La storia di Montone è legata a doppio filo alla famiglia Fortebracci di cui il sanguinario condottiero Andrea, detto Braccio, è forse l’esponente più famoso. Le tracce di questo nobile lignaggio sono testimoniate da due interessanti alberi genealogici, risalenti all’inizio del XVIII secolo, custoditi nel Complesso museale di San Francesco di Montone.
Le due rappresentazioni, identiche per contenuto ma non per forma, erano destinate l’una all’ultima residenza dei Fortebracci e l’altra alla sala consiliare del Municipio di Montone. Grazie a queste, sappiamo che la stirpe prende avvio dal capostipite Ugolino, nell’anno 1100: da lui si dipartono due rami, quello principale dei Fortebracci – dove sono ben evidenziati i nomi di Andrea “Braccio” da Montone e quello di suo figlio Carlo, contrassegnati da corona e scettro – e quello collaterale dei Giobbi. La discendenza – che, fino al tardo XVI secolo, si credeva derivasse dai Barcidi di Cartagine, stirpe del famoso condottiero Annibale che in Umbria aveva trionfato nella battaglia del Trasimeno – arriva fino alla generazione dell’ultimo Seicento.
I due alberi si stagliano davanti a un paesaggio collinare nel quale è possibile riconoscere Montone, adagiato sopra un’altura, con la Rocca e la Chiesa di San Francesco. È presente anche lo stemma della casata, un montone rampante che, secondo la simbologia propria dell’araldica, non solo suggeriva il nome e la provenienza della famiglia, ma anche un temperamento tenace e forte che sappiamo per certo possa essere attribuito al suo esponente più famoso. Per dirla con Enea Silvio Piccolomini (Papa Pio II, 1405-1464):
«Fu Braccio di aspetto prestante, benché impedito dal lato sinistro; la sua parola era dolce e carezzevole; aveva però un temperamento crudele al punto di ridere mentre ordinava di torturare la gente e di straziarla con atroci supplizi, e di dilettarsi a gettare dei poveretti da alte torri. A Spoleto diede ordine di precipitare giù da un ponte un messaggero che gli aveva portato una lettera ostile. Ad Assisi gettò tre uomini da una torre che si innalza nella piazza principale. Nel convento dei frati minori diede ordine di punire diciotto monaci che avevano sentimenti a lui ostili, pestando e spappolando i loro testicoli sopra un’incudine. A Viterbo fece immergere un prigioniero in una sorgente d’acqua bollente che si chiama Pelacano […] Braccio non credeva né al Paradiso né all’Inferno, era nemico della Chiesa e della religione e assolutamente indegno di ricevere esequie religiose.» (Enea Silvio Piccolomini, in Niccolò Ciminello, La guerra dell’Aquila. Cantare anonimo del XV secolo, a cura di Carlo De Matteis, Edizioni Textus, ristampa anastatica del 1996)
Nell’analisi dei due alberi genealogici c’è inoltre da tener conto che, secondo il diritto successorio stabilito dalla legge salica – codice fatto redigere nel 503 dal re dei Franchi Clodoveo I per fissare alcune norme giuridiche fino a quel momento tramandate solo oralmente – «Nessuna terra (salica) può essere ereditata da una donna, ma tutta la terra spetta ai maschi, che siano fratelli della donna.». La successione dei Fortebracci non fa differenza e l’unica donna che compare nella linea di discendenza è una certa Stella, madre di un Nicolò che riportò da L’Aquila le spoglie dello zio. È infatti sotto le mura di questa città che trovò la morte Braccio, le cui spoglie ora riposano a San Francesco al Prato, la chiesa della nobiltà perugina.
Tralasciando le innumerevoli vicende politiche e belliche che lo videro protagonista per oltre quarant’anni – tra cui i due tentativi di assedio alla città di Perugia respinti dalla popolazione, la vittoria nella battaglia di Sant’Egidio contro quel Carlo Malatesta nominato dal Papa che gli valse la Signoria di Perugia, la capitolazione, a catena, di Todi, Narni, Terni e Orvieto, i continui scontri con Martino V e le ben due scomuniche – è interessante prendere in considerazione le numerose leggende che circolarono, per diversi secoli, attorno alla sua morte.
Come tutte le star (ante litteram) e i personaggi più controversi della Storia, non sono infatti mancate delle teorie cospirazioniste nemmeno attorno alla figura di questo condottiero che, assecondando il suo sogno di nominare Perugia come capitale di un regnum italicum affrancato dai mercenari e dal potere di Roma, le aveva donato una nuova cinta muraria, palazzi nobiliari, dimore affrescate da artisti del calibro di Domenico Veneziano e Piero della Francesca, logge per la protezione di merci e mercanti e briglie per il consolidamento della piazza del Sopramuro a cui aveva dato il suo nome.
Le varie leggende attorno ai suoi ultimi giorni di vita concordavano sul fatto che fosse stato ferito sotto le mura de L’Aquila e poi fatto prigioniero. Per alcuni, fu ucciso dal chirurgo incaricato di curarlo che, urtato intenzionalmente dal vincitore Francesco Sforza, aveva conficcato il bisturi nel cervelletto di Braccio; altri sostenevano che fosse stato condotto al cospetto di Jacopo Caldora che, adirato per il suo mutismo, l’aveva ucciso; una terza teoria sosteneva che, chiuso in sé stesso e rifiutando cibo e medicamenti, era morto in cella qualche giorno dopo la sua cattura.
Solo nel 2013, a 589 anni dalla sua morte, la verità è venuta a galla: i resti di Braccio sono stati infatti riesumati per essere restaurati. Dalla ricognizione è emersa la presenza di un foro sul cranio, che ha confermato la morte durante l’assedio della città aquilana, probabilmente sul colpo.
Giornalista, è laureata in Lettere Moderne e in Informazione, Editoria e Giornalismo ed è appassionata di letteratura contemporanea, scrittura, fumetto e nuovi media. Ha collaborato come editor per diverse case editrici e come articolista per testate online.
Caporedattrice, editor e web designer, svolge attività di creazione di contenuti, correzione bozze, coordinamento e realizzazione di siti web.