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Dai testi di geografia ai sussidiari scolastici, passando per le fiere internazionali sul turismo, l’Umbria viene identificata da una definizione straordinariamente calzante: cuore verde d’Italia.

Secondo la simbologia tradizionale, il verde, espressione cromatica nella quale i buddisti individuano l’origine della vita, celebra l’elevazione dello spirito e del corpo che, per chi percorre l’Umbria, assume i contorni di un’esperienza ascetica in cui convergono identità e tradizioni, cultura e memoria storica, in cui la contemplazione del creato genera armoniche vibrazioni della mente. Se ci venisse chiesto di illustrare la frequenza cardiaca del cuore verde d’Italia, la matita traccerebbe linee sottili dall’incedere incredibilmente geometrico che, chi conosce l’Umbria, non tarderebbe a identificare nella profilo della piccola Preci, borgo immerso nel verde della Valnerina.

Lasciando la Valle del Nera, per risalire la Valle Campiano verso il paese di Preci si entra nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini

Il Piantamaggio

Avamposto medioevale sorto in prossimità di un oratorio benedettino – come testimoniato dall’etimologia del toponimo della città (preces, cioè preghiera) – Preci segna l’impercettibile transizione fra la Valle del Nera, risalendo da Cerreto di Spoleto, e il Parco Nazionale dei Monti Sibillini, mosaico di storia e tradizioni secolari, pentagramma in cui nubi di paesaggi e borghi seguono il ritmo sempiterno della natura. Ed è proprio dalla natura che qui alloggia che trae origine il rito del Piantamaggio, cerimoniale di pagana memoria le cui origini risalgono alle feste di primavera, successivamente trasformate in Baccanali, che si svolgevano in onore del dio Bacco Dioniso e avevano lo scopo di introdurre i giovani nel mondo degli adulti, spesso sfociando, a causa delle prolungate libagioni, in pratiche iniziatiche e orgiastiche. Tale versione è avvalorata dall’utilizzo, nell’uso popolare, della perifrasi piantar maggio, espressione dal forte allusivo significato, che è quello di consumare l’atto sessuale.

 

L’aspetto cinquecentesco del castello di Preci, immortalato in una foto storica conservata nell’archivio

 

La sera tra il 30 aprile e il 1 maggio, un albero di faggio o di pioppo, simbolo di fertilità, preso, anzi rubato, nelle campagne circostanti dai giovani del paese, viene tagliato e portato nella pubblica piazza. Dopo essere stato spogliato e ripulito dalle fronde e dalla corteccia, viene integrato nella parte alta con un ramo di ciliegio fiorito, a simboleggiare il matrimonio tra gli alberi e l’unione carnale con cui i fanciulli vengono iniziati alla vita adulta. Successivamente viene anche legata, nella parte più alta dell’albero, una bandiera nazionale, forse un antico ricordo degli alberi della libertà, che tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo venivano innalzati in ogni luogo dove arrivavano i venti e gli entusiasmi della Rivoluzione francese. La larga diffusione della celebrazione è testimoniata, inoltre, da una toponomastica estremamente ricca: il Monte Maggio, che domina la splendida Cascia, e il Monte Galenne – situato tra Meggiano, Cerreto di Spoleto e Sellano, il cui toponimo rimanda verosimilmente alle Calende di Maggio – ci raccontano di un territorio che cambia nell’aspetto, ma che conserva il suo più intimo fondamento ontologico.

 

Le Cascate de lu Cugnuntu, una stretta forra di circa 20 metri situati presso i Casali di S.Lazzaro al Valloncello.

Un monte che, in questa stagione, ricorda anacronisticamente il mare d’inverno. Solo che, al posto dell’acqua, della salsedine e dei flutti, ci sono fiori e distese erbose.

Sulla sinistra della strada tortuosa che da San’Anatolia di Narco conduce a Monteleone di Spoleto, una volta oltrepassato il pittoresco borgo di Gavelli, si apre una vecchia mulattiera che si inerpica a zig-zag lungo il Monte Coscerno. Un segnavia del CAI  – pressoché l’unico che incontrerete lungo tutto il percorso – indica come di consueto i tempi di percorrenza per quella che è la vostra meta, la Forca della Spina.

