«Il lavoro può nascere e realizzarsi nel giro di pochi giorni, ma può essere anche il frutto di anni di ricerche e sviluppo».
Giorgio Lupattelli è nato e vive a Magione (Perugia) ed è presente sulla scena artistica nazionale e internazionale dal 1993. Con la sua formazione prevalentemente scientifica, opera anche nei campi della grafica, della scenografia e del design. Osservando le azioni quotidiane nei media globali, sceglie le sole informazioni che lo colpiscono e lo conducono alla sintesi del quadro; ogni opera prevede una lenta asciugatura tematica, una ricerca d’impatto in cui la selezione corrisponde al valore sociale della notizia.
Lei, umbro di nascita, lavora tra Magione – sede della sua “casa-bottega” – e Roma, dove si sviluppa il suo percorso artistico. Ci può dire se l’Umbria ha influito sulla sua arte?
Ho mosso i primi passi nel mondo dell’arte contemporanea nei primi anni ’90, e non mi sono mai mosso (fisicamente) dal mio studio di Magione; nonostante questo, ho lavorato quasi esclusivamente con Gallerie e curatori fuori dell’Umbria, per diversi anni a Roma, ma anche a Modena, Bologna ecc. Il mio percorso di studi è anomalo: liceo scientifico, biennio di Ingegneria, Architettura a Firenze (lasciata a metà), unitamente a molti anni di lavoro e collaborazioni nel campo della grafica pubblicitaria. Quindi non sono stato contaminato dall’ambiente artistico dell’Accademia e di Perugia in generale, anche perché fin dall’inizio non ho trovato affinità con ciò che vedevo in giro: un lavoro prevalentemente basato sulla superficie e la ricerca sui materiali (informale post Burri), lontano anni luce dai miei interessi basati prevalentemente sulle immagini; d’altra parte sono nato con la televisione e il cinema e cresciuto con il web. Nonostante questo mi sento legato alle mie origini umbre e lacustri in particolare, le stesse dell’artista umbro più importante, l’unico da cui ho sicuramente preso qualcosa: Il Perugino.
In una sua dichiarazione ha affermato che leggendo i libri di storia dell’arte è stato attratto dai Metafisici e dai Surrealisti, in particolare De Chirico e Dalì. Ancora oggi è attratto da questi grandi Maestri?
Il lavoro di ogni artista è come un mattone che si va a posizionare sul grande muro della storia dell’arte, che poggia sui mattoni precedenti e che interagisce con quelli che stanno vicino a lui; anche nella scienza è lo stesso e nessuna scoperta sarebbe possibile senza quelle precedenti. Nel mio lavoro la citazione ha sempre avuto un ruolo importante e non ho mai fatto mistero di quali siano le basi su cui poggia il mio lavoro, tanto che sto lavorando da tempo ad un ciclo di lavori proprio su questo tema. De Chirico e Dalì, per me che non vengo dall’Accademia di Belle Arti, sono stati i primi che hanno stimolato il mio interesse verso il moderno. Il mio lavoro in realtà affonda nel Rinascimento italiano e, passando per le avanguardie, la pop art e molto altro, arriva a quelle che oggi vengono definite genericamente correnti neo-concettuali. Sono stato tra i primi in Italia a coniugare le tecniche classiche come la pittura con i più moderni strumenti tecnologici. Nei primi anni ’90 sono stato tra gli esponenti di quella corrente che il critico Gabriele Perretta ha definito Medialismo.
Ci racconta come nascono le sue creazioni?
Generalmente c’è un filo rosso che collega tutto il lavoro, nel senso che ci sono delle tematiche ricorrenti, come pure una coerenza estetico-compositiva. Da questi punti fermi però il lavoro poi si dipana in direzioni (apparentemente) diverse in base al momento, e anche le tecniche possono spaziare indifferentemente dal disegno alla pittura, dal digitale al video, dalla scultura alla installazione. Generalmente c’è un input (un fatto che mi interessa, qualcosa che vedo, una cosa che mi succede); a questo segue una ricerca sul tema prevalentemente sul web, e spesso da una cosa da cui parto arrivo quasi sempre ad altro; una volta scaricata una montagna di materiale inizia la fase di sviluppo delle idee che può durare giorni o anche anni e che a volte non porta a nulla di concreto, altre a cicli interi di lavori diversi. In genere (se non c’è un’urgenza particolare) lascio decantare i progetti per mesi, per poi rivederli a freddo. Se e quando incomincia a prendere forma un possibile lavoro, provo a elaborarlo e variarlo in tutte le sue possibili declinazioni, e se trovo la quadra passo alla fase esecutiva vera e propria. In poche parole il lavoro può nascere e realizzarsi nel giro di pochi giorni, ma può essere anche il frutto di anni di ricerche e sviluppo.
A Bologna è possibile visitare la mostra “Animali fantastici. Il giardino delle meraviglie”. La mostra (prorogata fino al 15 luglio) a cura di Stefano Antonelli e Gianluca Marziani, trasforma lo storico Palazzo Albergati, costruito nel 1519 per volontà dell’omonima famiglia nel centro storico di Bologna, in uno “zoo d’artista” raccogliendo oltre 90 animali tra reali, immaginati e ibridi realizzati da 23 artisti contemporanei. Il percorso espositivo assume la forma di un “giardino delle meraviglie” grazie a opere di artisti come lei. Ci racconta com’è nata questa mostra e quale messaggio vuole lanciare con le sue opere?
Gianluca Marziani è tra i curatori con cui lavoro da più tempo e che quindi conosce meglio il mio lavoro. Assieme a Stefano Antonelli (con cui non avevo mai lavorato) è curatore di questa mostra che sta avendo un grande successo, con la sapiente organizzazione di Arthemisia (che è il massimo per questi eventi) la quale ha realizzato un allestimento stupefacente a Palazzo Albergati di Bologna, che da qualche anno viene usato come museo con mostre di grande prestigio internazionale; gli stessi Antonelli e Marziani avevano già curato altri eventi con grandi artisti, tra cui Banksy. C’è anche un bellissimo catalogo edito da Skira. I miei lavori li ha scelti Gianluca che li conosceva già e debbo dire che sono stati installati e valorizzati nel migliore dei modi. Sono lavori che vanno dal 2006 a oggi sul tema degli animali. Si va dal dinosauro Velociraptor che gioca sulle origini della vita e i suoi sviluppi, fino al ciclo dei grandi primi piani di animali pericolosi e inquietanti su fondo nero che sono una rappresentazione di molte delle nostre fobie e la precarietà della vita stessa.
Per concludere vorrei chiederle una parola che per lei rappresenti il connubio tra la sua arte e l’Umbria, sua terra d’origine.
Direi classicità, nel senso che pur essendo il mio lavoro in perfetta sintonia con ciò che di più moderno e contemporaneo si vede sul piano internazionale, allo stesso tempo è profondamente legato alla classicità, come naturalmente lo è una regione come l’Umbria.
Giulia Venturini
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