fbpx
Home / Posts Tagged "Bettona"

A colloquio con il presidente dei Borghi più Belli d’Italia in Umbria, tra futuro e soluzione per evitare lo spopolamento di questi territori.

In questi ultimi anni, i borghi e le piccole realtà stanno vivendo una nuova giovinezza. Sono tornati – soprattutto a livello turistico – molto di moda. La riscoperta del loro territorio, dell’enogastronomia e della vita slow attraggono turisti,ma anche persone che decidono di abbandonare la città e trasferirsi in questi luoghi di pace e tranquillità. Tanti i vip – italiani e stranieri – che hanno scelto l’Umbria come rifugio dal caos cittadino. Ralph Fiennes, Daniele Bossari e la moglie Filippa Lagerback, Colin Firth, Ed Sheeran, Paolo Genovese, Susanna Tamaro, Mario Draghi, Luca Argentero… e tanti altri. Di queste realtà abbiamo parlato con Alessandro Dimiziani, vicesindaco di Lugnano in Teverina e, dal 2020, presidente del Borghi più belli d’Italia in Umbria. L’associazione – nata nel 2001- ha come obiettivo quello di proteggere, promuovere e sviluppare i comuni riconosciuti con tale denominazione; l’Umbria è la regione italiana che ne ha di più, ben 30, e rappresentano un vanto e un’attrattiva turistica anche dall’estero. Un patrimonio da salvare e promuovere.

 

Alessandro Dimiziani

Presidente come prima cosa: quali sono i requisiti per entrare nell’associazione dei Borghi più belli d’Italia?

La popolazione nel centro storico o nella frazione non deve superare i 2.000 abitanti, mentre nell’intero comune non si può andare oltre i 15.000 abitanti. Il borgo inoltre deve avere una presenza di almeno il 70% di edifici storici anteriore al 1939 e offrire qualità urbanistica, architettonica e promozione del territorio. Va detto che sono gli stessi borghi che fanno la richiesta e poi un comitato scientifico valuta gli oltre 90 parametri e delibera l’entrata del paese nell’associazione.

Con Stroncone – entrato da poco – nella regione si contano 30 borghi. Un record italiano che fa superare le Marche, ferme a 29…

Proprio alcuni giorni fa c’è stata l’ufficializzazione di Stroncone con la consegna della bandiera dell’associazione. Se consideriamo la grandezza del nostro territorio e il numero dei comuni inferiore rispetto alle Marche, la percentuale di borghi più belli è molto alta. Oltre a Stroncone gli ultimi entrati sono Monteleone d’Orvieto nel 2019 e Nocera Umbra nel 2020.

La rivista americana “The Travel” ha pubblicato da poco la classifica dei dieci borghi italiani preferiti dai turisti internazionali: al 9° posto c’è Monteleone d’Orvieto (unico umbro). Serve più marketing internazionale per l’Umbria?

Sicuramente, anche se non siamo messi male. I nostri social sono tra i primi in Europa per visualizzazione. Da poco abbiamo anche realizzato un video promozionale che presenteremo il 7 dicembre a Citerna, in cui sono riuniti e illustrati tutti i borghi: questo verrà utilizzato durante le presentazioni fuori regione.

 

Monteleone d’Orvieto. Foto by Enrico Mezzasoma

Quanto è importante il turismo di ritorno?                   

È importantissimo e da poco abbiamo creato un tavolo di lavoro per capire tutte le tappe da seguire e i vari passaggi da mettere in pratica.

Concretamente, come si svolge?

Abbiamo iniziato a lavorare sui registri comunali, chiedendo a ogni Comune di inviare i nomi dei concittadini residenti all’estero: si è visto che la maggior parte si trovano negli Stati Uniti, in Brasile, in Belgio e in Lussemburgo, sono circa 2000 persone. Con un protocollo, l’intervento del Ministero del Turismo e dell’associazione Italiani nel Mondo cercheremo di contattarli. A gennaio poi verrà organizzato un evento ad hoc a New York in cui sarà presente la nostra associazione e quella degli Italiani nel Mondo. È il primo passo per iniziare a capire come muoversi.

Il turismo nei borghi, in questi anni, è tanto di moda: come se lo spiega?

È inutile negarlo, la pandemia ha dato una grossa mano. Nel 2020 c’è stata un’invasione, ovviamente positiva, che ha premiato il lavoro di valorizzazione fatto negli anni precedenti. Oltre all’Italia turistica e famosa che tutti conoscono, c’è un’Italia da scoprire e da vivere, tra sentieri, prodotti tipici e cucina. Questo attira molto il turista, anche straniero; tra l’altro l’Umbria è l’unica destinazione italiana entrata nella lista Best in travel 2023 stilata dalla Lonely Planet. Per il nostro Paese il turismo è una risorsa importantissima sulla quale si deve puntare al massimo.

Se avesse a disposizione un tesoretto, quali sono le prime cose che farebbe?

I primi interventi sarebbero rivolti al miglioramento dei servizi: sociali, sanitari, alle infrastrutture, ma anche alla connessione internet per lo smart working. Un borgo non può essere escluso da questo; il turista, ma soprattutto chi decide di restare, chiede navette o bus di collegamento con la stazione più vicina. Molto di questo ancora manca. A Lungano in Teverina, ad esempio, molti americani e danesi si sono innamorati del luogo, dei paesaggi e, grazie a uno statuto comunale, hanno avuto in dotazione degli uliveti e quest’anno per la prima volta hanno raccolto l’oliva. Tutto questo è sicuramente un incentivo per restare nel territorio, ma i servizi devono essere presenti.