      

Ma, nel caso non foste pratici di sentieri e di trekking, vi basterà seguire quella viuzza sterrata che attacca il versante del Coscerno a circa 1100 metri di altitudine e proseguire a fianco di un vecchio recinto spinato intervallato da scale di legno fradicio. Un tempo queste, presumibilmente, permettevano di scavalcare la recinzione senza pericoli, mentre ora si appoggiano, sbilenche e fragili, alla debole struttura di contenimento.
Un cartellone scolorito al punto da essere diventato bianco e con poche lettere ancora distinguibili, data l’intervento di finanziamento al 1987. In effetti, più andrete avanti più scoprirete come lo stato in cui versano gli steccati e la debole traccia del sentiero – conservata soprattutto dal passaggio degli animali da pascolo – rivelino la scarsa frequentazione, da parte dell’uomo, di questo monte ricco di prati.

Una vasta distesa di abeti si apre, dopo non molto, sulla destra. La regolarità degli alberi rivela un’origine artificiale, anche se ormai cancellata dalla fitta vegetazione che impedisce addirittura di vedere il cielo all’orizzonte. Un senso di pace, nonché un silenzio abissale invadono le orecchie, presto sostituiti dal battiti accelerati del cuore, messo sotto sforzo dalla successiva e repentina salita.
Ma, come accade spesso in montagna, il panorama ripaga la fatica. Alle nostre spalle, numerosi massicci, resi un’unica, imponente catena dalla prospettiva distorta, spuntano dalla foschia di condizioni atmosferiche inclementi. Il più lontano, il Terminillo, veste ancora il bianco delle nevi invernali.

Davanti a noi, invece, si apre una foresta caduca spazzata dal vento. I tronchi nodosi, piegati e avvinghiati come tentacoli dell’orrore, rivelano le loro forme bizzarre e contorte grazie alla pulizia operata dalla stagione fredda appena trascorsa: presto torneranno a essere nascosti dalle verdi foglie e dal rigoglioso sottobosco.

       

Già fanno capolino le viole del pensiero, gialle e viola che, dal limitare di questa macchia chinatasi al vento si estendono a perdita d’occhio, tappezzando questi vasti prati d’altura.

  

Il cielo grigio acciaio, l’erba secca, lo steccato scolorito e la foresta rossiccia sembrano aver desaturato la scena, conferendole – anacronisticamente e inaspettatamente – i colori del mare d’inverno.

       

La presenza umana è ora tradita da un fuoristrada che si avvicina a sobbalzi. Non credo possa stare qui, a calpestare questi magnifici rigurgiti di natura montana, ma l’uomo non sembra preoccuparsene: ci chiede se abbiamo visto dei cavalli. Di deiezioni equine e bovine, in effetti, ne abbiamo viste tante, ma di quadrupedi nemmeno l’ombra. Forse è questo vento freddo che pettina i prati ad averli spinti al riparo.

 

Procediamo ancora. S’intravedono le antenne in lontananza, come alla fine di un gioco di specchi. La cresta piatta del Coscerno è talmente vasta da creare tanti altopiani in successione, come piccole piste di decollo elicotteri.

Le violette fanno spazio alle pervinche e ai crochi, come a tante specie variopinte di cui ignoro il nome, ma che appagano la vista per la loro elegante architettura e per la loro tenace ostinazione a crescere in luogo di così soggiogante asperità.

 

 

 

Qualche saliscendi e poi, morbidamente, un avvallamento ripieno d’acqua. La pozza, senza dubbio stagionale, si estende immota a limitare della foresta china. Lo sarà ancora per poco: sul fondo si estendono lunghissime matasse gelatinose che, dopo un primo momento di smarrimento, risultano piene di uova. Il centro del laghetto si increspa rivelando la sagoma di un rospo, anticipazione di ciò che diventerà la gran parte di queste uova scure.

La foresta si risolve in una staccionata sbiancata dal sole che ci conduce alle antenne. È sempre difficile abituarsi a tanto ferro dopo che si è stati inghiottiti dalla natura, le cui proporzioni sono sempre dilatate: il cielo sembra schiacciarci, avvolgente come una cupola indaco, e i prati si aprono e si contraggono come il moto ondoso di un mare in tempesta. I fiori ci vorticano attorno come risacca.

