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Come ogni giovane chef con la mia esperienza, ho avuto il piacere di intraprendere la strada della cucina molecolare, rimanendo sempre molto stupefatto dalle sue potenzialità.

Ma che cos’è la cucina molecolare? Si tratta di una scuola di pensiero, oltreché di cucina, nata anni fa e di cui fanno parte cuochi, appassionati gastronomi e scienziati, ma anche fisici e chimici. La sua filosofia è investigare i processi che intervengono nella preparazione dei cibi e che solitamente vengono applicati senza conoscere quel che succede. Ma ci sono altri obiettivi: studiare i detti, i proverbi e le conoscenze culinarie popolari, per scoprire se contengono qualcosa di vero o se sono solo tradizioni e superstizioni. E anche innovare la cucina tradizionale, inventando nuovi piatti, nuovi ingredienti e nuovi metodi di preparazione, nonché di cottura, infatti spesso uso questo metodo per facilitare e impressionare il mio ospite.

 

Preparare il gelato in pochi secondi

Prendiamo per esempio il gelato: io lo preparo con l’azoto liquido. L’azoto è la componente principale dell’aria che respiriamo e viene liquefatto per mezzo di un processo di raffreddamento energeticamente dispendioso. La temperatura dell’azoto liquefatto è di quasi 200 gradi sotto zero. A temperatura ambiente evapora molto rapidamente, congelando tutti i corpi con cui viene in contatto, mani comprese – ve lo posso assicurare. Per fare il gelato basta prendere gli ingredienti necessari (latte, panna, zucchero, uova…) versarli in un recipiente e aggiungere azoto liquido. L’azoto è freddo e gli ingredienti vengono congelati quasi istantaneamente. Inoltre, essendo liquido, quando arriva al punto di ebollizione inizia a bollire, il che garantisce il necessario mescolamento. Teoricamente chiunque può prepararsi il gelato in una manciata di secondi, anche a casa (non è più rischioso di una frittura in olio bollente) ma l’azoto liquido non è di facile reperibilità, per lo meno non al supermercato.

Cucinare un uovo al tegamino senza gas

Semplicissimo. Rompete l’uovo nella padella, prendete dell’alcol etilico (quello che si usa per fare i liquori) e versatelo sopra l’uovo: si solidificherà quasi all’istante. L’alcol etilico, al pari del calore, è in grado di denaturare le proteine dell’uovo provocando la solidificazione quasi immediata. Volendo provare una variante, si possono mescolare le uova con l’alcool in un recipiente, ottenendo qualcosa di simile all’uovo strapazzato. Prima di mangiare va eliminato naturalmente l’alcol in eccesso.

Friggere con il glucosio

Per friggere è possibile sostituire l’olio con il glucosio, uno zucchero solido a temperatura ambiente, che va fatto fondere senza caramellare. In questo modo, oltre ad abbreviare i tempi di cottura, i cibi mantengono l’umidità che perderebbero con la frittura in olio.

Gnocchi… molecolari

Per preparare degli gnocchi molecolari è possibile prendere la fecola di patate, stemperarla in acqua in un pentolino e mettere il tutto sul fuoco. Appena scaldata la miscela si rapprenderà in una massa gelatinosa, che potrà essere lavorata come gli gnocchi tradizionali.

 

 

Tutta la cucina è molecolare, perché cucinare è una trasformazione chimica. Cuocere una bistecca vuol dire denaturarne le proteine, aggiungere vinagrette all’insalata significa cambiarne il PH. Forse non lo sappiamo, ma per cuocere la pasta stiamo preparando una soluzione chimica. Insomma, sono molto vicino a questo tipo di cucina ma comunque non tralasciando mai la tipicità dei prodotti veramente buoni che ci offre la nostra terra.

 


Per saperne di più

«I miei clienti sono prevalentemente turisti inglesi, gente facoltosa che ha una seconda casa in Italia o che l’affitta per un breve periodo».

