Parlare di maiale, in Umbria, significa aprire un vero e proprio vaso di Pandora. Norcini, porchetta, migliacci, Presidi Slow Food, sagre paesane e una tradizione che, da espressione massima della parsimonia contadina – sempre caro fu il detto «del maiale non si butta via niente» – ha finito per diventare identificativa di una regione intera: tante sono le sfumature che reca con sé questo animale che si affianca all’uomo fin dai tempi più remoti.
È vero, nel tempo si è trasformato: nel Medioevo, per esempio, era più piccolo e scuro di quello attuale; era più simile al cugino cinghiale, al punto da essere macellato solo tra il secondo e il quarto anno di età, per massimizzarne la resa in un tempo in cui le disgrazie, più che con le famigerate vacche magre si presagivano nelle sembianze di porci magri.
Questo appuntamento – che spesso assumeva i connotati di un vero e proprio rituale – avveniva tra dicembre e gennaio, come testimonia una delle formelle della Fontana Maggiore di Perugia. Nel catino inferiore della simbolica opera cittadina in pietra di Assisi, vi è infatti rappresentata la spezzatura del maiale, corrispondente al mese di dicembre e al segno zodiacale del Capricorno.

Spesso questo appuntamento tanto atteso coincideva con la festa di Sant’Antonio Abate, il 17 gennaio, riconoscibile proprio perché rappresentato, tra le altre cose, con un maialino dotato di un grazioso collare con campanello.
I maiali in chiesa
Proprio così il maiale si ritrova nella Chiesa di Santa Maria Assunta a Vallo di Nera. Datata 1176 e riconoscibile grazie al rosone a dodici colonne e al portone d’ingresso ogivale, questa chiesa a navata unica che rispetta gli stilemi del romanico spoletino accoglie numerosi affreschi, tra cui spiccano quelli di Cola di Pietro da Camerino. Non solo la processione dei Bianchi verso Roma – movimento penitente nato nel 1399 di cui questo affresco rappresenta la testimonianza più completa – ma anche scene dalla vita di Sant’Antonio Abate, con quattro maiali bianco-neri slanciati e dalla lunga coda arricciata.

A guardarli bene, sembrano essere cinti da una striscia bianca, che evoca non solo la cintura di pustole tipica del famoso fuoco di Sant’Antonio (il nome comune dell’Herpes zoster) ma anche i colori della famosa cinta senese. In realtà si tratta dell’appenninico maialino cintato e, grazie a questi affreschi, l’Università degli Studi di Perugia e il Parco Agroalimentare dell’Umbria hanno potuto promuovere il recupero e la reintroduzione dello scomparso cinturino.
Uno di questi quattro maiali affrescati, riconoscibile grazie al campanello che porta appeso al collo, si inginocchia proprio al cospetto di Sant’Antonio Abate. Ma perché il campanello?


Un permesso speciale
È il 1090 e la Valle del Rodano, in particolare la città di Vienne, viene colpita da una brutta epidemia, caratterizzate da pustole il cui dolore ricorda il fuoco sulla pelle. Solo venti anni prima era stata eretta la Chiesa di Saint Antoine de Viennois per ospitare le reliquie del Santo che, da Costantinopoli, erano arrivate in città. Durante l’epidemia, per gestire gli ammalati fu allestito un ospedale proprio a fianco della chiesa, gestito dai Canonici regolari di Sant’Antonio di Vienne, che erano soliti applicare sulle dolorose pustole un unguento ricavato… dal grasso del maiale. Le bestiole, mal tollerate nel contesto cittadino, vennero così lasciate scorrazzare libere in città – in modo che la ripulissero anche dai rifiuti – ma a questo scopo dovevano essere dotate di un campanello, lo stesso con cui gli
antoniani erano soliti annunciare la questua. I maiali tanto bistrattati contribuirono non solo a lenire i dolorosi sfoghi dei malati, ma anche a sostenere un ordine giovane, ma che riscosse subito molti favori e proseliti.
Licenze iconografiche
Quindi il maiale non era tanto un simbolo di Sant’Antonio – a meno che non si voglia considerarlo una reincarnazione di tutte le tentazioni di cui riporta notizia l’agiografia del Santo – ma dei suoi seguaci. Eppure questo slittamento ha finito per diventare storia, associando per sempre il santo con questa bestiola che, per metonimia, le rappresenta tutte: Antonio è infatti anche il protettore degli animali e in molte chiese dell’Umbria, in occasione della festa patronale, gli animali vengono portati per essere benedetti. E se proprio qualcuno volesse godere di un po’ di sana protezione divina e – perché no – anche di un po’ di abbondanza, a Perugia è anche possibile recarsi a sfregare la scultura del porcellino di pietra (XV secolo) che caratterizza la Chiesa di Sant’Antonio, posta nei pressi dell’omonimo cassero.

Eleonora Cesaretti

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