  

Oltrepassate le arrugginite costruzioni umane, il versante rovina quasi a strapiombo, vellutato dai ciuffi d’erba che, come ingannevoli cuscini, sembrano rassicurarci con la morbidezza di un’eventuale caduta.

Adagio, costeggiamo la cima e torniamo indietro a mezza costa, le antenne nascoste alla vista, scoprendo infine il sostegno roccioso del Monte Coscerno, le sue asperità, la sua lunga storia.

       


Sentiero: poco oltre Gavelli, in corrispondenza degli abbeveratoi, inizia la mulattiera che risale il Monte.
Durata: 4h 30 con pause.
Dislivello: 600 metri.
Difficoltà: medio-bassa, classificata come E.
Suggerimenti: portarsi una giacca antivento e almeno un cambio.

Foto dell’autrice.

«Gli studi classici hanno ispirato il nome, la Laurea in Nutrizione e Benessere animale ha ispirato il progetto».

Chiara Spigarelli originaria di Sigillo, vive da 5 anni in Friuli Venezia Giulia, dove si è laureata in Nutrizione e Benessere animale all’Università di Udine. Curiosità, ma soprattutto la passione per gli animali e la montagna: «Ho sempre adorato la montagna, sono nata sotto le pendici del monte Cucco: per me è un luogo di pace e riflessione». Tutto ciò le ha fatto venire in mente un’idea brillate che le ha permesso di vincere il secondo premio della terza edizione di ReStartAlp2018, il primo campus per lo sviluppo di idee d’impresa e la creazione di start-up impegnate nelle filiere produttive tipiche del territorio alpino.
Il Vello d’oro di Chiara – nome decisamente azzeccato – nasce con l’obiettivo di trovare una soluzione allo smaltimento dei sottoprodotti dell’allevamento ovino. Attingendo dai prodotti di scarto della lana, considerata un rifiuto speciale, l’impresa produrrà teli biologici per la pacciamatura, più efficaci e sostenibili di quelli in plastica. «Le pecore, per il loro benessere, devono essere tosate, agli allevatori costa molto smaltire questo prodotto di scarto e quindi un riutilizzo è fondamentale».

 

Chiara Spigarelli durante la premiazione

Ci spieghi com’è nata la sua idea.

L’idea è nata mentre ero in macchina e tornavo a casa, in Umbria, per le vacanze. Avevo letto del premio ReStartAlp dell’anno precedente e, incuriosita, sono andata a spulciare: ReStartAlp è un campus di formazione gratuito per lo sviluppo concreto di idee di impresa e di startup per la riqualificazione del territorio montano. Ho presentato così la mia idea, che si basa sul recupero della lana di pecora dopo la tosatura. Mi occupo di zootecnia, studio gli allevamenti di montagna del Friuli Venezia Giulia e c’è il problema dello smaltimento della lana. Per questo il mio obiettivo era trovare una soluzione: inizialmente ho pensato di creare un accendifuoco (in alternativa alla Diavolina) realizzato con lana e cera, ma dopo alcune analisi effettuate, la combustione di zolfo – sostanza presente largamente nel manto ovino – sarebbe stata ancora più impattante nell’ambiente rispetto agli accendifuoco già esistenti. Quindi mi sono inventata un altro prodotto: il telo per la pacciamatura.

Questa idea come si sviluppa?

La lana è ricca di zolfo e ho iniziato a pensare come usare questo elemento: in agricoltura è molto utile, da qui l’idea del telo per la pacciamatura. Presa la lana che un allevatore deve smaltire, dopo la tosatura dei suoi capi, il mio progetto prevede la pressatura e realizzazione di tappeti da utilizzare in agricoltura o in orti urbani. Ad oggi questi teli sono esclusivamente di plastica. Il mio invece, essendo di un materiale biologico, non va smaltito e può durare 4-5 anni; inoltre la sua degradazione, oltre a fungere da concime, gli consente di essere tranquillamente rinterrato.

Lo ha scelto lei il nome il Vello d’Oro?

Sì. Mi sono diplomata al liceo classico e questi miei studi hanno lasciato una base classica nella mia testa, per questo ho scelto di chiamarlo così.