Ciò serve ad arginare lo spopolamento…

Combattere lo spopolamento – che è una vera piaga – è tra gli obiettivi dell’associazione. Per noi è come una lenta morte, dovuta al decremento demografico e alla mancanza di lavoro che porta i giovani a lasciare il borgo per trasferirsi in città o all’estero. È per questo che cerchiamo di bilanciare con il turismo di ritorno o con i nuovi residenti. Riallacciandomi alla domanda precedente, gli investimenti sarebbero fondamentali anche per la creazione di lavoro, in modo da incentivare i giovani a restare.

Potremmo raccontare l’Umbria attraverso i borghi: ce n’è uno che la rappresenta di più?

Tutti i borghi rappresentano l’Umbria, poi ci sono quelli che attirano più come Trevi e Spello, ma ultimamente anche quelli meno conosciuti si stanno facendo notare. L’Italia, ripeto, deve puntare su queste piccole realtà che sono un patrimonio fondamentale per il turismo, da nord a sud. In questo modo può primeggiare nel mondo.

 

Spello. Foto Enrico Mezzasoma

Ci sono in cantiere dei nuovi progetti?

Nel 2023 uscirà la nuova brochure con tutte le informazioni sui borghi – edita da Corebook – anche in lingua cinese. Stiamo lavorando anche con le comunità energetiche per installare le colonnine di ricarica per auto e biciclette. Si punta a promuovere e portare avanti interventi a 360° con attività, eventi e festival, cercando di coinvolgere tutti.

Facciamo un gioco: per ogni borgo mi dica un aggettivo e una caratteristica che lo contraddistingue.

Acquasparta (Rinascimento umbro), Allerona (la porta del sole), Arrone (Valnerina), Bettona (etrusco-romana), Bevagna (le Gaite), Castiglion del Lago (il Trasimeno), Citerna (Borgo dei Borghi. Nel 2023 parteciperà al programma di Rai3), Corciano (la costola di Perugia), Deruta (ceramica), Lugnano in Teverina (archeologia e biodiversità), Massa Martana (riscatto architettonico), Monte Castello di Vibio (il teatro più piccolo del mondo), Montecchio (olio e archeologia), Montefalco (Sagrantino), Monteleone d’Orvieto (balcone su tre regioni: Umbria, Toscana e Lazio), Monteleone di Spoleto (altezza e bellezza), Montone (storia e architettura), Nocera Umbra (la rinascita della bellezza), Norcia (norcineria e tartufo), Paciano (vista sul lago Trasimeno), Panicale (arte e bellezza), Passignano sul Trasimeno (oasi di bellezza), Preci (scuola chirurgica), Sangemini (il bello sopra l’industria), Sellano (le acque della Valnerina), Spello (colori), Stroncone (olio e architettura), Torgiano (vino), Trevi (fascia olivata), Vallo di Nera (enogastronomia ad alta quota).

 


Per saperne di più

Accanto ai Colli martani sorge Bettona, unico insediamento etrusco sulla riva sinistra del Tevere, conosciuta anche come Vetumna o Paese degli antichi.

 

Caduta sotto il controllo romano, viene organizzata in municipium entrando a far parte della colonia Clustumina (14 d.C.); con l’avvento del Cristianesimo viene presto evangelizzata da San Crispolto, che vi giunge dall’Asia grazie la via Amerina – una delle più importanti vie di comunicazione verso il Nord. Dopo la distruzione dei barbari guidati da Totila, diviene dominio bizantino e in seguito passa in mano al Ducato longobardo di Spoleto. Nel 1018 i Benedettini vi fondano l’abbazia di San Crispolto; più tardi, passa in mano alla Chiesa ed è costretta a sottomettersi ad Assisi (1223). Dopo il tentativo di divenire autonoma da Perugia, viene dalla stessa assediata, conquistata e bruciata, a eccezione delle chiese; grazie al cardinale Albornoz verrà ricostruita all’interno di una cinta muraria ristretta, ma meglio fortificata. In seguito Bettona si ribella al Papa che vuole concederla ai Baglioni di Perugia, ma viene sottomessa da Malatesta Baglioni, rimanendo così sotto lo Stato Pontificio fino all’Unità d’Italia.
Questo piccolo borgo, adagiato a 365 metri d’altezza, è noto soprattutto per il suggestivo panorama, che va da Perugia a Spello, visibile dalla terrazza fuori dalla Porta d’accesso di Santa Caterina, collocata lungo la cinta muraria medievale e in parte poggiata su quella etrusca, ancora visibile negli enormi blocchi di roccia arenaria. Risalendo le strette vie, si giunge presto in Piazza Cavour, circondata da edifici e monumenti che hanno molto da raccontare, come la Chiesa di San Crispolto, costruita dai monaci benedettini (XIII secolo) per conservare la salma del primo vescovo e martire dell’Umbria, oltre che santo patrono del borgo. La facciata dell’edificio, a croce latina, è di Antonio Stefanucci, allievo del Vanvitelli; qui l’unico pezzo romanico è il campanile cuspidato. Imperdibili sono anche l’Oratorio di Sant’Andrea, col bel soffitto ligneo a cassettoni del XVI secolo e la Passione di Cristo (1394) di scuola giottesca, ma anche la collegiata di Santa Maria Maggiore, risalente ai primi anni del Cristianesimo, ingrandita, riconsacrata nel 1225 e restaurata in stile neoclassico nel 1816: all’interno vi sono l’abside affrescato dal futurista Gerardo Dottori, l’altare maggiore con ciborio a forma di tempietto e le finestre con vetrate istoriate a fuoco.

