene preparata in diverse zone delle Marche, ma soprattutto nella zona di Castelluccio di Norcia, in Umbria. Si tratta di un piatto antichissimo della tradizione pastorale castellucciana: un’importante fonte di sostentamento
 per le famiglie di pastori e contadini dei Monti Sibillini. Un piatto molto povero ma che si mantiene nel tempo, ragion per cui in passato fungeva da colazione proprio per i pastori della zona. L’ingrediente principale è la Roveja, un piccolo e saporito legume di colore marroncino, simile ai ceci ma dal sapore più forte. Conosciuta anche come pisello dei campi, robiglio o corbello, la roveja è un legume antico, che rischia di scomparire a causa delle difficoltà legate alle condizioni impervie del territorio e alla morfologia della pianta. Ad oggi, infatti, sopravvive soltanto in una zona circoscritta della Valnerina grazie all’impegno di alcuni agricoltori che operano nella località di Preci (Cascia), dove si trova anche un’antica fonte chiamata dei rovegliari. Estremamente nutriente, con un elevato apporto di proteine, fosforo, carboidrati e un ridotto contenuto di grassi, la roveja è oggi Presidio Slow Food.

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