La sua passione per gli animali ha un’origine particolare?

No. Non ho mai vissuto in una fattoria, però sono sempre stata appassionata di animali e in particolare a quelli di montagna. L’amore per la montagna l’ho sempre avuto e dopo la triennale all’Università di Perugia ho subito deciso di spostarmi in Friuli Venezia Giulia per completare gli studi.

Vincere un premio al concorso ReStartAlp2018 cosa vuol dire in concreto?

Vuol dire portare avanti il mio progetto più velocemente. Questo sarà un anno zero, un anno sperimentale, che mi servirà per fare delle prove, per poi partire con la realizzazione della mia idea.

Qual è il suo rapporto con l’Umbria?

L’Umbria per me rappresenta la casa: è il mio punto di riferimento. Nonostante siano 5 anni che vivo in Friuli Venezia Giulia, il mio cervello e il mio cuore non pensano a questa regione come casa mia. L’ispirazione arriva sempre dell’Umbria, è un’oasi silenziosa che mi dà pace e mi fa pensare molto. È il mio nido. Il mio posto sicuro.

Tornerà mai in Umbria?

Spero di creare una filiale del mio progetto anche in Umbria; per ora la posso aprire solo in Friuli. Ma è sicuramente un progetto adattabile anche all’Umbria: al posto delle Alpi ci sono gli Appennini, per il resto non ci sono grandi differenze. Il pensiero di tornare a casa, comunque, non lo escludo.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole…

Nuda, genuina, rassicurante.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

Il monte Cucco.

Mi sono resa conto che a Perugia le ciambelle vanno alla grande e che si assomigliano un po’ tutte

Durante il periodo pasquale non c’è panetteria, bar o pasticceria dove non sbocci la ciaramicola, il ciambellone umbro dal caratteristico colore rosa ricoperto di meringa e codette colorate.
Un dolce delicato, sebbene imporporato dall’alcolico alchermes, che la tradizione vuole legato ai cinque rioni del capoluogo perugino, ma che la storia, con un documento del 1430, identifica come un prodotto da forno che il camerlengo di Gubbio aveva voluto offrire ai cittadini il 15 maggio, in occasione dei festeggiamenti al patrono Sant’Ubaldo.

Livrea perugina

Certo è che, guardando lo stemma di Perugia, il binomio rosso-bianco che la ciaramicola cerca di replicare sembra essere un vero e proprio omaggio alla città. Il bianco, simbolo di rinascita, è screziato di quelli che il dialetto chiama cecini, dei confetti colorati di cui il verde simboleggia i giardini che caratterizzavano il rione Porta Eburnea, il blu Porta Santa Susanna che guarda al lago Trasimeno, il giallo il grano proveniente da le contrade oltre Porta Sant’Angelo, il rosso la legna da ardere che arrivava dai boschi oltre Porta San Pietro e il bianco i marmi e i travertini che nobilitano il rione di Porta Sole.
I cinque rioni, in alcune varianti, sono presenti anche sotto forma di pinnacoli di meringa.

 

La variante con la croce e i pinnacoli

 

In altre, invece, a differenziare il dolce è una croce posta in mezzo alla ciambella, che per alcuni rappresenterebbe Piazza IV Novembre dove campeggia la Fontana Maggiore, mentre, per altri, sarebbe un semplice simbolo benaugurale.
Forse è per questo che le fanciulle in età da marito erano solite regalare la ciaramicola ai propri amati: per prospettare loro un’unione feconda.
Terribilmente simile al Torcolo di San Costanzo, non vi pare?

Un dolce, tanti spunti

 

Ma se l’origine della ciaramicola vi sembra confusa, aspettate di sentire quella del nome. Per alcuni, il nome deriva da ciara, volgarizzazione del latino clara (chiara) che verosimilmente fa riferimento all’albume fatto rassodare sulla superficie del dolce ancora caldo. Mica, invece, richiama la parte solida del dolce, il pane.
Di segno opposto è la teoria che vuole la derivazione da ciarapica, nome dialettale della cinciallegra che, con il suo piumaggio colorato, sarebbe uno dei primi segnali dell’arrivo della primavera. Per altri il nome della ciambella deriverebbe invece da ciaramella, un neologismo, sempre dialettale, usato per indicare la forma circolare del dolce.