 

Pinacoteca

 

Accanto agli edifici sacri spicca il Palazzetto del Podestà (1371), sede della Pinacoteca comunale e del Museo della Città, che occupa anche alcuni ambienti dell’ottocentesco Palazzo Biancalana; nella Pinacoteca sono custodite importanti opere d’arte come il Sant’Antonio di Padova e la Madonna della Misericordia con i Santi Stefano, Girolamo e committenti del Perugino, o la tavola con l’Adorazione dei pastori dell’artista assisiate Dono Doni. Più avanti s’incontra Palazzo Baglioni, luogo in cui morì il condottiero Malatesta Baglioni la Vigilia di Natale del 1513. Fuori dalle mura cittadine, invece, degne di nota sono la Villa del Boccaglione (XVII sec) – dimora rurale dai soffitti affrescati disegnata dal Piermarini – e la chiesetta d’impronta romanica di San Quirico. Tra gli eventi più importanti, la Festa del Patrono (11-12 maggio), Bettona sotto le Stelle, e la Sagra dell’Oca, dove è possibile gustare prodotti come torta al testo e oca arrosto, oltre all’eccellente olio d’oliva; tipici del borgo sono anche gli zuccherini, dolci natalizi con lievito madre, pinoli, uvetta e anice.

 


Per saperne di più

Una straordinaria scoperta è avvenuta nell’ambito della pittura di Domínikos Theotokópoulos – El Greco – referente al suo problematico quanto indagato periodo italiano dal 1567 al 1576, periodo nel quale il pittore greco della Candia veneziana, nato nel 1541, lavora tra Venezia e Roma per poi andare definitivamente a Toledo dove morirà nel 1614.

Un tabernacolo stupefacente è emerso dalle collezioni della preziosa Pinacoteca di Don Vincenzo Catani che solo qualche anno fa lo aveva restaurato e pubblicamente esposto. L’opera fa parte della serie numerosa di tabernacoli veneto-­cretesi identificati e sottoposti allo studio dopo il primo caso del 2014 a Bettona. Il tabernacolo di Bettona ha ora il suo doppio che ancora più esplicitamente rivela il genio di El Greco. Così quello di Montefalco conservato nella chiesa di S. Maria Maddalena, che ha due Evangelisti raffigurati, tratti dallo stesso disegno di quelli di Bettona. Ora in quello ritrovato a Castignano, si presentano tutti e quattro insieme, quasi nello stesso ordine, Matteo anticipa Marco, con questa qualità pittorica più evoluta e più facile, è una consolante sorpresa per chi aveva sempre creduto nell’autenticità di quello di Bettona.

 

Il tabernacolo

Visto da vicino…

Il tabernacolo di Castignano misura in altezza cm.48,5 e in larghezza cm.56,5. La portella è un vero capolavoro, Padreterno compreso. A cominciare dal Mosé che, scolpito nel sarcofago fatto con due soli colori e uno sfumato per imitare la grisaille, mostra un saggio di abilità, fretta, nervosismo e sprezzatura che non ha eguali intorno al 1570. È un assoluto tecnico, non è disegno, non è propriamente pittura, è una elgrechità e basta! Quel naso semita e quella barba sono il riassunto più concentrato che un’immagine possa avere. Il corpo possente e morto di Cristo con l’anatomia perfetta, come la piega dell’ombelico e l’ombra esatta del naso, dell’occhio e dei baffi, sono tocchi magistrali e notevoli!

San Luca

I due Angeli dai capelli corti, molto scultura veneta tipo Vittoria e Campagna, con i gesti forti e sicuri, sono commoventi e quello a destra così pensoso e inconsolabile, con la veste tormentata e le ali gocciolanti di colore e di lacrime, è indimenticabile e nuovo: non comprende e disprezza la morte di un Giusto. L’altro angelo invece osserva da vicino l’inerte cadavere del Dio Uomo e sorregge la mano destra di Cristo, forse consapevole della prossima Resurrezione, come anche indicherebbe la sua bianca ala indicante il Paradiso. L’ala bianca, ora trasparente, si è consunta ed è stata assorbita dal legno della croce; qui nessuna metafora, ma solo l’azione dei pigmenti nei 450 anni di vita materiale. La torsione del corpo di Cristo, che permette al pittore un forte chiaroscuro scultoreo, e la mano pendente è un’evocazione della scultura dell’amato e odiato Michelangelo.

L’autoritario Eterno Padre, calvo e corrucciato, sia per la morte del Figlio che per la titubanza di Mosé, è un tipo preso dal Tintoretto a San Rocco e dall’Assunta di Tiziano ai Frari, è risolto con fulminea pennellata e intenso colore! Chi si poteva permettere di guardare dall’alto anche il Padreterno? Tintoretto, El Greco e San Juan de la Crux!

Il San Luca, mancino, è il primo a sinistra, penso a un autoritratto, con quella frangetta rara; ha il naso lungo e aquilino e la bocca socchiusa che sembra aver inumidito da poco il pennello, ha grandi e forti mani e braccia possenti, procede sui sandali con i piedi perfetti e sorride. Vivace il manto rosso con bordura sagomata attraversato dalla stola color zucca. Il rovinato e calvo San Giovanni, naso grosso e occhietto vispo, ha il pesante volume chiuso, ma la leggera aquila è vigile, splendida la verde manica rimasta!

San Matteo ha un volume enorme e chiuso, con la destra ha un pennello, tizianeggia nell’arguto e stempiato profilo; l’angelo che si gira guarda nella stessa direzione, ha un seno scoperto e intanto gli tiene il calamaio. Notevole è il manto rosso che sul ginocchio mostra un bordo lobato, sopra, la mano è potente! Marco è tutto monumentale, il più conservato dei quattro, mani nervose e perfette, testa pensosa e viva, notevole l’ombra delle ciglia e la concretezza sanguigna del colore.

 

San Marco

Luca e Marco, posti agli estremi del tabernacolo, vivono in uno spazio più stretto rispetto a Giovanni e Matteo: il prezioso tabernacolo dorato e colorato quasi a smalto doveva essere in aggetto sopra l’altare per mostrare bene le 5 facce istoriate.

