Umbertidese, è tutta questione di vocali

«La più parte dei nostri dialetti hanno un alfabeto di suoni più ricco assai del comune». Giacomo Leopardi

Umbertide si trova nella terra di mezzo tra Perugia e Città di Castello (a 30 km dalla prima e a 20 km dalla seconda) e il suo dialetto risente di questa collocazione geografica: ha assorbito tratti linguistici di entrambi i vernacoli, diventando però una lingua ben distinta, nonostante in molti la confondano con il castellano. Ma non è così! A guidarci nel viaggio alla scoperta (o meglio riscoperta) del dialetto di Umbertide – per eliminare tutti i dubbi sulle somiglianze con il perugino e il castellano – c’è il professor Sestilio Polimanti, autore del libro: Vocabolario del dialetto di Umbertide e del suo territorio (edito da Nuova Prhomos) e grande appassionato del vernacolo umbertidese.
«Il dialetto non è semplicemente un mezzo per esprimersi e comunicare ma è soprattutto un modo di vivere e di essere. Il nostro, come un po’ tutti, è molto cambiato e nel corso del tempo è stato annacquato dall’italiano. La mia generazione ancora lo parla, i giovani invece lo conoscono pochissimo, qualche parola ma nulla più. È una lingua che si sta perdendo» racconta a malincuore il professore.

Professor Sestilio Polimanti

Tra il perugino e il castelàno

«Anche se l’umbertidese presenta sensibili differenze con il perugino, è pur vero che con esso condivide alcuni tratti come la semplificazione consonantica o la palatalizzazione di a in sillaba aperta (per cui càne – chène) nelle zone rurali. Se invece si pone l’orecchio al lato nord di Umbertide, sentiamo somiglianze con il dialetto di Città di Castello, con il quale molti umbri spesso confondono la nostra lingua locale. Un tratto comune sono le vocali aperte è e ò in sillaba aperta che vengono chiuse in é e ó (bène – béne, pòco – póco). Un’altra somiglianza è nella presenza della vocale che foneticamente si colloca tra la a e la è, tipica anche di alcuni dialetti della vicina Romagna, per cui nella zona urbana di Umbertide càne suona come cäne (o secondo altre grafie cæne), e cioè con quella vocale che sta a metà tra una a e una è (aperta). Da notare anche il comune meccanismo di armonia vocalica, che nell’umbertidese caratterizza soprattutto il registro urbano, particolarmente evidente nella formazione dei diminutivi in cui la i del suffisso provoca la chiusura della o precedente in u e della e precedente in i (botéga – butighìna, bòzza – buzzìna, motóre – muturìno, càmera – camirìna). Ma, come dicevamo, in umbertidese abbiamo anche differenze rispetto al castelàno: una fra tutte è il trattamento delle vocali chiuse é e ó, che si aprono nel dialetto di Città di Castello (prónto – prònto, grézzo – grèzzo), mentre rimangono fedeli alla realtà fonica italiana nell’umbertidese» spiega il professor Polimanti.
Altre affinità col perugino si sentono anche quando la preposizione a diventa ta in umbertidese (ta me, ta te), mentre in castellano è ma (ma mè, ma tè). Altri tratti sono invece simili ad altre realtà linguistiche della regione, ad esempio i verbi che all’infinito perdono re finale: per cui abbiamo giocà, vedé, finì; oppure: gìmo (andiamo), gìte (andate) – provenienti dalle forme verbali latine imus, itendu (dove), nn ènno (non sono), nduèlle (da nessuna parte), che danno luogo a frasi tipiche come: Nn ènn ìti nduèlle (non sono andati da nessuna parte). Un’altra particolarità è l’uso degli avverbi tulì, tulà, tolé per l’avverbio italiano lì.

Parole curiose

L’umbertidese, come la maggior parte dei dialetti, sta perdendo, come detto, tante parole, che non si usano più o restano una prerogativa delle persone più anziane. «Sono rimasti in pochi a parlare un vernacolo marcato perché la mobilità sociale, l’invasione di mass media, l’integrazione con persone che vengono da altre regioni o altri Paesi, lo sta trasformando in una lingua ibrida, in un italiano con qualche incursione dialettale, soprattutto tra i giovani. Più diminuisce l’età, più diminuisce il dialetto» prosegue Polimanti.
Quindi, per farvi rispolverare un lessico quasi perduto vi proponiamo alcune parole che oramai usano (e capiscono) in pochi: abigaràsse, abigheràsse (trastullarsi, divertirsi, giocherellare, perdere tempo): Sta sèmpre a abigheràsse cóme n fiólo; anciaburlì o rinciaburlì (intontire, stordire); botontóni (in gran quantità, a scroscio): Pióve a botontóni; brucìme (persona malaticcia o bambino piccolo e magro) e cutùrlo (grossa pietra, ma anche tipo scorbutico o di poca intelligenza): Ma alóra sè próprio n cutùrlo.
Da segnalare anche gontà, gontǟ, gontè (traboccare o essere abbondante): l Tévere gónta (il Tevere straripa), al contrario n gónta (non trabocca), che si dice quando le cose non vanno bene: Ànno l vìno n gónta de sigùro; leornìna, liornìna, liurnìna (freddo intenso); patalòcco (ingenuo, sempliciotto, poco intelligente); patóllo, (sponde del Tevere con vegetazione rigogliosa): D istàte gìime a pïà l frésco al patóllo; petécchie (espressione ironica Fä le petécchie. Essere nell’impossibilità di fare qualcosa. Oppure: E che ci fè? Le petécchie?. E cosa ci fai? Non ti serve a nulla); piliccióne (detto di persona pigra, sporca); rufolàta, rufolǟta, rufolèta (faccenda fatta in fretta e male) e sgulinàsse (desiderare fortemente qualcosa): Me sgulìno de sapé cùme girà a finì.