Alessio Berionni

Il giovane chef Alessio Berionni, classe 1991, ha le idee ben chiare su quello che vuole: «Non aprirò mai un ristorante». Partito da Gualdo Tadino dov’è nato, dopo varie esperienze in Inghilterra, è tornato in Italia per diventare un personal chef, uno chef privato che si affitta per un certo periodo di tempo o per un evento privato. «Penso a tutto io, dalla ricerca delle materie prime locali, alla pulizia dopo ogni pasto».

 

Ci spieghi come prima cosa, che cos’è un personal chef?

Si tratta di uno chef privato che lavora su chiamata e che è disponibile per tutto il periodo della vacanza del turista, sia italiano sia straniero. È un servizio a 360 gradi, dalla spesa alla pulizia finale della cucina e della tavola.

Chi sono i suoi clienti?

Prevalentemente sono turisti inglesi, gente abbastanza facoltosa che ha una seconda casa in Italia o che l’affitta per un breve periodo. Mi occupo della colazione, pranzo e cena; oppure semplicemente di preparare una cena per un particolare evento.

Ci può svelare qualche nome?

Da poco ho lavorato per l’attore Marco Filiberti, ma più che altro sono persone straniere del mondo della finanza e dell’imprenditoria.

Cosa racconta la sua cucina?

Racconta il mio viaggio dall’Italia – in particolare dall’Umbria e dalla Toscana – fino all’Inghilterra. Racconta la semplicità della cucina umbra rivisitata da incursioni inglesi.

 

Anatra e barbabietole

Qual è il piatto che la contraddistingue maggiormente?

Sicuramente il Pork belly (la pancia di maiale della cinta senese) preparato in stile britannico. È un piatto che faccio di frequente.

Si parla spesso di cucina moderna e tradizionale, quale predilige?

Il mio è uno stile contemporaneo,  ma rimango comunque fedele alle tradizioni che ogni territorio trasmette.

Ha mai pensato di aprire un ristorante tutto suo?

Assolutamente no, perché vedo tanti colleghi che passano l’intera giornata nel ristorante, trasformandolo nella loro prima casa. Nel mio caso decido come organizzarmi e sono più libero. Quando ho lavorato nei ristoranti ero lì 18 ore al giorno e vedevo pochissimo la mia famiglia.

Come si descriverebbe?

Sono una persona molto pignola e precisa, mi piace portare a termine velocemente quello che faccio. Ovviamente ho una grande passione per la cucina.

È una passione che ha fin da piccolo?

Ha preso vita nella cucina di mia nonna, dove ogni domenica la guardavo impastare e chiudere i cappelletti con assoluta precisione e attenzione ai sapori semplici e perfetti. Mi sono diplomato all’istituto alberghiero di Assisi e ho iniziato a lavorare nei migliori ristoranti della mia zona. Mi piaceva molto anche giocare a basket, ma ho deciso di lasciarlo per andare in Inghilterra: lì ho iniziato a lavorare in un ristorante italiano, dove ho fatto la gavetta, poi sono approdato in un ristorante inglese, fino ad arrivare in quelli stellati, come Gringling Gibbons (3 stelle Michelin) e Stapleford Park – luxury country house (2 stelle Michelin). Ho lavorato al fianco di Alaine Ducasse e Gordon Ramsay. Nel 2019 con in mio bagaglio culturale, lavorativo e una famiglia sono tornato in Italia e mi sono messo in gioco come personal chef.

 

Piccione affumicato con frutti di bosco

Cosa consiglierebbe alle nuove generazioni del settore?

Prima cosa di viaggiare e di vivere la cucina con passione senza trascurare la vita privata: è quella che ci permette di essere veramente realizzati. Il successo non è farsi conoscere dai media o dalle varie guide gastronomiche, ma è sentirsi soddisfatti dopo aver creato qualcosa che veramente rispecchia quello che sei e che fai!