I cherubini piccoletti, umorali, corrucciati e pensosi, sono minuscoli nello spazio nuvoloso del timpano, il colore perlaceo del cielo, un tempo azzurro di smaltino, doveva farli volare in primo piano come farfalle. Sono dipinti con una rapidità e sicurezza degni del miniaturista El Greco, qui evidente allievo di Giulio Clovio, suo maestro e protettore in Palazzo Farnese a Roma.

Il Tabernacolo di Castignano è esagonale, con cinque lati dipinti e sempre del medesimo disegno ligneo, forse con cupola, come doveva essere quello di Bettona. È stato restaurato dignitosamente sia nelle parti lignee che nella pittura dove si vede il tratteggio, e l’insieme è di grande impatto e di soddisfazione estetica. Malgrado la prevalenza dell’architettura e degli spazi chiusi delle porte e dei timpani, le figure vivono, camminano fluenti, si torcono dal dolore, volano e ammiccano al fedele.

«La Terra dall’alto è semplicemente stupenda. Ho avuto la fortuna di lanciarmi su zone con panorami mozzafiato. Auguro a tutti di vedere ciò che noi vediamo da lassù!»

«Uno dei più grandi sogni dell’uomo è sempre stato quello di volare: lanciarsi con il paracadute a più di 4.000 metri credo che sia uno dei modi più intensi per realizzare quel sogno». Il Caporal Maggiore Capo Marco Soro, di Passaggio di Bettona, realizza questo sogno ogni giorno. Da 15 anni veste la divisa della Brigata Paracadutisti Folgore dell’Esercito Italiano e fa parte del gruppo di Paracadutismo Indoor dell’Esercito. Allenamento, preparazione e tanta passione gli hanno fatto raggiungere con la sua squadra degli importanti traguardi nazionali e internazionali, come il podio mondiale ottenuto nel 2019, la medaglia d’oro al Belgian Open o l’argento ai Wind Games 2020 – tanto per citare i più recenti. In questa chiacchierata ci ha svelato tutti i segreti di questo sport e la bellezza del paracadutismo. «È stato amore a prima vista». Io mi sono fatta prendere la mano e l’ho tempestato di domande!

 

Caporal Maggiore Capo Marco Soro

Caporal Maggiore, la prima domanda è di rito: qual è il suo legame con lUmbria?

Circa quindici anni fa ho scelto la divisa dell’Esercito e la mia vita professionale è in Toscana, ma l’Umbria è la mia terra natia e di certo non la dimentico. Sono nato ad Assisi, abito a Passaggio di Bettona e la mia fidanzata è di Papiano. Direi proprio che il mio è un legame indissolubile.

Ci spieghi: cos’è il Paracadutismo Indoor?

Il paracadutismo indoor è un’attività sportiva molto recente, che nasce grazie all’invenzione dei simulatori di caduta libera, ovvero i tunnel del vento verticali. Permette a chiunque, anche a un non paracadutista, di realizzare quello che è sempre stato il sogno di ogni essere umano, ovvero il desiderio volare. Un forte flusso d’aria proveniente dal basso fa si che il corpo umano riesca a sollevarsi da terra, simulando così la caduta libera che si ha con il lancio da un aereo. La sensazione che si prova è identica. Con il passare degli anni è diventato uno sport a tutti gli effetti, con un proprio circuito ufficiale di competizioni nazionali e internazionali.

Quali sono i prerequisiti per praticare questa disciplina?

Il paracadutismo indoor prevede varie discipline. Per poter praticare la nostra –  che è di squadra ed esattamente si chiama VFS 4-way (Vertical Formation Skydiving a 4 elementi) – si deve prima raggiungere un avanzato livello di volo individuale. Sono fondamentali una buona preparazione fisica e un costante allenamento di volo presso un tunnel.

 

Esibizione di Paracadutismo Indoor

In pratica in cosa consiste?

L’obiettivo della nostra specialità consiste nel formare, durante la caduta libera, il più alto numero di figure possibili nel tempo massimo di 35 secondi. Per figura si intende una prestabilita e determinata posizione dell’intera squadra che deve essere eseguita in assetto verticale, head-up (testa in su) e/o head-down (testa in giù). Questo tipo di posizione, che espone poco della figura del corpo umano all’aria, comporta il raggiungimento di altissime velocità di caduta libera che sfiorano i 300 km/h. Ovviamente per provare semplicemente un simulatore di caduta libera non serve essere degli atleti, lo fanno normalmente anche i bambini, basta affidarsi a un preparato istruttore e il gioco è fatto!

Come si svolge una gara?

Una gara si svolge normalmente in tre giorni. I round di gara sono 10, della durata di 35 secondi ciascuno. Le figure da riproporre in ogni round vengono estratte a sorte dai giudici di gara. Per ogni figura eseguita correttamente si guadagna un punto. Alla fine del decimo round, la squadra che ha totalizzato il maggior numero di punti, vince.

Quante ore vi allenate?

Quotidianamente e per almeno due ore pratichiamo delle attività di allenamento a terra pensate appositamente per migliorare la resistenza e la forza fisica specifiche, in modo tale da incrementare le prestazioni individuali durante gli allenamenti di squadra. Per quanto riguarda l’addestramento al tunnel, siamo impegnati mediamente due settimane al mese.

Avete delle gare prossimamente?

A fine ottobre, presso il tunnel di Charleroi in Belgio, la Squadra dell’Esercito parteciperà al Campionato Europeo e Coppa del Mondo di Indoor Skydiving 2020, attualmente una delle competizioni indoor più importanti al mondo.

