Tra le ricette tipiche dell’Umbria – ma di quell’Umbria più rurale, dove i contadini e pastori vivevano di quel poco che avevano e dove gli sprechi non erano neanche lontanamente contemplati – si annovera un dolce dalla storia secolare. Il migliaccio, cotto in padella, era un dolce a base di miglio a cui veniva aggiunto uno dei dolcificanti più in voga nel passato: il sangue di maiale che, solidificandosi, rendeva l’impasto naturalmente dolce.
Abbiamo detto molte volte che del maiale non si butta via nulla e quindi nemmeno il sangue, che poteva essere impiegato così o in insaccati a più lunga conservazione come il sanguinaccio. Dal 1992, per scongiurare infezioni, del sangue di maiale è vietata la vendita, pertanto anche la storica ricetta del migliaccio ha cambiato faccia e, per dolcificare, si aggiungono zucchero, burro e uvetta. Ma la storia che reca con sé la ricetta originaria non va dimenticata, specie perché una delle personalità più attive nella vita culturale e politica cinquecentesca di Perugia, alla città dedicò la sua opera maggiore. E la chiamò I Megliacci.
Mario Podiani, l’autore dimenticato
Mario Podiani, figlio del medico, umanista e insegnante universitario Luca Alberto e di Domina Sebastiana (di cui ci è giunto il testamento), nasce a Poggio Aquilone intorno al 1501. A 15 anni diventa clericus e gli viene data in collazione la Chiesa di Santa Croce. Inizia la sua attività letteraria nel 1529, quando esce, per i tipi di Girolamo Cartolari, un opuscolo contenente le Legge et ordinamenti facti sopra li vestimenti de le donne et spose peroscine abbinati a rime composte da Cartolari stesso, Atanagi e da Mario Podiani.
Ma alla carriera letteraria si affianca ben presto quella politica: a Mario vengono affidate, nel 1529 e nel 1531, due missioni presso il Pontefice. Ma il comportamento del nostro non piace alla Curia e a pagarne le conseguenze è il padre, che viene rimosso dal cancellierato. La situazione inizialmente si risana nel 1534 con l’elezione al soglio pontificio di Papa Paolo III Farnese, che prima riassume Luca Alberto e poi va a fare visita alla città di Perugia: per l’occasione padre e figlio mettono insieme un opuscolo in cui si narra l’arrivo del Papa a Perugia, elogiando ora l’uno ora l’altra, creando legami tra la mitologia e i fasti presenti della città.
Tuttavia il Papa non dà segni di gradimento per l’opera tributatagli e, di fatto, continua a non fidarsi della situazione perugina; dall’altra parte comincia a farsi strada la convinzione che Paolo III puntasse all’asservimento di Perugia. Convinzione che troverà conferma nel 1540 con la Guerra del Sale, scaturita dalla decisione del Papa di aumentare la gabella sul sale: doveva combattere la guerra contro i Turchi e aveva bisogno di soldi. Viene decisa un’ambasceria di 50 cittadini a Roma, ma a nulla valgono le suppliche: il Papa emana la bolla che conferma l’aumento del prezzo e minaccia gravi sanzioni per la città. Perugia però non si arrende e subisce l’interdizione: niente commerci verso l’esterno. Si crea allora la Magistratura dei Venticinque Difensori della Giustizia (5 per ogni porta), si invoca l’aiuto di Venezia e di Carlo V; la città vuole mettersi nelle mani di Rodolfo Baglioni. Ma il Papa non desiste e Perugia insorge.
Mario Podiani è colui che si pone alla testa del movimento contro il Papa: presso il portone della Cattedrale di San Lorenzo viene collocato un crocifisso ai cui piedi vengono deposte le chiavi della città, come per rimettere a questo – e non al vicario di Cristo – la cura e la difesa di Perugia. Una posizione che sembra risentire delle posizioni dell’Ochino, ben conosciuto e apprezzato in città, anche se sul suo rapporto con Podiani si possono fare solo delle supposizioni. In ogni caso il nostro, che è cancelliere a Perugia, dopo la deposizione delle chiavi ai piedi del crocifisso pronuncia un discorso in volgare, per essere ben compreso da tutto il popolo: non sappiamo cosa disse, ma questa mossa lo condanna all’esilio, stroncando la sua carriera politica. Il rientro nella città natale gli viene negato persino dai successori di Paolo III e su di lui si abbatte una vera e propria damnatio memoriae: il suo nome scompare per secoli, le sue opere vengono bruciate e la data della sua morte viene addirittura anticipata di 31 anni (1539 invece che 1570). Riesce a rientrare a Perugia solo nel 1544, ma in catene: non sappiamo di quali colpe sia accusato, ma sembra che suo padre Luca Alberto riesca a ottenere la grazia solo dietro il pagamento di una grossa somma al fisco pontificio. Ma questo comporta la deportazione a Roma, un ambiente dove è facile per il Papa tenerlo sotto controllo. Alcune notizie successive su di lui si deducono da documenti o scritti di altri, rendendo incerta anche la data della sua morte, che si suppone posteriore al 1568 ma anteriore al 1583.
È per questo che, sia della commedia che scrisse nel 1530, sia delle altre sue produzioni si sono perse quasi completamente le tracce. Inoltre, il coinvolgimento politico ha fatto sì che l’impegno di Mario e, in un certo senso, la risposta perugina all’annosa questione della lingua italiana, non siano finite nemmeno nei libri di scuola.