Quali sono i suoi progetti futuri?

Quando ho iniziato il mio viaggio culinario mi ero promesso di scoprire ogni ingrediente, penso di essere al 60% e quel 40 che manca è il carburante che mi manda avanti. Quando cucino è come se avessi una tela bianca che cerco di riempire nel miglior modo possibile. Cucinare per me è un modo per viaggiare, rilassarsi e sparire allo stesso tempo; in futuro vorrei andare avanti come personal chef e migliorare in ogni aspetto, sia culinario sia di vita privata.

 


Per saperne di più

Giulio Gigli, giovane chef di successo che dell’uso della materia prima, della stagionalità e dei prodotti tipici del territorio, ha fatto il suo credo: la tradizione viene abbinata alle sapienti tecniche culinarie apprese durante le sue importanti esperienze fatte in ristoranti stellati internazionali e in varie parti del mondo.

Aglione, foto di Andrea Di Lorenzo

Qualche tempo fa ho incontrato Giulio a casa mia e, durante un’amabile chiacchierata sull’aglione, ce ne siamo raccontate sui pregi e sulle caratteristiche di questa eccellenza da poco riconosciuta come risorsa genetica autoctona di interesse agrario inscritta nel registro della Regione Umbria, grazie alle pratiche istruite dal Parco 3A-PTA, in particolare dall’ufficio gestito da Luciano Concezzi, con protagoniste Livia Polegri e Marta Gianpiccolo che hanno istruito la domanda di richiesta, in aggiunta a un contributo del vostro inviato lacustre, che è stato coinvolto in merito.
La premessa è dovuta, anche perché la chef nonché produttrice di grani antichi Valentina Dugo, ha innescato il contatto con Giulio Gigli, a proposito dell’aglione. E da qui nasce l’interesse di chef Giulio, che venne a casa mia prima di andare in Slovenia per una sua consulenza destinata a un noto ristorante stellato, dove portò anche l’aglione come prodotto tipico da utilizzare in quel luogo. Per dare un seguito e condivisione al nostro incontro, preparai a Giulio la mia ricetta della pasta all’aglione, che ha molto apprezzato e non solo a parole.
Successivamente ci sono stati altri incontri, dove Giulio mi fece degustare una bontà unica, quella dei fiori d’aglione preparati secondo la sua tradizione familiare… una squisitezza.
Giulio, durante le nostre amabili conversazioni, mi ha raccontato del suo progetto, della sua filosofia di proporre piatti della tradizione con l’innovazione a fargli da spalla e di realizzare un orto per la stagionalità dei prodotti da usare nelle sue ricette.

Tutto molto bello e suggestivo… e Giulio ce l’ha fatta! Bravo! L’uso dell’aglione, della roveja, della fagiolina del lago Trasimeno, del sambuco viene affiancato dai frutti della terra del periodo che produce il suo orto, che Giulio ha realizzato negli spazi adiacenti il suo ristorante che apre alla stagionalità, tipicità, unicità dei prodotti che, dal vicino campo, porta in tavola. Il tutto arricchito dalle tecniche culinarie che lui utilizza con gran maestria, dopo averle fatte sue dalle cucine dei ristoranti famosi e stellati dove ha lavorato.