 

La squadra: Alessandro Binello, Andrea Cardinali, Marco Soro e Stefano Falagiani

Ci può descrivere in poche parole cosa si prova a lanciarsi col paracadute?

Il paracadutismo è uno sport che, praticato nel pieno rispetto delle regole di sicurezza, regala emozioni indescrivibili. Come già detto, uno dei più grandi sogni dell’uomo è sempre stato quello di volare: lanciarsi con il paracadute da un velivolo a più di 4.000 metri credo che sia uno dei modi più intensi per realizzare quel sogno.

C’è stato un momento, quando era ragazzino, in cui ha deciso d’intraprendere la carriera militare? O è accaduto per caso?

Non ho un ricordo ben preciso di quando ho maturato questa decisione, ma sono cresciuto rinforzando di giorno in giorno il desiderio di arruolarmi nell’Esercito e di entrare nella Brigata Paracadutisti Folgore.

Il primo lancio non si scorda mai: ci racconti il suo…

È proprio vero, è una sensazione assolutamente indimenticabile! Il mio primo lancio l’ho fatto a Reggio Emilia nel 2005 e avevo poco più di 18 anni. Come tutti i diciottenni non vedevo l’ora di mettermi alla prova. Ricordo benissimo di aver provato delle fortissime emozioni, completamente nuove, mai provate fino a quel momento. Uno strano mix adrenalinico fatto di paura ed entusiasmo. Con il paracadutismo fu amore a prima vista! Da lì in poi non ho mai più smesso di praticare questo sport e ho sempre e solo cercato di migliorarmi.

Qual è l’ultima cosa che pensa prima di un salto?

Ora che il paracadutismo, oltre che passione e divertimento, è per me attività agonistica, prima di ogni salto ripasso mentalmente gli esercizi da eseguire durante il lancio. Mi concentro su quanto discusso pochi minuti prima con i miei compagni di squadra in fase di briefing pre-lancio visto che i momenti precedenti all’uscita dal velivolo sono fondamentali per la perfetta riuscita degli esercizi. Non ci si può permettere di distrarsi o di pensare ad altro. Bisogna essere concentrati sul lavoro da eseguire e naturalmente sulle procedure di sicurezza da rispettare.

Com’è la Terra vista dall’alto?

Può sembrare una risposta scontata, ma è semplicemente stupenda. Ho avuto la fortuna di lanciarmi su zone con panorami mozzafiato. Auguro a tutti di vedere ciò che noi vediamo da lassù!

Fa dei gesti scaramantici… anche prima di una gara?

Più che di gesti caramantici parlerei di routine. Prima di ogni lancio e prima di ogni round di gara io e i miei tre compagni di squadra ci mettiamo in cerchio e ci diamo la giusta carica effettuando il nostro saluto di squadra. Ogni squadra ha il suo modo per augurarsi buona fortuna!

 

I paracadutisti della Folgore sono, nell’immaginario collettivo, i più audaci e fighi: ne siete consapevoli?

L’immaginario collettivo talvolta rappresenta la realtà in modo un po’ approssimativo. Sicuramente la Brigata Paracadutisti Folgore è uno dei reparti più famosi dell’Esercito Italiano ed è connotato da altissime capacità, ma la professionalità di tutti i miei colleghi delle altre specialità non è sicuramente da meno. I reparti paracadutisti hanno una storia di sacrificio e di dedizione che, come ha detto lei, si racconta da sola e non ha bisogno di commenti. Sono assolutamente contento della mia scelta e se tornassi indietro non cambierei nulla di quello che ho fatto! Soprattutto la mia scelta di entrare nella Sezione di Paracadutismo Sportivo dell’Esercito.

C’è un luogo o un panorama dell’Umbria in cui le piacerebbe lanciarsi?

Certamente, sono i luoghi a cui sono più affezionato. Il mio paese, Passaggio di Bettona. Poi sicuramente anche Assisi dove sono nato e Castelluccio di Norcia, perché secondo me paesaggisticamente è una delle zone più belle di tutta l’Umbria.

Come descriverebbe lUmbria in tre parole?

Bellezza, natura, tradizione.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione.

Quando penso all’Umbria è inevitabile pensare alla parola Casa.

«Il maestro Pavarotti mi ha insegnato tanto. Abbiamo fatto lezione per sei anni, mi disse che ero bravo e che dovevo seguire i suoi consigli».

Ammetto che è stata una delle interviste più lunghe che abbia mai fatto, oltre quarantacinque minuti di chiacchiere. Ne è però valsa la pena, perché Claudio Rocchi – tenore nato e vissuto a Bettona – ha tanti aneddoti e curiosità da raccontare: «Potrei scriverci un libro» mi confessa. In effetti ha ragione. Senza nessun freno abbiamo parlato delle lezioni con Luciano Pavarotti, di come vive il suo lavoro, del mondo della lirica e della musica di oggi che non apprezza. Il tenore umbro ha calcato tanti palcoscenici in giro per il mondo e sogna di essere il protagonista alla Prima del Teatro alla Scala. «Non mi do limiti!»

 

Claudio Rocchi

Claudio, qual è il suo legame con l’Umbria?

È un legame di vita, un legame fortissimo. Mi sento umbro al 100% e questa sensazione mi accompagna quando sono all’estero. Porto la regione in giro per il mondo: mi è capitato spesso di cucinare per gli amici stranieri la torta al testo o di raccontare loro aneddoti e storie sull’Umbria.

