«Il (vero) paesaggio è esteso e armonioso, tranquillo, colorato, grande, variato e bello. È un fenomeno principalmente estetico, più vicino all’occhio che alla ragione, più apparentato al cuore, all’anima, alla sensibilità e alle sue disposizioni che allo spirito e all’intelletto, più vicino al principio femminile che a quello maschile. Il vero paesaggio è il risultato di un divenire, qualche cosa di organico e vivente. Ci è più familiare che estraneo, ma più distante che vicino, manifesta più nostalgia che presenza; ci eleva al di sopra del quotidiano e confina con la poesia. Ma anche se ci rimanda all’illimitato, all’infinito, il paesaggio materno offre sempre all’uomo anche la patria, il calore e il riparo. È un tesoro del passato, della storia, della cultura e della tradizione, della pace e della libertà, della felicità e dell’amore, del riposo in campagna, della solitudine e della salute ritrovata in rapporto alla frenesia del quotidiano e ai rumori della città; deve essere attraversato e vissuto a piedi, non rivelerà il suo segreto al turista o all’intelletto nudo.» (Gerhardt Hard)[1]
Considerato da Simmel come «un’opera d’arte in statu nascendi»,[2] il paesaggio esiste sulla base di tre condizioni sine qua non: non può realizzarsi senza un soggetto, senza la natura, e senza il contatto tra i primi due. La relazione, in particolar modo, si esprime attraverso i segni, le costruzioni create dall’uomo sul territorio e poi attraverso l’agricoltura,[3]
cartina tornasole della felicità di tale unione. Ma la relazione può essere anche quella data dal visitatore che, con il suo sguardo curioso, caratterizza una zona, legandone i tratti significativi con il concetto di tipicità.
La pianta della civiltà
Tra Spoleto e Assisi, dove milioni di olivi si susseguono per circa trentacinque chilometri, questa duplice tipologia di relazione trova la sua forma più alta. Nella Fascia Olivata, tesa a settecento metri d’altitudine, la storia dell’olivicoltura inizia infatti molto tempo fa. L’olivo è, per Fernand Braudel, la «pianta della civiltà», perché delimita lo spazio del Mediterraneo antico; l’olio era utilizzato come condimento, per i riti religiosi, ma anche nella farmacopea e per l’illuminazione. Nell’Editto di Rotari (643 d.C.), invece, per chi avesse abbattuto un olivo spettava una pena di tre volte superiore rispetto a quella comminata a chi avesse abbattuto un qualsiasi altro albero da frutto. Infine, secondo Castor Durante da Gualdo Tadino (1586), qualche oliva a fine pasto favoriva la digestione.[4]
Ma senza spendere troppo tempo tra i libri, basta fare una visita a Bovara, nei pressi di Trevi, e ammirare il retaggio di tale tradizione con i propri occhi. Il maestoso Olivo di Sant’Emiliano, con i suoi nove metri di circonferenza e cinque di altezza, è un esemplare vecchio di ben diciassette secoli. Tralasciando per un attimo la storia della decapitazione di Sant’Emiliano, Vescovo di Trevi –legato, almeno secondo un codice del IX secolo, alla pianta e poi decapitato – gli studi hanno infatti dimostrato che si tratta di un genotipo particolare, molto resistente che, come tutti i suoi simili, dopo i primi ottocento anni di vita ha visto la parte interna del suo fusto marcire e le parti esterne dividersi, ruotando in senso antiorario.[5]
Un paesaggio unico
Gli olivicoltori sanno che queste zone dell’Umbria, infatti, richiedono una cultivar piuttosto resistente, capace di aggrapparsi a terreni asciutti, poco adatti a mantenere l’umidità. Il Muraiolo è stato dunque designato come la pianta ideale per scongiurare il rischio idrogeologico della zona e, al tempo stesso, per donare quell’olio tipico dal sapore piccante e amaro, ingentilito da note di erbe aromatiche.[6]
La sua coltivazione ha altresì modificato il territorio, rimodellandolo, formando una fascia continua verso l’alto a spese del bosco. L’ha caratterizzato con ciglioni, lunette e terrazzamenti, rendendolo riconoscibile al punto da permetterne l’iscrizione nel catalogo dei Paesaggi Rurali Storici, insieme agli Altopiani plestini, i campi di Farro di Monteleone di Spoleto, le colline di Montefalco, la rupe di Orvieto, il Poggio di Baschi e i Piani di Castelluccio di Norcia.[7]
Obiettivo che segue l’iscrizione all’Associazione Nazionale Città dell’Olio – che riunisce tutti i Comuni, le Province, le Camere di Commercio e i GAL che producono seguendo dei valori ambientali, storici, culturali o incentrati sulle DOP – e prelude al riconoscimento della zona come Paesaggio Alimentare FAO (sarebbe il primo in Europa) e poi come sito UNESCO.