QUI trovi la ricetta di Rita Boini.

È ufficialmente in vendita il quarto numero della rivista da collezione AboutUmbria Collection, dedicata all’Umbria in giallo.

rivista eccellenze umbre

AboutUmbria celebra così gli aspetti meno conosciuti di una regione solitamente identificata col colore verde. Come illustrato dal professor Manuel Vaquero Piñeiro durante la presentazione di domenica 14 aprile all’Auditorium Sant’Angelo di Bastia Umbria, è difficile identificare l’Umbria con il giallo perché questo è un colore estremamente effimero. È il colore dei campi di grano che a giugno indorano i crinali collinari, o il giallo della tradizionale Torta di Pasqua che arricchisce le tavole durante la festività e che viaggia, avvolta in canovacci di lino, di famiglia in famiglia come dono benaugurale.

 

È il giallo dei bagliori dorati che si sprigionano dai magnifici mosaici del Duomo di Orvieto, visibili in particolar modo quando il sole infuoca l’orizzonte al tramonto, o ancora quella che ammicca dalle corone calcate sugli occhi degli arcigni grifi medievali, custoditi nelle stanze asettiche degli archivi e trattati letteralmente con guanti di velluto. È il giallo delle calde sfumature di un’antica varietà di pera che si raccoglie tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, ma anche il rassicurante giallo della pasta, che ricorda i fasti di un passato industriale non troppo remoto.
Infine, è il colore dell’oro con cui i Maestri del Quattrocento illuminavano le proprie opere, ma anche degli smalti derutesi o del fatuo canneto lacustre che canta nel vento.
Un colore transitorio e cangiante, simbolo al contempo di un’apertura verso il futuro e di antichi lustri. Un colore che tinge la nostra regione di un’altra incredibile sfumatura, di cui siamo pronti a raccontarvi le peculiarità.

 

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Un evento per combattere l’entropia e l’appiattimento del sistema: il 18 aprile torna ad Assisi il TEDx, l’evento delle idee che vale la pena diffondere.

Quello che era nato come una conferenza annuale stanziata a Monterey, in California, è ormai diventato un vero e proprio sinonimo di innovazione, diffuso a livello mondiale.
TED (Technology Entertainment Design) è un format che, prendendo le mosse da tecnologia, divertimento, scienza, design, discipline umanistiche e affari e sviluppo, riunisce i più grandi pensatori del mondo. Hanno infatti calcato il palco personaggi come Jane Goodall, Bono Vox, Bill Gates, Isabelle Allende, Bill Clinton, Al Gore, Jeff Bezos, il co-fondatore di Wikipedia Jimmy Wales e i co-fondatori di Google, Sergey Brin e Larry Page.

 

 

Dal 15 al 19 aprile TED torna a Vancouver con il tema Bigger than Us, sviluppato in cinque giorni e in dodici sessioni. Ogni intervento, in lingua inglese, avrà una durata massima di 18 minuti.
Nel contempo, a livello locale, sarà possibile assistere in diretta a una o più sessioni in lingua originale: un modo esclusivo per entrare nel vivo del dibattito e viverne l’atmosfera prima della diffusione dei TEDtalk sui canali ufficiali.
L’evento locale umbro, il TEDxAssisiLive2019, accoglierà sei speaker all’interno del Palazzo del Capitano del Perdono a Santa Maria degli Angeli (la sede del Digipass Assisi). A essere selezionata è stata la sessione Imagination, ispirati dalla quale gli speaker parleranno di arte, cinema, scrittura, illustrazione e architettura.
Alle 15.30 è prevista la registrazione degli ospiti, i quali avranno poi a disposizione due sale, una per seguire lo streaming del TED di Vancouver, l’altra per ascoltare gli speaker locali e scambiarsi idee. Noi di AboutUmbria saremo lì, con la nostra postazione, per parlavi del nostro nuovo nato, AboutUmbria Collection Yellow, e per ascoltare le vostre idee!
Al termine della sessione, i partecipanti potranno confrontarsi con gli organizzatori, per discutere di quanto visto e per ascoltare i piani futuri di TEDxAssisi, per iniziare a immaginare insieme la prossima edizione, che si terrà probabilmente nel 2020.