Lo chef Giulio Gigli, foto di Andrea Di Lorenzo

La sua nuova fucina culinaria si trova a Capodacqua di Foligno, è il ristorante UNE, un antico mulino ad acqua del Quattrocento, la sua struttura è visibile all’interno dei locali, ristrutturato in modo molto capace e accogliente che fa sentire subito a proprio agio e captare il messaggio che Giulio con il suo progetto, ha voluto imprimere e donare ai suoi visitatori/degustatori. Infatti UNE significa acqua in antico umbro e qui di acque ne siamo circondati oltre che di sapori, profumi, tradizione e innovazione.
Il progetto di Giulio Gigli, chef d’avanguardia in nome della tradizione, ha come mission quella di deliziare nel palato e nella mente i degustatori che vorranno apprezzare i prodotti tipici stagionali trattati con eccellenti tecniche culinarie stellate. Un’ottima scelta di vini da abbinare ai piatti, completa l’intrigante offerta gustativa.
La mia visita presso il ristorante di Giulio, ben conferma quanto scritto. Vale la pena andare a Capodacqua di Foligno, al ristorante UNE, dove le stagionalità dei prodotti alimentari vi aspettano sui tavoli del ristorante, provenienti direttamente dall’orto di Giulio Gigli, chef di successo, che parla con nuovi e incantevoli linguaggi d’arte culinari, tutti da percorrere per straordinarie e indimenticabili esperienze di gusto!

Avere il coraggio di cambiare, avere il coraggio di affrontare nuovi orizzonti, avere il coraggio di nuove sfide. Si può fare… questo è quello che ci ha fatto capire Caterina Betti, perugina, artista d’animo e di pensiero, che ha trascorso i passaggi della propria vita e maturazione personale trovando la forza, dapprima, di fare una lunga esperienza come fotografa professionista per poi catapultarsi in quella di chef di successo.

Caterina Betti è apprezzata e riconosciuta fin dai suoi primi passi culinari, tant’è vero che è stata scelta come rappresentante dell’Umbria nella seguitissima trasmissione televisiva Cuochi d’Italia condotta dal famoso chef Alessandro Borghese.
Chef Caterina, durante la nostra intervista avvenuta come un’amabile conversazione, ha raccontato di sé e della sua esperienza, e ci ha trasmesso la passione e l’amore per il suo lavoro. Nell’emozione della narrazione, ci ha orgogliosamente confidato del sostegno e del grande affetto di suo marito Roberto Fattori e della loro figlia, la dolcissima Maria Letizia, fan e prima tifosa di mamma Caterina.

 

Caterina Betti

Caterina, ci racconti come sei diventata chef?

Il mio lavoro è stato da sempre quello di fotografa, che ho fatto per vent’anni, e poi il destino mi ha fatto incontrare Diana Capodicasa, la mia attuale socia, con la quale ho iniziato a collaborare con l’azienda e la scuola di cucina che lei aveva al tempo. Ci siamo trovate, fin da subito, in forte sintonia. Da quel momento ho capito che quella che era stata da sempre una mia grande passione, che praticavo solo tra le mura domestiche e per gli amici, stava sbocciando e piano piano, quando le cose si incastravano, ho capito che il lavoro nel mondo della cucina era quello che volevo fare. Dopo una consultazione familiare, ho fatto un salto nel buio, lasciando la mia attività di fotografa. All’inizio non è stato facile, soprattutto per mia figlia Maria Letizia, anche perché lei mi ha conosciuto come fotografa ed è stata sempre abituata a frequentare lo studio, dove è cresciuta tra scatti e foto. Adesso Maria Letizia è la mia prima sostenitrice. A quasi cinquant’anni ho deciso che dovevo cambiare rotta e con il cuore ho fatto questa follia, seguendo il mio sogno.

Più che follia hai avuto il coraggio di scegliere, passando dal certo all’incerto.

Per un anno e mezzo ho tenuto i piedi in due staffe. Per un periodo ho continuato a lavorare come fotografa di matrimoni e contemporaneamente mi occupavo di cucina. Piano piano sentivo che il lavoro di fotografa si stava spegnendo e a quel punto mi sono gettata sempre più nella mia nuova sfida. Dopo aver fatto per tanti anni la fotografa di matrimoni, dove ero esposta in prima persona, adesso mi ritrovo sempre negli eventi matrimoniali, ma dietro le quinte, in cucina; mentre Diana, la mia socia, è in sala e cura le relazioni di marketing con clienti e aziende. Oggi organizziamo, tramite la nostra azienda Cucinare Catering Eventi, anche delle cooking class per turisti, a cui faccio conoscere i piatti della tradizione, oltre a lavorare per gli eventi in genere.