L’ambizione dell’opera
Nel 1530, per i tipi di Girolamo Cartolari in Perugia, viene pubblicata la commedia I Megliacci di Mario Podiani. Non si sa quanti esemplari furono stampati, ma il volume attualmente risulta quasi introvabile. Possediamo un codice, rilegato in cartone e con costola pergamenacea che comprende anche altri scritti e la copia di un antico correttore, forse coevo, che collazionò il testo sullo stampato, a volte in maniera inesatta; forse alla stessa mano risale la sottolineatura di alcuni termini più caratteristici. L’unico testo valido resta dunque quello del 1530 ma, nonostante fosse edito da un tipografo famoso come Cartolari, si tratta di un’edizione di secondo livello, con un semplice frontespizio costituito da una semplice incorniciatura di 4 regoli xilografici di fregio geometrico e con le ultime due pagine scritte in corpo minore, con lo scopo di risparmiare spazio e quindi fogli.
Il volumetto di 80 carte non numerate si apre con un’invocazione ai signori di Perugia: era infatti il momento in cui le sorti della città sembravano legate al nome di Malatesta Baglioni, che era riuscito a evitare il sacco della città. Nel prologo l’autore espone anche il suo programma linguistico-letterario: userà il dialetto per dimostrare come la lingua dei perugini possa rivaleggiare con quella fiorentina, purché si evitino i termini più rozzi. In questo modo, Podiani si inserisce nella cosiddetta prima questione della lingua, ovvero la discussione sulla scelta di un idioma unico per gli abitanti della Penisola. Attenzione, si parla di lingua scritta, per le opere letterarie, e non di quella parlata. La storia ci insegna che a trionfare fu il fiorentino, per questioni culturali sì, ma anche socio-economiche: già Podiani, pensando a Perugia, avvertiva il contrasto tra la grandezza del passato e l’incipiente decadenza, che si concretizzerà prima con la morte prematura di Malatesta Baglioni e poi con il forcing di Papa Paolo III sulla città e con la Guerra del Sale. Con la sua opera sperava certamente di dare nuova linfa al tessuto culturale della città.
Il “parlar peroscinevolmente”
I Megliacci nascono da una posizione polemica non verso il fiorentino, ma verso coloro che la giudicano una lingua più bella. La primazia toscana è implicitamente accettata, anche per una questione di vicinanza: la lingua usata è infatti un tosco-perugino, una lingua ibrida che, muovendo dal toscano, si colora di elementi perugini altamente selezionati. Si riscontra tuttavia un certo polimorfismo, in cui l’adozione dell’idiotismo dipende dall’intento stilistico. Per esempio, manca completamente la palatalizzazione della /a/ in sillaba libera, fenomeno tipico perugino anche se di provenienza settentrionale (es. casa> chèsa) e il rafforzamento di /a/ dativale tramite /t/ (ta me, ta te…) è presente una sola volta in tutta la commedia e la pronuncia Armilla, che è di stato sociale molto basso. Da questo si evince che l’uso del vernacolo risponde anche a scopi realistici, perché è usato per rendere nel migliore dei modi la lingua del contado; persino la stesura in prosa viene motivata, in quanto i cittadini, nel parlar domestico, non usano di certo le rime.
Sull’esempio degli antichi, Podiani dichiara che userà la forma della commedia, inaugurando il genere nella sua città. Fa così svolgere la vicenda in un solo giorno ed entro una scena delimitata da due case, rispecchiando i canoni aristotelici di unità di tempo, azione e luogo. I nomi usati sintetizzano le caratteristiche di costume o di tratto morale dei personaggi e rispondono alla formazione umanistica di Podiani. Per citarne alcuni: Ramingo è un capitano di ventura che ha molti, fuggevoli amori: è come un uccello che va di ramo in ramo; Isofilo è il giusto; Armilla, il cui nome è tratto direttamente dal braccialetto a forma di serpente, ha un carattere infido; Pedavrò, nomignolo dialettale nato dalla crasi tra piede e avrò, lo oggi definiremmo oggi come una persona che non ha testa ma ha buone gambe; Lurcereo è il divoratore immondo, è quello che a tavola si sporca i vestiti.
La struttura, infine, risponde alla beffa amorosa che risente di comici latini come Plauto e Terenzio. Il contenuto invece evoca i temi trattati nella settima e nell’ottava giornata del Decameron boccaccesco. È assente qualsiasi senso morale: il godimento carnale è il vero motore dell’azione, pertanto il linguaggio è di una concretezza sfrenata e dirompente.
Perché I Megliacci?
Stando a Podiani, il megliaccio è una vivanda fatta di sangue di maiale e farina di miglio (che in dialetto diventa meglio). È dunque un cibo grosso e rozzo, è un pasto del volgo, tuttavia non manca di sapore. Così come si rimescola la farina con il sangue, l’autore ha inoltre inteso unire tutti i piacevoli ingredienti della vita (innamoramenti, beffe, il saper governarsi secondo l’opportunità) per mettere in scena uno spettacolo saporito ma non raffinato, simile appunto un migliaccio. Il titolo, nel suo significato traslato, viene dunque ad assumere anche il significato di farsa.
La commedia fu recitata probabilmente nel 1530: da alcune affermazioni nel prologo si evince che gli attori furono tutti perugini e forse vi partecipò l’autore stesso. Forse si svolse nella casa di Podiani, a Porta Sole.
Eleonora Cesaretti
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