 


Riferimenti

www.tedxassisi.com

https://www.ted.com/tedx/events/34372

https://www.instagram.com/tedxassisi/

https://www.facebook.com/TEDxAssisi/

https://twitter.com/TEDxAssisi

AboutUmbria Collection si veste di giallo e sembra dedicarlo ai colori di San Michele Arcangelo patrono di Bastia Umbra, il cui auditorium è pronto a ospitare quella che è ormai la quarta uscita di questo magazine dedicato all’Umbria delle eccellenze.

Protagonista dell’incontro sarà AboutUmbria Collection Yellow, un numero da collezione che si aggiunge agli altri tre, dedicati rispettivamente al blu, al rosso e al nero che già hanno tentato di sfatare la visione diffusa di Umbria come cuore verde d’Italia.

È infatti impossibile non prendere in considerazione la luce dorata che si sprigiona dai magnifici mosaici duomo di Orvieto, o quella che ammicca dalle corone calcate sugli occhi degli arcigni grifi medievali. Come non è possibile ignorare le calde sfumature delle pere locali, dei campi di grano o della vellutata torta pasquale, che in questi giorni molti si apprestano a preparare seguendo antichi rituali. Ma forse non è immediato associare l’Umbria al giallo rassicurante della pasta, che ricorda un passato industriale nemmeno troppo remoto capace di sopravvivere tuttora, seppure in forme concettualmente diverse; o, ancora, agli ori con cui i Maestri del Quattrocento illuminavano le proprie opere, agli smalti derutesi o al fatuo canneto lacustre che canta nel vento.

Organizzato dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Bastia Umbra, l’evento vedrà alternarsi le voci di Sonia Bagnetti, presidente dell’Associazione AboutUmbria, di Isabella Dalla Ragione, presidente della Fondazione Archeologia Arborea, della storica dell’arte Antonella Pesola e di Manuel Vaquero Piñeiro, professore associato del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Perugia.

Non mancheranno gli interventi dei rappresentanti di alcune aziende d’eccellenza del territorio regionale. Concluderà l’incontro un momento conviviale gentilmente offerto dalle aziende Voglia di Pasta e Terre Margaritelli.

Appuntamento domenica 14 aprile 2019 all’Auditorium Sant’Angelo di Bastia Umbra, ore 18.00

«Ella s’avanza

Come un’eternità per ingoiare

Tutto che incontra, di spavento l’occhio

Beando, impareggiabil cateratta

Orribilmente bella.

Onde questo frastuono? È del Velino

Che precipita a piombo ne l’abisso

De l’alpestre ciglion de la montagna

Enorme cateratta e del baleno

Rapida al pari…

Al ciel la spuma

S’alza e giù cade in perpetua pioggia

Nube inesausta e dolce rugiada

Che germina intorno un sempre verde

Maggio, un tappeto di smeraldi».

Così scriveva Lord Byron nel 1816 quando, all’età di 28 anni, visitò l’Umbria e le Cascate delle Marmore. Una leggenda del Seicento narra che il pastorello Velino, assorto dopo le fatiche della caccia, affacciandosi su quelle balse da cui l’acqua tuona fragorosa a valle, restò incantato dalla Nerina che tesseva i suoi biondi capelli al sole di primavera. La giovane ancella non rispose ai richiami del pastorello che, tormentato dal rifiuto dell’amata, ricorse a Cupido affinché le frecce della sua faretra facessero breccia nel cuore della fanciulla. Il dio, per vendicare il rifiuto al pastore Velino, fece precipitare Nerina nei vortici dello fiume che da costei prese il nome. Fu allora che dal cielo discese Venere, curando Nerina dalle ferite della caduta e trasformandola in Ninfa. Dilaniato dal dolore, le sofferte lacrime del fanciullo fecero traboccare il Lago di Pilato dalle balse rocciose oltre le quali lo sguardo del pastorello incrociò, per la prima volta, quello della fanciulla. Solamente allora  i cuori dei due innamorati aprirono una breccia nel muro del tempo consacrando all’eternità quella che oggi è la perla più preziosa della Valnerina: la Cascata delle Marmore.