La Collegiata – Chiesa di Santa Maria della Reggia

Modi di dire…

Come tutte le lingue locali, anche questa ha un’abbondanza di espressioni/modi di dire e proverbi davvero particolari, che vale la pena segnalare, anche perché alcuni sono molto divertenti.
Iniziamo coi modi di dire. Tra quelli che ancora spesso si sentono, ci sono: me ne sgulìno (ho l’acquolina in bocca, provo un grande desiderio, non vedo l’ora) e pià a pitinìcchio (quando una persona ti prende in antipatia o ti assilla). Se sei pazzo da legare ti diranno: Da quànto è màtto barùlla (Da quanto è matto rotola); se invece non capisci niente: Gn avànza l capì cùmme la crésta ta le óche (gli spunta il capire come la cresta spunta sulle oche. Le oche non hanno la cresta) o: Si l capì amazzàa, campàa cent ànni e pu s arfecéa da càpo (se il capire uccidesse, vivrebbe cento anni e poi ricomincerebbe daccapo). Anche i più sfortunati vengono presi di mira con ironia: È tànto fortunèto che si se métte a fè le birétte, i fióli nàscono tùtti sènza tèsta (è così fortunato che se si mette a fare le berrette i figli nascono tutti senza testa) e pure chi non è un granché: Nn è Róma, e nn è mànco Romèggio (Romeggio è un piccolo villaggio in collina, a sud-ovest di Umbertide); se invece uno ha la bocca larga, vuol dire che: l ònno ambocchèto co na tégola (lo hanno imboccato con una tegola). E che sgrùlli, mìa n sò n sùccino! (e cosa scuoti, non sono mica un susino), si dice a chi con gomitate e spinte, con la mano o con il braccio cerca di avere la nostra attenzione durante una conversazione, oppure a chi abbraccia troppo calorosamente.

…e proverbi

Inizio con le grandi verità sulla donna: Dònna e vìno ambrïècono l grànde e l mignìno (donna e vino ubriacano l’uomo grande e quello piccolo), la dònna e l fóco stùzzicheli póco (la donna e il fuoco vanno stuzzicati poco). Ci sono poi quelli dedicati al lavoro: Chi vol provè le péne de l infèrno, fàbbro d istète, muratóre d invèrno (chi vuol provare le pene dell’inferno faccia il fabbro d’estate e il muratore d’inverno), chi lavóra fa la gòbba, chi rùbba fa la ròbba (chi lavora diventa gobbo, chi ruba diventa ricco), chi manéggia l miéle se lécca i dìti (chi maneggia il miele si lecca le dita. In pratica chi ha a che fare con denaro o roba altrui ne approfitta di sicuro); e quelli dedicati al meteo: Si Montagùto a mésso l capèllo, umbertidési aprìte l ombrèllo (se la cima di Monte Acuto è coperta di nubi, umbertidesi aprite l’ombrello).
Non va dimenticata l’antica saggezza, sempre attuale: l Tévere amprèsta ma n vénde (il Tevere presta i suoi terreni, ma non li vende. Con le piene riprende la terra che ha donato); préti, fràti, mòniche e pólli nn èn mài satólli (preti, frati, suore e polli non sono mai sazi); si è frétta méttite a sedé (se hai fretta, mettiti seduto. Se hai una necessità rifletti prima di agire) e c è ta chi gni parturìscono i bóvi e ta chi mànco le vàcche (ci sono persone alle quali partoriscono anche i buoi e persone alle quali non partoriscono nemmeno le vacche. La fortuna poi non è uguale per tutti).

La Rocca di Umbertide

Póco me basta di Silvano Conti

Póco me basta.
Nn orlo de pane,
n dito de vino,
m pò d’ansalata
con quattro fagióli,
e n célo grande
cui lampi, cui tóni,
le stelle strìgule
e i nuvoloni.

Me basta póco.
N tantin de culo
e m par de cojoni.


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Agnese Priorelli

Laureata in Scienze della comunicazione, è giornalista pubblicista dal 2008. Ha lavorato come collaboratrice e redattrice in quotidiani e settimanali. Ora collabora con un giornale online e con un free press. È appassionata di cinema e sport. Svolge attività di inserimento eventi e di social media marketing e collabora alla programmazione dei contenuti. Cura per AboutUmbria Magazine, AboutUmbria Collection e Stay in Umbria interviste e articoli su eventi.