Ci racconti la sua esperienza col maestro Luciano Pavarotti…

È iniziata per caso. All’epoca – nel 1999 – studiavo al Conservatorio e lavoravo in fabbrica: la zia dell’infermiere di mio nonno era la cuoca di Pavarotti a Pesaro: il Maestro aveva nella città marchigiana una casa bellissima, sul mare, dove spesso trascorreva del tempo. Ovviamente nessuno avrebbe mai pensato che questo passaggio di voci sarebbe andato a buon fine. E invece sì. Un mese dopo – inizio 2000 – mentre ero al lavoro, mi chiamò mia mamma per dirmi che Pavarotti mi aspettava nel pomeriggio per un’audizione. Senza nemmeno prepararmi sono partito. Lui a fine provino mi disse: «Quando ci rivediamo?» Da quel giorno, ogni volta che si trovava a Pesaro, facevamo lezione insieme.

Quanto tempo sono durate le vostre lezioni?

Sei anni. Ci vedevamo tre-quattro volte all’anno, ma sono stati momenti fondamentali, mi ha insegnato tantissimo: la respirazione, l’emissione, l’apertura del palato e della gola, il giro degli armonici e tanto altro.

Qual è l’insegnamento che non dimenticherà mai?

Mi diceva sempre: «La voce la devi dare, non la devi fare». Inoltre, l’ultima volta che l’ho visto, mi ha detto che non dovevo avere altri insegnanti: «Sei bravo, devi fare solo quello che ti dico io e aspettare». Così ho fatto, ho aspettato che arrivasse il mio momento. Il ricevere un bravo dal lui mi ha riempito d’orgoglio.

Quand’è che un ragazzino decide di diventare un tenore?

Non si decide… ci nasci o non ci nasci. Io fin da piccolo cantavo, spesso quando ero nell’officina di mio padre. Cantavo soprattutto musica leggera italiana. Un giorno, alla fine della terza media, la mia professoressa di tecnica, durante la cena di fine anno scolastico, si accorse della mia voce e mi prese appuntamento con un maestro di Napoli che veniva in Umbria per far lezione ai Cantori di Assisi. Andai così ad Assisi per il provino: mi fece fare dei vocalizzi per sentire l’estensione della voce e poi mi disse: «Ora vai in farmacia a comprare dei pacchi di cerotti… Nostro Signore è stato troppo buono con te e se qualcuno ti sente cantare ora, ti rovina. Devi mettere i cerotti davanti alla bocca fino a 18-19 anni» io all’epoca avevo 12 anni «quando la voce sarà maturata». Non fu proprio così, a casa mia l’entusiasmo era talmente forte che mi mandarono alla Scuola Comunale di Musica a Bastia Umbra e iniziai a studiare pianoforte. Poi arrivò il Conservatorio, a Perugia.

Sogna mai di essere il protagonista della Prima al Teatro alla Scala di Milano?

È un sogno. Ci penso e ci ho sempre pensato, perché non mi do limiti: così come cantare nei teatri di New York e Londra, anche se La Scala resta sempre l’élite, nonostante in questi anni sia calata un po’.

Ci spieghi meglio.

Oggi è molto più importate l’aspetto, l’essere televisivo e avere una voce che piace a chi sceglie gli interpreti per una rappresentazione. Molte belle voci non vengono scelte perché non giuste. Poi ci sono delle lobby molto forti che incidono moltissimo. Il mondo della lirica è molto difficile e spesso si va avanti solo con le raccomandazioni. Ma lasciamo stare…

Qual è l’opera che le piace più interpretare?

La Tosca. In quest’opera ci sono delle musiche talmente belle che anche chi non si è mai avvicinato alla lirica, ascoltandola, si emoziona. Tosca, per me, è un’opera meravigliosa.

 

Lo spieghi a noi profani: che cos’è lo studio dello spartito?

Non è solo lo studio delle note, ma anche la storia, il personaggio, il perché fa quello, cosa voleva esprimere l’autore, quali sono le sue emozioni, i suoi pensieri… Un’opera non va solo eseguita, va soprattutto interpretata, si deve entrare appieno nel personaggio. Lo studio dello spartito è questo, una visione a 360 gradi dell’opera, e per questo serve un bravo maestro per avere le direttive giuste ed entrare nel profondo.

Cosa vuol dire per lei cantare?

Nel cantare noi ci consumiamo, siamo sul palcoscenico nudi e tiriamo fuori l’anima. Non è solo un eseguire. È questa la differenza tra un cantante e un esecutore: è facile trovare tanti esecutori, più difficile è trovare bravi cantanti, quelli che ti fanno emozionare quando li ascolti.

Pochi giorni fa se n’è andato il maestro Ennio Morricone… lo ha mai incontrato?

Purtroppo no. Resterà sempre tra i più grandi. Che musica, ragazzi! Con solo quattro note ha creato dei capolavori e ha lasciato musiche che resteranno eterne.

Ascolta musica pop?

Ascolto tutta la musica, di ogni genere.

Le piace la musica che circola in questo periodo?

Un periodo così basso, forse, non c’è mai stato, basta vedere quello che è stato presentato a Sanremo. Ci sono testi che passano in radio che sono terribili, senza parlare delle voci. Si sentono delle rime assurde e spesso mi chiedo: «Ma i cantautori del passato… li avranno mai ascoltati? Lucio Dalla, Mogol, tanto per dire i primi che mi vengono in mente, li avranno mai letti?». Basta leggere i testi per capire le differenze.

Non mi dica che non c’è nessun cantante che le piace…

Gli unici cantautori che apprezzo sono Max Gazzè e Brunori Sas.

E a livello vocale?

No, non c’è nessuno. Si punta più sull’immagine e sul personaggio che sulla voce, i talent hanno distrutto il mondo della musica invece di farlo evolvere. Il commercio comanda su tutto, devi essere un personaggio che piace al pubblico. Ahimè, non si punta più sulla voce.

Ha dei progetti in cantiere?

Nei prossimi giorni parto per un concerto nel nord della Polonia, poi andrò i primi di agosto ad Anghiari e poi a Castiglione del Lago. Piano piano abbiamo ripreso le nostre attività.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Genuina, sorprendente, unica.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

Pace.