Raccontaci la strada della tua formazione da chef, in modo che possa essere un esempio per qualcuno che volesse intraprendere questo percorso.

Iniziare questo lavoro non più da giovanissimi è più difficile e serve maggior impegno. Per la mia formazione ho sempre fatto ricerca in tutti i campi, prima all’Istituto dell’Arte e poi per raggiungere la mia laurea in Storia dell’Arte. Il lato artistico, la progettualità e la sperimentazione sono anche in cucina, mia costante valvola di sfogo. Mio padre era bravissimo nella preparazione dei piatti e anche mia madre era un’ottima cuoca, che appuntava le sue ricette tradizionali umbre in un prezioso libricino che ancora oggi custodisco gelosamente. Tutto ciò mi ha sempre portato a far ricerca, nel rispetto delle tradizioni culinarie locali e, quando mi sono accorta che la cucina stava diventando un lavoro, ho frequentato l’Accademia Italiana Chef a Roma e mi sono diplomata. Questa certificazione ha rappresentato l’avvio ufficiale della mia nuova attività.

Caterina, com’è stata la tua partenza da chef?

Sono partita, grazie al costante lavoro di Diana come esperta di marketing, preparando le mie ricette durante gli eventi organizzati per aziende private e istituzioni pubbliche. Un mio ricordo bellissimo è quello di aver preparato il buffet, alla Biennale di Venezia, per la mostra di apertura dell’artista americana Beverly Pepper, scomparsa recentemente e che ha vissuto per molto tempo a Todi, dove è stata amorevolmente apprezzata e a cui ha donato le sue opere per un parco monumentale. Lei ha rappresentato l’Umbria alla Biennale veneziana e noi abbiamo curato il catering per la sua mostra.

Recentemente hai partecipato alla trasmissione Cuochi d’Italia di Alessandro Borghese. Le tue sensazioni?

Dopo varie selezioni, ho fatto il provino finale e dopo una trepidante attesa, mi hanno comunicato che ero stata scelta a rappresentare l’Umbria. È stata un’emozione fantastica! Partecipare con i miei piatti mi ha fatto crescere e riflettere per migliorarmi professionalmente.

 

Caterina Betti con Alessandro Borghese in “Cuochi d’Italia”

Le tue preferenze culinarie e i tuoi progetti?

Per i profumi e i ricordi, ho una preferenza per la lavorazione dei lieviti. Mentre il mio prossimo e ambizioso progetto è quello di pubblicare un libro di cucina, a cui sto già lavorando. Sarà molto particolare e non voglio anticipare niente.

Caterina, vuoi mandare un saluto ai nostri lettori, regalandogli una tua ricetta?

Volentieri. In questo lungo periodo di difficoltà legato al Covid, dobbiamo sorridere e andare avanti. È un momento durissimo dove il lavoro latita ed è precario, ma nelle difficoltà vediamo gli aspetti positivi, dove la natura si è riappropriata di alcuni spazi e noi abbiamo potuto ripensare alla progettazione del nostro lavoro. Bisogna guardare oltre e tutto rifiorirà, in quanto la gente ha voglia di uscire e incontrare persone, tornando alla normalità. Saluto tutti con una ricetta, a me molto cara…

 


TORTA DELLA NONNA IDA

 

Per la frolla:

150 g di farina 00

1 tuorlo

40 g di zucchero

70 g di burro

 

Per la farcia:

250 g di ricotta

50 g di zucchero

Mezzo cucchiaino di estratto di vaniglia

Buccia di mezzo limone grattugiata

1 tuorlo d’uovo

1 bicchierino di maraschino

Per la meringa:

2 albumi

100 g di zucchero

 

 

 

Procedimento:

