“I dialetti sono eterni. Gesù parlava in dialetto. Dante scriveva in dialetto. Il Padreterno, in cielo, parla in dialetto”. (Libero Bovio)
Il dialetto di Gualdo Tadino è il risultato di un miscuglio tra la città e la campagna, tra il centro storico e le frazioni. La città è stato il centro della contesa essendo terra di confine tra i ducati di Urbino, Perugia, Spoleto. Fin dal terzo secolo a.C. il territorio gualdese è stato attraversato da una delle principali vie di comunicazione tra il Tirreno e l’Adriatico: la strada consolare Flaminia, che collegava Roma a Rimini.
Per questo motivo Gualdo Tadino ha subito varie contaminazioni linguistiche, a questo si aggiunge il valico di Valsorda, che era il naturale collegamento con la Marchia Anconetana. Federico II di Svevia nelle sue cronache racconta che era solito ascoltare per le stradine gualdesi una terminologia di derivazione celtica.
Per capirci qualcosa, abbiamo parlato con Mario Pasquarelli, detto Feroce: «Voglio specificare che tutti mi chiamano così a Gualdo, fin da bambino. Anche per mia mamma e a scuola ero il Feroce. L’ho ereditato dal mio babbo, ma soprattutto perché sono un tipo da sì o no senza tanti fronzoli. A Gualdo tutti hanno un soprannome, raramente ci chiamiamo per nome». Feroce con noi non lo è stato, anzi con disponibilità ci ha guidato – in collaborazione con Mario Anderlini – alla scoperta del suo vernacolo… ovviamente senza tanti giri di parole. Dopotutto è Feroce.
«Il nostro dialetto si sta perdendo. Il 90% dei gualdesi lo parla poco o utilizza solo qualche parola. I più giovani, ad esempio, faticano a capire i termini più antichi. Io cerco invece di promuoverlo e di tenerlo ancora in vita, è importante che venga studiato anche a scuola e non deve essere assolutamente un motivo di vergogna parlarlo, in molti invece pensano questo. Va detto che nel corso degli anni ha subito influenze da città vicine e c’è stato un mix tra il gualdese del centro e quello delle frazioni; basta pensare che spesso cambia da un rione all’altro, per non parlare di quello usato in campagna; tutto si è mischiato anche se restano, in alcuni casi, delle peculiarità tra un luogo e l’altro. Ad esempio, a Gualdo città le parole finiscono in itte: spaghitte, canitte (piccoli cani), faggiolitte, maghitte; oppure il que, che indica cosa?, di chiara derivazione francese, (que vo eque diche, que fae)).
Mentre nella frazione di Morano si concludono in ene e ane: lassune, tuquine, tolane, dilane, diquine, stane (stare), a mene (a me) o me sà. A Boschetto (altra frazione) c’è invece la U finale: quistu, quillu, per dire questo e quello» spiega il Feroce.
Parole incomprensibili
Ci sono termini che sono proprio incomprensibili per chi non è del luogo. Qualche esempio per farvi un’idea: anniscola (altalena), ammaiata (rete di recinzione), friscolata, (prima spremuta d’uva), uccâ (urlare sguaiatamente), pioiccica (inizio di pioggia), spicicchia chi sbatte le palpebre (spicicchia ‘iocchie) o tartaglia (nun spicicchia ‘na parola), papataro (bugiardo), paccone (fanatico), mojica (mollica), bambino piccolo (na cria) figlio e bambino vivace si dice (biribisse) o boccia (fanciullo); gabbajotto (inganno), gammero (gambero o furbo), baoso (noioso), babetto (moneta) aé! (allora!), cegnera (cenere), a griccia (in aria). In ogni paese non manca mai il rugnicone, cioè una persona che parla alle spalle, che semina zizzania in modo silenzioso e rognica (rognicare significa brontolare in modo aggressivo); celebre l’espressione: sente commo rugnica… rugnica bruttamente. Ci sono poi il baccaione (brontolone) e lo sciapacchiotto (lo sprovveduto, il giullare inconsapevole) che viene tollerato per compassione: La… nun n’arfà lo sciapacchiotto, …sae ‘ngran sciapacchiotto…e finischetela…!
Viene usato anche il neologismo scorpellare che significa scorticare in maniera non grave ma molto fastidiosa: si nun te la finische te scortico la schina (se non la smetti ti scortico la schiena). Vi segnaliamo anche mastricciare (impastare, cercare con delicatezza): Tu guarda commo sta a mastriccià di lì…; smuginare (cercare con veemenza): aguarda commo smugina… ma que stae a cercà?! e sgarufare (scavare, cercare nel terreno): è il cane da tartufi che sgarufa. Mentre struginao ‘ntel cassetto vuol dire cercare nel cassetto.
Giorni e famiglia
Una menzione va fatta per le parentele gualdesi che per praticità uniscono sostantivo e aggettivo. E quindi troviamo: zieso (suo zio), zieto (tuo zio), fratemo (mio fratello), frateto (tuo fratello), mammeta (tua madre), babbeto (babbo tuo), fijo (figlio), fiastra (nuora), fiastro (genero). Degni di nota anche per i giorni della settimana: domennica o mennica (domenica), mercoldì (mercoledì), venardì (venerdì), sabbeto (sabato) e ogge (oggi).
A scuola di grammatica
Non sai quando usare il condizionale o il congiuntivo? A Gualdo hanno risolto il problema unendo i due modi verbali. E allora si dice giressimo, faressimo, magnaressimo, arcaparessimo, arcapezzaressimo, aesse (avessi), gessimo (andammo). Quest’ultimo da non confondere con aesso, che vuol dire adesso. Per praticità la frase: Lo faremmo se potessimo si dice: el faressimo.
C’è poi il verbo avere che si declina in: aia (aveva), aio (avevo), aiamo (avevamo), aieno (avevano), ete (avete) e il verbo essere (esse) che va da ene (è) a enno (sono). Passiamo poi agli avverbi di luogo: tolâ (là), tulì (lì), toqui (qui), diquì, toquì (qua) e agli aggettivi dimostrativi: sta, sti, sto, ste, tiste, quiste (questa, questi, questo, queste). Quala o qualo per dire quale, quanno per quando, quasi per quasi, quelle si traduce in niente e qnente.
A scuola di imprecazioni
Una caratteristica dei dialetti è la massiccia presenza di modi di dire e di imprecazioni rivolte a chi in quel momento (sfortunatamente) si trova nei paraggi. Posce murì abbrugiato o possa piatte ‘na pulmunite abbirata, ma anche che te piasse no sbocco de sangue o possa fa un travaso de sangue, o un gummito de sangue, posce cresce ‘n chilo al giorno. Tanto per essere gentili. Tra i modi di dire più significativi, che ci ha suggerito anche Feroce, vi segnaliamo: esse più sfortunati de i cani in piazza. «I cani che stanno in piazza non hanno una famiglia, non li vuole nessuno, per questo sono sfortunati e tutti li cacciano, oppure l’ae fatta su la latta per dire che uno se le va a cercare. Infine, se uno sente freddo, stae a fâ’ el cicolo».
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Agnese Priorelli
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