«Nella città di Perugia nacque ad una povera persona da Castello della Pieve, detta Cristofano, un figliuolo che al battesimo fu chiamato Pietro (…) Studiò sotto la disciplina d’Andrea Verrocchio. Dipinse molte figure et Madonne. Si mostrerà agl’artefici che chi lavora e studia continuamente, e non a ghiribizzi o a capricci, lascia opere e si acquista nome, facultà et amici».
Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Parte seconda. Giorgio Vasari.

Bettona di giorno. Foto di Alessandro Bertani

 

In poche e semplici parole, il pittore, architetto e storico dell’arte Giorgio Vasari elogia Pietro Vannucci per la sua arte e le sue opere. Il Perugino dipinse, tra il 1512 e il 1513, una tempera su tavola raffigurante la Madonna della Misericordia. La Vergine, in piedi, allarga il proprio mantello per accogliervi San Lorenzo, San Girolamo e due committenti. Si tratta di un retaggio dell’epoca medievale, detto della protezione del mantello, che le nobildonne altolocate potevano concedere ai perseguitati e ai bisognosi d’aiuto; con il passare degli anni questa iconografia ebbe ampia diffusione e sotto il mantello della Vergine finì per trovare riparo tutta l’umanità.
L’opera proveniva dalla Chiesa di Santa Caterina, dove era stata trasferita dalla Chiesa di Sant’Antonio, e ora è conservata nella Pinacoteca Comunale di Bettona, uno dei borghi più caratteristi della regione, considerata un balcone sull’Umbria: la città, infatti, sorge su un colle da cui la visuale spazia da Perugia e Assisi fino a Spello, passando per i verdi campi coltivati.

 

Madonna della Misericordia. Foto di Alessandro Bertani

L'arte di salvare l'arte

L’opera è la protagonista, insieme ad altri eccelsi capolavori, della mostra L’Arte di Salvare l’Arte. Frammenti di storia d’Italia nelle sale del Palazzo del Quirinale, aperta al pubblico fino al 14 luglio 2019. L’esposizione è nata per celebrare il 50° anniversario della nascita del comando dei caschi blu della cultura ovvero il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. In mezzo secolo i carabinieri hanno salvato migliaia di opere che altrimenti sarebbero state sottratte al patrimonio dello Stato: oltre ottocentomila beni recuperati, più di un milione di reperti archeologici sequestrati provenienti da scavi clandestini, circa un milione di opere false e oltre sedicimila reperti rubati in Italia e restituiti, riconsegnando così al bene pubblico un patrimonio artistico inestimabile. La Madonna della Misericordia, insieme a Sant’Antonio da Padova – anche esso del Perugino – vennero trafugate dalla Pinacoteca Comunale di Bettona nella notte tra 26 e 27 ottobre 1987 e ritrovate nel 1990 in Giamaica, nella villa di un ricco possidente.

Riscoprire il perduto

La mostra permette al pubblico di rivivere storie di recuperi, alcuni avventurosi, altri frutto di un lungo e minuzioso lavoro investigativo. Tutte le opere sono state riportate in Italia, ricontestualizzate nel territorio o nel tessuto urbano che le ha generate, restituendo loro dignità culturale, ma – soprattutto – restituendo loro il contesto di appartenenza.
Un’opera d’arte appartiene all’umanità intera, ma essa acquisisce valore di civiltà solo dalla profonda relazione con i luoghi che l’hanno prodotta, con la cultura che l’ha generata e con il paesaggio che l’ha suggerita.
Il visitatore potrà inoltre venire a conoscenza delle emergenze sismiche degli ultimi tempi, che hanno messo a nudo la fragilità del territorio e dei beni culturali. È possibile infatti assistere anche ad alcuni filmati storici, girati nelle zone terremotate che hanno colpito la nostra Umbria, dove i protagonisti sono ancora una volta i caschi blu culturali, che annaspano tra le macerie per recuperare opere artistiche con una cura e un amore incommensurabile.
Ammirando l’opera del Perugino, la dolcezza della Madonna della Misericordia, il tenero modellato dei Santi e le verdi campagne umbre dipinte alle loro spalle, non si può che provare empatia e riconoscenza verso chi restituisce a una comunità ferita la memoria e il suo senso di appartenenza, restituendo altresì alla collettività i suoi preziosi valori.

INGREDIENTI

  • 1 kg di farina
  • 200 g di zucchero
  • 200 g di uva secca
  • ¼ di latte
  • 1 limone non trattato
  • 200 g di olio extravergine d’oliva
  • 100 g di semi d’anice
  • 50 g di lievito di birra
  • 1 pizzico di sale

 

PREPARAZIONE

Sciogliete il lievito di birra in poca acqua tiepida; mescolate alla farina un pizzico di sale e versatela a fontana sulla spianatoia. Ponete al centro della fontana il lievito sciolto e cominciate a impastare, aggiungendo acqua leggermente tiepida. Dovrete ottenere un impasto della consistenza della pasta da pane. Ponete in un recipiente capace, coprite e fate lievitare in un luogo tiepido e lontano da correnti fino a quando l’impasto non sarà raddoppiato. Mescolatevi tutti gli altri ingredienti, formate tante ciambelle, ponetele ben distanziate su una placca da forno unta e lasciate lievitare per ancora 2-3 ore. Ponete in forno a 180° C e fate cuocere gli zuccherini, che servirete quando si saranno raffreddati. Ben chiusi, si conservano anche per parecchi giorni.