Impastare velocemente gli ingredienti per la frolla, fare una palla e lasciare riposare in frigorifero per 10 minuti. Stendere poi in una teglia imburrata o antiaderente, senza fare i bordi. Cuocere a forno moderato per 15 /20 minuti. Intanto mescolare gli ingredienti del ripieno, quando la base di frolla sarà cotta estrarla dal forno e coprirla con questa farcia. Infornare nuovamente e cuocere per altri 15 minuti circa. Intanto montare a neve i due albumi con lo zucchero, sfornare la torta e ricoprirla interamente con la meringa, lasciandola cuocere a 100° per circa 30/40 minuti, o almeno finché non vedrete che la meringa si sarà leggermente dorata.

«La mia cucina parte dai colori, dai profumi e dai sapori della terra in cui vivo. L’Umbria è in tutti i miei piatti come espressione del mio legame con il territorio, con le sue tradizioni e con le materie. Proporre un menu significa per me far percorrere un viaggio multisensoriale tra i paesaggi e i sentori di questa regione».

«Se mi assegnano la Stella Michelin faccio una festa che dura tre giorni. Devi venire anche tu!» (scherza). Paolo Trippini, classe 1979, top  chef umbro di Civitella del Lago (Terni), deve attendere solo fino al 25 novembre per sapere se lui e il suo Ristorante Trippini saranno insigniti di questo ambito riconoscimento. «È l’Oscar della cucina?» chiedo. «Esatto, è inutile far finta che non interessi. A me interessa eccome». Nel frattempo lo chef è stato nominato Ambasciatore Italiano del Gusto, primo e unico umbro entrato a far parte della prestigiosa associazione italiana che promuove, sostiene e valorizza, nel mondo, il patrimonio agroalimentare ed enogastronomico di eccellenza made in Italy e made in Umbria. Dal 2015 è membro dei Jeunes Restaurateurs d’Europe, associazione che riunisce i migliori e i più giovani rappresentanti dell’alta gastronomia; è, inoltre, docente della scuola del Gambero Rosso e partner della famiglia Eataly, per cui, nel food district Eataly di Roma, ha portato il suo Bosco Umbro.
Trippini, stagione dopo stagione, racconta il suo territorio attraverso il menu e regala aneddoti – tramandati di padre in figlio – come fosse un diario di bordo, per un viaggio alla scoperta di un’intera regione, dei suoi usi e costumi, del suo tessuto sociale, economico e culturale.

È forse troppo facile farle questa domanda: qual è il suo legame con l’Umbria?

È un legame viscerale. Sono nato e cresciuto in Umbria e ho un amore spassionato per tutto quello che è umbro: dal cibo ai panorami fino alla cultura.

Ritroviamo i sapori dell’Umbria anche nei suoi piatti e nella sua filosofia in cucina…

Assolutamente. Negli ultimi anni abbiamo fatto un percorso per portare nel piatto tutti gli ingredienti tipici umbri, anche contaminati con altre cucine.

Diventare chef è stato quasi un passo obbligato – visto il ristorante di famiglia – oppure è quello che ha sempre sognato di fare fin da piccolo?

Ho sempre sognato di fare questo lavoro e non penso di essere capace di farne un altro. Non ho mai avuto dubbi a riguardo, per me è il lavoro più bello del mondo! Sono una persona fortunata, faccio ciò che mi piace e non è un lusso che tutti possono avere.

 

Paolo Trippini, 41 anni

È il primo e unico umbro nominato Ambasciatore Italiano del Gusto: cosa significa per lei questo riconoscimento?

Per me è un bellissimo riconoscimento di cui sono molto orgoglioso, ancora di più perché sono l’unico umbro. Essere Ambasciatore del Gusto vuol dire far conoscere al mondo quali sono le proprie tradizioni e la propria cultura del cibo. È una bella responsabilità.

E cosa significa per la regione?