Il pericolo maggiore in cui il paesaggio può incorrere – non venire iscritto nella memoria collettiva ed non essere quindi riconosciuto come caratteristico di una determinata zona del Pianeta – è dunque scongiurato: non c’è persona, sia essa nata in quel luogo o proveniente da lontano, che possa prescindere ora la Fascia Olivata dalle città di Assisi, Spello, Foligno, Trevi, Campello sul Clitunno e Spoleto.
Garanzie
L’obiettivo non è tuttavia quello di ridurre il territorio a museo, ma di metterlo in relazione con il suo retaggio culturale e comunitario, anche per preservarlo dai cambiamenti che potrebbero distruggerlo. Non sono infatti così lontani gli anni della Prima Guerra Mondiale, quando gli olivi venivano tagliati per supplire alla mancanza del carbone nelle fabbriche del Nord; o le terribili gelate del 1929 o del 1956, che portarono ad una significativa contrazione della produzione. Non sono lontani nemmeno gli anni Sessanta, quando la moda vessava l’olio d’oliva in favore di quello di semi, come pure non sono scomparse le difficoltà a reperire manodopera per ogni raccolta autunnale. Tanto più che i dettami stabiliti dalla Cooperativa di Olivicoltori di Trevi, nata nel 1968 per superare la dimensione familiare, sono molto severi: tutte le olive devono provenire dal territorio in questione, devono essere raccolte a meno e consegnate al frantoio dopo poche ore dalla raccolta, per essere poi molite nel giro di dodici ore per mantenere i giusti livelli di acidità e ossidazione.
Non c’è spazio per l’industrializzazione e la produzione di massa: questa Fascia si mantiene aderente alla genuinità delle cose antiche nello stesso modo in cui avvolge i versanti collinari, anche quelli più aspri. In questo modo anche il visitatore potrà goderne, magari passeggiando lungo il Sentiero degli Olivi tra Assisi e Spello, o lungo quello di Francesco di cui l’olivo stesso è simbolo. Potrà ricollegare senza indugio le argentee chiome al sapore piccante della bruschetta con l’olio nuovo –l’Oro di Spello[7] – che gli si riverserà in bocca, donandogli la stessa consapevolezza e saggezza di quegli antichi popoli del Mediterraneo che preservarono la civiltà donando alla terra alberi di oliva.
[1]G. Hard, Die «Landschaft» der Sprache und die «Landschaft» der Geographen. Semantische und forschunglogische Studien, Bonn Ferd-Dümmlers Verlag, 1970, in M. Jakob, Il Paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009.⇑
[2]G. Simmel, Philosophie der Lanschaft, in M. Jakob, Il Paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009.⇑
[3] M. Jakob, Il Paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009.⇑
[4] Ulivo e olio nella storia alimentare dell’Umbria, in www.studiumbri.it ⇑
[5] TreviAmbiente > paesaggi da gustare, 2015⇑
[6] Umbria: protezione di un’origine, a cura di D.O.P. Umbria, Consorzio di tutela dell’olio extra vergine di oliva, 2014.⇑
[7]Da www.reterurale.it⇑
[8] L’Oro di Spello è una manifestazione annuale che riunisce la Festa dell’Olivo e la Sagra della Bruschetta.⇑
L’articolo è stato promosso da Sviluppumbria, la Società regionale per lo Sviluppo economico dell’Umbria
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Eleonora Cesaretti
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