Tornate in Umbria le opere requisite da Napoleone (parte seconda)
di Giulia Venturini
ยซMille cause hanno concorso a fare dellโItalia una specie di museo generale, un deposito completo di tutti gli oggetti che servono allo studio delle arti. (โฆ) Si compone di statue, di colossi, di templi, di stucchi, di affreschi (โฆ) ma si compone altresรฌ di luoghi, di paesaggi, di montagne, di strade, di vie antiche (โฆ) di reciproche relazioni tra tutti i reperti, di memorie, di tradizioni locali, di usanze ancora in vita, di paragoni e di raffronti che non possono farsi che sul postoยป.
Quatrรจmere de Quincy, Lettres ร Miranda, 1796
In seguito alle prime spoliazioni napoleoniche perpetrate da Bonaparte in Umbria, ne seguirono altre, altrettanto sistematiche, che lacerarono il patrimonio regionale. Il 1815 non รจ solo lโanno della sconfitta di Napoleone a Waterloo e del congresso di Vienna, ma anche lโepoca in cui il famoso scultore Antonio Canova venne convocato da papa Pio VII con una missione: recuperare le opere dโarte requisite a Roma e negli altri centri culturali dalle truppe napoleoniche.
Fondamentali in questo clima furono le Lettere a Miranda del critico dโarte francese Antoine Chrysostome Quatremรจre de Quincy, pubblicate in piena Rivoluzione francese. Le lettere non solo rappresentano un atto politico di resistenza alle spoliazioni delle opere dโarte, ma esprimono concetti fondamentali quali la tutela dei beni culturali e la teoria di contestualitร delle opere con il proprio ambiente. Grazie al Canova quasi tutte le opere tornarono in Italia: alcune confluirono nella Pinacoteca Vaticana incrementandone la collezione, altre invece tornarono ai loro legittimi proprietari.
Eccelsa opera requisita dai francesi fu il Polittico Guidalotti, capolavoro del Beato Angelico conservato presso la Galleria Nazionale dellโUmbria.[1]

Beato Angelico, Polittico Guidalotti, Galleria Nazionale dell’Umbria
Il polittico fu commissionato allโartista da Elisabetta Guidalotti per la cappella di famiglia, dedicata a san Nicola, presso la chiesa di S. Domenico a Perugia. Lโimpresa rispondeva alla necessitร dei Guidalotti, famiglia perugina tra le piรน importanti ma caduta in disgrazia alla fine del Trecento, di riguadagnare prestigio in campo sociale e culturale.
La monumentale pala dโaltare รจ composta da ben venti tavole dipinte. Sebbene la divisione a trittico dellโopera sia ancora di gusto tardogotico, la composizione risulta comunque unificata grazie allโimpiego di espedienti spaziali di grande efficacia e modernitร : la luce cristallina e puntuale bagna le figure e, impigliandosi nei tessuti e negli oggetti, conferisce veritร materica. Eccelsi sono i riflessi delle superfici nei vasi ai piedi del trono o la morbidezza tattile del piviale di san Nicola e della veste azzurra della Madonna, definita da ampie pieghe capaci di far trapelare le forme del corpo sottostante. Al centro รจ dipinta la Madonna con il Bambino in trono circondata da quattro angeli, due dei quali tengono tra le mani canestri pieni di fiori. Affiancano la Vergine san Domenico, san Nicola da Bari, san Giovanni Battista e santa Caterina dโAlessandria.
Ad attirare lโattenzione dei francesi sullโopera furono, in particolare, le tavolette della predella: le prime due vennero spedite a Parigi nel 1812, ed oggi sono conservate nella Pinacoteca Vaticana, mentre la terza fu portata a Roma lโanno successivo da Agostino Tofanelli, conservatore del Museo Capitolino; questโultima riuscรฌ a rientrare a Perugia nel 1817.
Altra eccelsa opera requisita dalle truppe napoleoniche fu la Deposizione Baglioni, di cui Orsini parla come ยซoperette di singolar bellezza, uscite dal pennello del divin Raffaelloยป. Lโopera realizzata da Raffaello รจ datata e firmata 1507. La pala dโaltare, stando alle notizie riportate da Vasari, venne commissionata da Atalanta Baglioni, appartenente alla celebre famiglia perugina. Il soggetto della pala centrale, la Deposizione di Cristo, venne probabilmente dettato dalla volontร di omaggiare il figlio della donna, Grifonetto, assassinato proprio in Corso Vannucci, nel corso di alcuni fatti di sangue interni alla stessa famiglia per il dominio di Perugia nel 1500. Fu proprio la madre Atalanta a pronunciare solennemente: ยซChe questo sia l’ultimo sangue che scorre su Perugiaยป.