Avere un umbro che si può sedere al tavolo con i rappresentati delle altre regioni è molto importante. Così com’è importante confrontarsi con altri chef e presentare loro tutti i sapori dell’Umbria: parlo di Antonino Cannavacciuolo, Carlo Cracco, di top chef o stellati.

A proposito di stellati, la stella Michelin è un obiettivo?

Le stelle le vedo tutte le sere! (scherza). È ovviamente un obiettivo, ogni anno lavoriamo anche per questo e se arrivasse saremmo felicissimi, anche per l’Umbria. Sono onesto, se la ottengo faccio una festa che dura tre giorni. È il riconoscimento più importante per un cuoco, è inutile far finta che non interessi. I risultati di quest’anno escono il 25 novembre. Chissà! Vedremo!

Allora, incrociamo le dita…

Ve lo faremo sapere. Vi invito alla festa!

La ristorazione è uno dei tanti settori colpiti dal lockdown localizzato: come affronta questo periodo? Pensa che sia una giusta precauzione?

Finora abbiamo fatto tutto ciò che c’era da fare. Sicuramente non vorrei essere nei panni di chi ci governa in questo periodo, sai a livello nazionale sia regionale. Il problema c’è ed è inutile nascondersi: il DPCM che ha ufficializzato la chiusura dei ristoranti ci ha lasciato un po’ amareggiati; avevamo fatto tanto: distanziato i tavoli e istallato le varie protezioni per scaglionare la gente. Questa chiusura andava gestita in maniera diversa, magari con la prenotazione e un’autocertificazione avremmo potuto continuare a lavorare come prima. I bar e i ristornati sono due realtà distinte e si potevano gestire in modo diverso: nel ristorante gira meno gente, l’apertura è ridotta – non più di tre ore – e tutto si controlla più facilmente.

Ci racconti la sua Umbria a tavola…

È una regione genuina. La sua cucina è molto radicata nel territorio e fonda tutto il suo gusto sui prodotti del bosco, sia a livello vegetale sia animale. Un giornalista una volta mi disse: «L’autunno è la primavera umbra», in effetti questo periodo è il più bello, per l’Umbria. Abbiamo funghi, tartufi, castagne…

Se l’Umbria fosse un piatto, quale sarebbe?

Senza dubbio il Bosco umbro. È una mia specialità vegetale che si rinnova con le stagioni, ma sempre inconfondibilmente legata al cuore dell’Umbria. Oppure, se vogliamo pensare alla tradizione, il piatto che più ci rappresenta è il piccione, uno dei più ambiti nei ristoranti gourmet di tutto il mondo. Ho un aneddoto legato a questa cucina: ancora oggi non sono riuscito a cucinare un piccione in salmì buono come quello che fa mio padre. Il piccione in salmì rappresenta proprio l’Umbria, in tutto e per tutto.

La nostra regione non è molto famosa per il cibo: come mai?

È vero. In pochi sanno che in Umbria si mangia bene. Al di fuori non viene mani riconosciuta per questa peculiarità; ad esclusione dei romani, che vengono qui per mangiar bene. Inoltre, ci sono tanti chef famosi e stellati che comprano nelle aziende umbre che garantiscono prodotti eccellenti, ma anche questo è poco conosciuto. È un vero peccato: a volte non abbiamo la consapevolezza del potenziale che c’è qui, dobbiamo presentarci al di fuori con il vestito migliore. Questo è un mio obiettivo da ambasciatore.

Nella sua cucina non manca mai…

Come ingrediente, nella mia cucina, non manca mai la ricotta. Come status, non deve mancare mai il rispetto e la voglia di scoprire e conoscere.

C’è un piatto o un ingrediente che odia cucinare o mangiare?

Uno in particolare no, cerco di assaggiare tutto e mangio di tutto, ma direi che i cachi non mi danno nessun gusto quando li mangio. È un frutto che non utilizzo nemmeno in cucina. Non mi dà soddisfazione.