 

Gli zuccherini erano il dolce natalizio della zona di Bettona. Si preparavano in tutte le famiglie e venivano posti a lievitare sugli assi di legno del pane. La lievitazione era lunga, complessa e, qualche volta, soggetta a imprevisti, perché le vecchie case di campagna erano prive di riscaldamento e piene di spifferi. Fino ai primi anni Sessanta venivano chiamati con un nome dialettale, cioè torquietti, ma poi è prevalso il nome di zuccherini, usato dai pochi che si vantavano di usare correttamente la lingua italiana. Nella versione più moderna si usa il lievito in polvere e si aggiunge un uovo. In alcune famiglie, invece di mettere semi d’anice, aggiungevano un po’ dell’acqua in cui li avevano fatti bollire. 

 

 

Per gentile concessione di Calzetti-Mariucci

Dalla Bettona etrusca al piccolo teatro di Monte Castello di Vibio, il percorso si snoda attorno al borgo fortificato di Montecchio e ad Acquasparta, crogiolo di cultura scientifica seicentesca; per giungere, infine, alle vestigia romane di San Gemini.

Sulla riva est del Tevere

Unica città etrusca sulla riva orientale del Tevere, Bettona ospita, in località Colle, un ipogeo etrusco del II secolo a.C. Un breve corridoio a cielo aperto introduce il visitatore in questa struttura a volta, composta di blocchi di arenaria locale. Una massiccia porta di travertino nascondeva a sua volta diverse urne sepolcrali, che la scoperta del 1913 trovò già ampiamente depredate. Altre urnette, i bronzi e le opere di oreficeria superstiti sono ora conservati presso il Museo Archeologico di Perugia, mentre il Museo della Città di Bettona, offrendo un’area dedicata proprio all’archeologia, ospita manufatti, terrecotte, ceramiche e cippi funerari e di confine. Gli Etruschi lasciarono a Bettona anche una cinta muraria, di cui alcuni tratti sono visibili oggi in corrispondenza della Porta Vittorio Emanuele.

Palazzo Cesi, Acquasparta

L'Accademia dei Lincei

Nel Cinquecento, la guerra tra Todi, Terni e Spoleto portò alla distruzione della Rocca di Acquasparta, sulla quale sorse poi il magnifico Palazzo Cesi, dimora del Cardinale Federico. Questo edificio dalla facciata severa, le cui decorazioni interne si rifanno a quelle di Palazzo Farnese a Roma, permise ad Acquasparta di divenire un vero e proprio centro culturale. Qui infatti si riuniva l’Accademia dei Lincei, la prima scuola scientifica europea voluta da Federico Cesi, grande appassionato di botanica. Nel 1624, per un breve periodo, il palazzo ospitò anche l’illustre Galileo Galilei, il quale affidò all’Accademia la pubblicazione del suo Saggiatore. Altre opere di cui i Lincei – uniti sotto il metodo dell’osservazione sperimentale – si fecero promotori, furono lo studio sulle macchie solari e del cosiddetto Tesoro messicano, farmacopea del Nuovo Mondo. Non è un caso che la popolazione voglia ricordare questo periodo splendente con una rievocazione: da diciannove anni, La Festa del Rinascimento anima le vie del borgo con sfide e spettacoli ispirati a temi di volta in volta diversi.

Sprofondata nel terreno

L’abitato tipicamente medievale di San Gemini – che deve il suo nome a Gemine, monaco siriano che qui dispensò cure e prediche – sorge sull’insediamento romano Casventum, posto lungo la via Flaminia. I mosaici e i pavimenti di un’antica residenza sono visibili all’interno di un edificio in via del Tribunale. Ma le vestigia romane non finiscono qui: a 4 km dal borgo sorge Carsulae, città di epoca pre-romana abbandonata già in tempi remoti a causa di sommovimenti del terreno. L’effetto di questi sconvolgimenti è ancora oggi visibile nelle parti sepolte che, assieme ai due templi gemelli, alla basilica, al teatro, all’anfiteatro e all’arco di San Damiano, restituiscono uno dei parchi archeologici più suggestivi dell’Umbria.

Il borgo fortificato

Origine pre-romane – come dimostrato dalla Necropoli del Vallone di San Lorenzo scoperta dall’archeologo Domenico Golini – vanta il borgo di Montecchio, il cui nucleo originario risale al 1165. I Chiaravalle da Todi, infatti, nella fuga dalla faida tra guelfi e ghibellini, decisero di insediarsi qui. Nel 1190 si aggiunse una seconda cerchia di mura – poi continuamente ampliata fino al XIII secolo – costruita non solo a scopi difensivi, ma anche per contenere l’aumentata popolazione: ciò donò a Montecchio l’aspetto di un borgo fortificato, a pianta ellittica, in cui sono ancora oggi visibili le mura, le torri di difesa e l’assetto delle case, tipicamente medievale.

 

Teatro della Concordia, Monte Castello di Vibio

Il teatro

Un francobollo del 2002, da 0,41 €, celebra quello che è il più piccolo teatro all’italiana del mondo, vero gioiello di Monte Castello di Vibio. Questo borgo, divenuto il età napoleonica capocantone a causa della sua conformazione e della sua posizione strategica, si pose alla guida di un vasto territorio esteso tra il Tevere e Terni. Nel 1808, per rendere il borgo degno di tale ruolo, venne costruito il Teatro della Concordia, il cui nome deriva dai medesimi ideali di uguaglianza, fraternità e libertà che avevano ispirato la Rivoluzione Francese. Nonostante ad un certo punto della sua storia fosse stato chiuso per inagibilità, dagli anni Settanta è tornato attivo grazie alla volontà di probi cittadini, presentandosi oggi, con i suoi 99 posti, i suoi affreschi di scrittori e drammaturghi del tempo e la sua pianta a campana incasellata da legno di quercia e di rovere, come uno dei gioielli architettonici più significativi dell’Italia di fine Settecento.