«Io non penso in italiano, penso in dialetto perché sono un popolano» (Gianni Brera).
Con il Castelèno ci spostiamo all’estremo nord dell’Umbria per scoprire – in questa terza puntata (dopo il perugino e l’eugubino) – un dialetto che potremmo definire un vero e proprio insieme di varietà proprie dalle zone limitrofe: da un lato l’influenza marchigiana, dall’altro quella della Toscana orientale. Ma lo stesso tifernate si differenzia, per intonazioni fonetiche e lessicali, in quello parlato drènto i muri – Città di Castello centro – e in quello della periferia e delle campagne.
«A sud verso Umbertide si dice ta me, ta te… come nella zona perugina, che diventa ma te, ma me a Castello. Il dialetto comunque si è molto italianizzato – o andacquèto – in quanto le nuove generazioni ne stanno perdendo l’uso: parole e modi di dire tipici della cultura dialettale vengono utilizzati in prevalenza solo dalle persone più anziane. Ma il difficile del dialetto non è tanto parlarlo, quanto scriverlo e soprattutto leggerlo» spiega Fabio Mariotti, componente del gruppo folkloristico Paguro Bernardo e appassionato di dialetto.
Il gruppo – formato da Massimo, Marcello, Fabio, Stefano, Matteo e Diego – è molto famoso nella zona dell’Alto Tevere e vanta venti anni di attività, con all’attivo cinque CD, un libro e un DVD. Giocano con i testi delle canzoni famose traducendoli e reinterpretandoli in dialetto castelèno così da raccontare storie della tradizione popolare e non solo.
L’Accademia de la Sèmbola
«Diversi anni fa, proprio per insegnare a scrivere e a leggere correttamente il castellano, era stata creata l’Accademia de la Sèmbola (crusca, cereali) in cui si tenevano lezioni ed esercitazioni mirate. Ci eravamo ispirati all’Accademia del Donca e agli insegnamenti del dialetto perugino» prosegue Mariotti.
Ci sono poi parole che vanno ricordate, perché fanno parte della vita di un castellano, ma il tempo sta facendo piano piano scomparire: galòpola (caviglia), razi (animali da cortile), ‘n vèlle (da nessuna parte: Quèllo è uno che n’ và nvèle, si dice di un uomo presuntuoso o di scarsa intelligenza), ghiottiróla (imbuto), sinò (sennò, altrimenti) e bompóco (grossa quantità).
A Città di Castello se vi dovessero dire che siete un tontoloméo, non offendetevi! È una parola che si usa in tono familiare, non offensiva, come lo stesso tònto. Può assumere diversi significati a seconda delle situazioni, quindi si hanno le varianti: tontolóne, tontolino, tontolacio, tontolerìa, tontolàgine.
Tra le chicche dialettali ci sono: mènadritta (mano destra) e mènmancina (mano sinistra). Con lo stesso termine si danno anche le indicazioni stradali (Per gi a Umbértide girète a mèndritta dòppo che l’albero) e si indicano le parti del corpo: ochio a mènmancina (occhio sinistro), piede a mèndritta (piede destro). Una menzione va fatta per i giorni de la sitimèna: Lonedé, Martedé, Mercòldé, Gióvedé, Venardé, Sabito e Dómènnica; e i mési de l’àno: Genèio, Febrèio, Marzo, Aprile, Màgio, Giògno, Lòjjo, Agòsto, Setémbre, Otóbre, Novémbre e Dicémbre.
Filosofia popolare
Si sa, il dialetto spesso parla con i proverbi e i modi di dire, e il castellano non è da meno. Ne conserva tantissimi che ancora oggi vengono utilizzati nel parlato comune: una filosofia popolare spontanea e veritiera, che racconta un tempo passato ma sempre e comunque attuale e reale. «Il modo di dire che più spesso si dice nell’Alta Valle del Tevere è: La Montesca c’ha l capèlo, castelan porta l’ombrelo (Se sopra La Montesca ci sono le nuvole, sicuramene pioverà). Ma non posso non ricordare anche: A ‘na cérta età ‘gni acqua tràpia (a una certa età i dolori vengono fuori tutti); E armannéte ‘n pochino che s’è tòtto sbudelèto (ricomponiti che sei tutto in disordine – relativo al modo di vestirsi); Te caciarìbbono la ròba da magnè p’ i òchi (quando sei ospite in casa di qualcuno e ti vogliono offrire qualcosa da mangiare a ogni costo. Lo si dice di solito per indicare le brave persone); C’è la tèsta cóme ‘na bachjùccóla (si riferisce a una persona poco intelligente); ‘L chène, la mojji e lu schiòpo ‘n se prèstono ma nisuno (il cane, la moglie e il fucile non si prestano mai) e Per gnenta ‘nnu sdringóla manco la coda ‘l chène (nessuno fa niente per niente)» conclude Mariotti.
Tutti a… el bagno
I castellani le terme di Fontècchio le chiamano affettuosamente el bagno: raramente usano il vero nome. Questo dimostra l’attaccamento che hanno con le vecchie terme, dove nel corso dei secoli hanno curato i loro mali e dato refrigerio durane il caldo estivo. Al bagno ci s’amparea anche a notè (“Al bagno” ci si imparata anche a nuotare) visto che c’era l’unica piscina (a parte le dighe) e quelli con piò guadrini se poteon permètte de paghè amparèono anche a giochè a tennis… (quelli con i soldi si potevano permettere di pagare per imparare a giocare a tennis). Inoltre, liberamente si poteva attingere la famosa acqua sòlfa che faceva e, fa ancora, guarì e rinfreschi lu stombico.
Per saperne di più c’è il Vocabolario del dialetto castellano di Francesco Grilli.
Agnese Priorelli
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