 

Cascate delle Marmore

Nessun poeta o pittore vide mai cosa più bella, M.Alinda Bonacci Brunamonti (1841 – 1903)

Ed è qui che il viaggiatore deve mostrare un grande talento, quello di saper guardare oltre la semplice bellezza della natura, abbandonandosi anima e corpo al pathos creativo delle acque umbre, un arcobaleno fra valli selvagge che evocano, tra i lividi bagliori dell’alba, l’ancestrale identità delle terre appenniniche. Un paesaggio, quello della  Cascata delle Marmore, che è intreccio inestricabile di cultura, di emozioni e di sapere, una bussola a cui il viaggiatore affida il timone della sua anima affinché lo sollevi dalla sete del viaggio riconducendolo a suggestioni primitive e segrete. Per oltre due millenni, tra i bagliori di un cielo che muore per poi risorgere dalle ceneri della notte il Nera, di cui la natura ha lacerato la memoria trasformandone rocce e riflessi in primordiali sculture totemiche, ha accentuato col suo scorrere impetuoso la profondità degli strati calcarei mentre il Velino, nel flebile volteggiare della corrente che trascina a valle, cresceva nel suo alveo innalzando  mura di calcare e detriti che impedivano alle acque di compiere il cammino che il Creato aveva tracciato per loro.
Era il 272 A.C. quando l’imperium del console romano Curio Dentato ordinò la realizzazione di un canale per far defluire le acque stagnanti in direzione del salto naturale di Marmore: da lì, le l’acque, dopo un tuffo di 165 metri, si gettavano nel sacro Nera, gregario dell’antico Tevere.

 

Cascate delle Marmore

I cui rami sempre verdi e pieni di ghiande si intrecciavano sul serpeggiante sentiero, Percy Bysshe Shelley (1792 – 1822)

«Ecco fumano le aree sull’alto ciglione, l’àugure solleva al cielo le braccia cercando benefici auspici; le trombe squillano vigorosamente mentre l’ultima diga è abbattuta; la massa d’acqua, salutata da un formidabile grido di ammirazione precipita bianca e spumosa nel baratro, e a spire e vortici, mugghiando raggiunge la lenta onda del Nera, mentre sopra questo inferno di acque appare l’arco dell’iride».

A queste parole il gesuita e storico Luigi Lanzi affida il compito di preservare la polvere di una storia arcaica, che si rinnova ogni giorno nel labirinto del tempo e della memoria per poi celarsi nuovamente dietro il velo della leggenda. Acqua e roccia, campanili d’acqua e altari di pietra dai volumi in libertà che si espandono fino a sfiorare un confine sapientemente tracciato che li arresta, per poi ricondursi l’un l’altro nei segreti della rupe da cui si irradiano nell’universo. Una cascata che si manifesta come sortilegio, un luogo in cui le pulsazioni della natura scandiscono il ritmo dell’acqua e delle vicende umane, oltrepassando l’armonia della terra su cui precipita.

 

«Il mio sogno è presentare Sanremo, ma per ora ho in programma un tour tutto mio, che partirà a maggio».

Antonio Mezzancella è timido e riservato. Potrebbe sembrare strano, considerando la professione che ha scelto, ma è davvero così. Lo scopro durante la nostra chiacchierata e lui me lo conferma: «Nella vita di tutti i giorni sono un tipo timido, poi indosso una maschera e vado».
È partito da Perugia, sua città natale, per arrivare, passo dopo posso, a essere un imitatore tra i più apprezzati della televisione italiana. La sua carriera è iniziata nelle piazze umbre tra piano bar e cabaret, poi i villaggi turistici e nel 2004 la vittoria al Festival di Castrocaro. Da quel momento è stato un crescendo: radio, ospitate televisive, la fondazione del gruppo musicale Italian Disco Mafia, il secondo posto nel talent show Tú sí que vales, fino ad arrivare alla vittoria del programma Tale e Quale Show, che gli ha portato notorietà e apprezzamenti per le sue imitazioni canore: da Ermal Meta a Eros Ramazzotti, da Claudio Baglioni a Francesco Renga, da Edoardo Bennato a Nek.