Sassoferrato, Deposizione, Basilica di San Pietro. Foto Fondazione per l’Istruzione Agraria di Perugia
La predella fu recuperata da Canova il 21 ottobre 1815 ma rimase a Roma nella Pinacoteca Vaticana. Il soggetto dellโopera perรฒ lo possiamo ammirare grazie a due copie: la prima realizzata da Giovanni Battista Salvi detto Sassoferrato nel 1639 ed oggi conservata nella Basilica di San Pietro a Perugia ed una seconda copia di Giuseppe Cesari detto il Cavalier dโArpino, che eseguรฌ lโopera nel 1608 per volontร di Paolo V, dopo che lโoriginale era stata trafugata; questโultima opera รจ oggi conservata presso la Galleria Nazionale dellโUmbria.
I commissari napoleonici, in particolare, lโesperto dโarte Tinet e Denon denominato lโocchio di Napoleone, setacciarono per reperire capolavori non solo Perugia, ma anche molte altre cittร umbre, tra le quali Cittร di Castello. Presso la chiesa di San Francesco nella cittร tifernate, Filippo Albizzini commissionรฒ a Raffaello lo Sposalizio della Vergine,ย opera firmata Raphael Urbinas e datata MDIIII, รจ una delle opere piรน celebri dell’artista, che chiude il periodo giovanile e segna l’inizio della fase della maturitร artistica.[2]
Per questโopera lโUrbinate si ispirรฒ a unโanaloga tavola che proprio in quegli anni Perugino stava dipingendo per il Duomo di Perugia, vedendola in tutta probabilitร in una fase ancora intermedia.[3]
Lo sposalizio di Maria e Giuseppe avviene in primo piano, con al centro un sacerdote che, tenendo le mani di entrambi, officia la funzione. Dal lato della Vergine รจ posto un gruppo di donne, da quello di Giuseppe sono presenti alcuni uomini, tra cui uno che spezza con la gamba il bastone che, non avendo fiorito, ha determinato la selezione dei pretendenti. Maria infatti, secondo i vangeli apocrifi, era cresciuta nel Tempio di Gerusalemme e quando giunse in etร da matrimonio venne dato ad ognuno dei pretendenti un ramo secco, in attesa di un segno divino: l’unico che fiorรฌ, fu quello di Giuseppe.
Le figure sono legate da una vaga e poetica malinconia in cui nessuna espressione รจ piรน caricata di altre, nemmeno quella del pretendente che spezza il ramo in segno di rancore, in alcun modo corrucciato o teso. La magnifica opera fu requisita e non ha fatto piรน ritorno nel suo luogo di origine, oggi รจ conservata presso la Pinacoteca di Brera. Nella chiesa tifernate รจ perรฒ possibile ammirare un perfetto clone della tavola: grazie a 4250 scatti fotografici รจ stata realizzata una copia cosรฌ fedele da replicare anche le pennellate e le imperfezioni che il tempo ha lasciato sulla superficie dellโoriginale.
Le eccellenze artistiche tornate in Umbria, ricontestualizzate nel territorio o nel tessuto urbano che le ha generate, sono la testimonianza di come le opere dโarte acquisiscano valore di civiltร solo dalla profonda relazione con il paesaggio che lโha suggerite, la cultura che le ha generate e i luoghi che lโhanno custodite.
[1] John Pope-Hennessy, Beato Angelico, Scala, Firenze 1981.
[2] Paolo Franzese, Raffaello, Mondadori Arte, Milano 2008.
[3] Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari, I tempi dell’arte, volume 2, Bompiani, Milano 1999.

Giulia Venturini



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