Facciamo un gioco: panpepato o pinoccate?

Panpepato.

Norcina o umbricelli al tartufo?

Norcina.

Rocciata o ciaramicola?

Rocciata.

Castagnole o torcolo di San Costanzo?

Castagnole.

Lenticchie o cicerchiata?

Cicerchiata.

Per finire, come descriverebbe l’Umbria con tre prodotti locali?

Legumi, ricotta, piccione.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione?

Burbera.

«L’olio e il vino umbro sono un nostro patrimonio culturale come il Pinturicchio e il Perugino»

Gianfranco Vissani non ha bisogno di tante presentazioni. È forse il primo chef apparso in televisione, quando ancora gli chef stavano solo in cucina. Esuberante, schietto e un vero umbro verace. E anche durante la nostra chiacchierata si dimostra tale: ricorda il padre quando ammazzava il maiale o quando preparava i liquori al sambuco e al muschio e alle tante cose che gli ha insegnato, o a quando guardava Goldrake. «Tu lo guardavi Goldrake? Forse sei troppo giovane!». Poi l’intervista si sposta sulla cucina umbra ed è palese il suo attaccamento a questa terra e a tutto quello che regala. «Il mio, è un vero rapporto col territorio».

Gianfranco Vissani

Qual è il suo legame con l’Umbria?

Ho origini maremmane ma sono nato in Umbria a Civitella del Lago in provincia di Terni, quindi il mio legame è molto forte. Al lago di Corbara mio padre ha aperto il primo ristorante quando ancora c’era poca corrente in zona e le strade erano poco praticabili. Da giovani cerchiamo e siamo attratti da tutto quello che è diverso, per questo – dopo l’istituto alberghiero a Spoleto – ho girato molto l’Italia: Venezia, Cortina d’Ampezzo, Genova, Firenze e Napoli, oggi invece tutto quello che c’è qui è la mia vita. Amo l’Umbria, ho con questa terra un legame molto radicato.

Se l’Umbria fosse un piatto, quale sarebbe?

Non sarebbe solo un piatto, ma tantissimi. Sarebbe la caccia, le lenticchie di Castelluccio, le patate di Colfiorito, il tartufo cavato e non coltivato, l’olio, i vini come il Sagrantino, la torta cotta sotto la brace, la maialata e il sanguinaccio, i tordi di Amelia e la palomba alla ghiotta di Todi. Siamo una piccola regione, ma molto importante e innovatrice in cucina.

Un ingrediente che non può mancare sulla tavola di un umbro…

Sicuramente l’olio, per le sue piccole dimensioni l’Umbria ne produce tantissimo, e il vino di Caprai e Lungarotti che sono stati dei veri innovatori. Questi due prodotti sono un nostro patrimonio culturale pari al Pinturicchio e al Perugino.

Quanto, e in che modo, questa regione ha influito nella sua cucina e nel suo lavoro?

Moltissimo. I prodotti umbri sono molto presenti nelle mie ricette.

Il suo ultimo libro La cucina delle feste ha come sottotitolo L’altro Vissani: chi è l’altro Vissani? Ne esiste un altro?

Sì, è un altro rompiscatole come me (ride). È un sottotitolo che mi piaceva mettere.

Un bravo chef è quello che cucina la miglior pasta al pomodoro o quello che crea un ottimo piatto mai fatto da altri?

Un bravo chef deve sapere fare entrambe le cose: partire dalla semplicità di una pasta al pomodoro per arrivare a un piatto più particolare e complicato.

Piccola curiosità: c’è un cibo che proprio non sopporta? E uno del quale non può fare a meno?

Non mi piacciono i crauti e non potrei fare a meno dell’olio o del prosciutto, ma di quello che non sa troppo di maiale.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Colline, paesaggi naturali e verde.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

La vita tranquilla e le viti d’uva.