 

Antonio Mezzancella, 39 anni

Antonio, qual è il suo legame con l’Umbria?

L’Umbria rappresenta la mia infanzia, oggi vivo a Roma ma torno sempre appena posso. Qui ho la mia famiglia e ci sono i luoghi dove sono cresciuto, per questo è sempre bello tornarci.

Imitatore, showman, cantante: chi è Antonio? Quale mestiere sente più vicino?

Nessuno dei tre e tutti e tre. Nella vita di tutti i giorni sono un tipo timido, poi indosso la maschera e mi butto. Per questo mi riesce meglio, forse, fare l’imitatore: è il lavoro, tra i tre, con il quale ho rotto il ghiaccio in questo mondo.

Con quale dei tre vorrebbe essere identificato?

Con tutti e tre. Vorrei essere un presentatore che imita e sa cantare.

In stile Fiorello…

Esatto. Sarebbe perfetto perché, non dovrei privarmi di nulla e potrei fare tutto quello che mi piace. Lui rappresenta un mio modello, una persona nel mondo dello spettacolo a cui mi ispiro.

Quando ha iniziato a fare l’imitatore?

Ho iniziato a Perugia e nei dintorni, facendo piano bar nei locali e facendo cabaret nelle piazze dell’Umbria. Poi ho partecipato al Festival di Castrocaro e a diversi programmi radiofonici. Step by step sono riuscito a realizzare concretamente quello che oggi sto facendo.

Qual è stata, fino a oggi, l’esperienza televisiva o radiofonica più coinvolgente?

Il Festival di Castrocaro è stata la mia prima esperienza televisiva su Rai1, per questo lo ricordo come un momento molto emozionante, nonostante non capivo bene cosa stesse accadendo. Guardando invece più vicino, l’ultima esperienza a Tale e Quale Show l’ho affrontata con più consapevolezza: 15 anni fa ero allo sbaraglio, non avevo idea di quello che stavo facendo e non me la sono nemmeno goduta come avrei dovuto. Devo dire che ero proprio nel pallone!

Tra le due vittorie qual è stata più emozionate?

Quella di Tale e Quale perché ero – come detto – più consapevole ed è stata frutto di sacrifici fatti nel corso degli anni. Ho seminato e seminato, alla fine ho raggiunto il mio traguardo.

Quali sono i personaggi che adora imitare?

I cantanti sono i personaggi che mi diverto più a imitare: ho stilato una lista e sono arrivato a 61 imitazioni.

Gli ultimi che ha preparato?

Ultimo e Mahmoud. Sono proprio sul pezzo!

C’è invece un personaggio che vorrebbe imitare, ma che ancora non è riuscito?

Gerry Scotti. Non mi riesce e non mi riuscirà mai! Per imitare un personaggio devi trovare la chiave giusta, con lui ancora non l’ho trovata.

Il suo sogno nel cassetto?

Presentare Sanremo. Magari il prossimo anno (scherza).

Progetti futuri più imminenti, invece…

Ho in previsione una tournée estiva, sarà una bella produzione con tanto di corpo di ballo; partirà a maggio e toccherà tutta Italia, a breve nei social troverete tutte le date e le città. Poi ho in cantiere altri progetti dei quali è ancora presto parlare.

Al cinema ci ha mai pensato?

Sì, alla fine è un mondo parallelo. Se si dovesse presentare l’occasione non direi di no.

Un’imitatrice famosa umbra è Emanuela Aureli, vi conoscete?

Sì, certo, ci conosciamo bene. Tra di noi c’è sempre stata grande stima, ci vediamo, ci diamo consigli sul nostro lavoro, sul come fare un personaggio o anche una semplice battuta.

Se l’Umbria fosse un personaggio, come la rappresenterebbe?

Sicuramente mi focalizzerei sugli spazi, sul ritmo più umano rispetto a Roma, ad esempio, e sulla vivibilità e genuinità. Tutto questo lo apprezzi guardandolo da fuori e da lontano, quando lo vivi si dà sempre per scontato. Inoltre, ci sono i parcheggi: non è una cosa da sottovalutare (ride).

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Tranquilla, genuina e vivibile.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

Il verde.