Un luogo dai tanti tesori nascosti e lontano dal turismo di massa.
Una domenica mattina di luglio sono stata con la mia famiglia a Vallo di Nera, per la prima volta. Nonostante sia un’umbra doc, in 34 anni di vita non mi è mai balenato per la testa di fare una passeggiata da quelle parti perché non conoscevo i tesori che si nascondono in questo borgo così affascinante. Non per altro è considerato uno dei Borghi più Belli d’Italia e Bandiera Arancione del Touring Club.
Chiesa di Santa Maria Assunta, foto dell’autrice
Abbiamo parcheggiato l’auto fuori le mura e siamo entrati in città dalla via che conduce alla Chiesa di Santa Maria Assunta. Alcune signore, in abiti domenicali, erano pronte ad assistere alla Messa. Sorridendoci, ci hanno invitato a entrare in chiesa per ammirare i favolosi interni affrescati da artisti di scuola giottesca. Siamo rimasti sbalorditi dalla bellezza di questo piccolo gioiello che conserva, tra gli altri, LaProcessione dei Bianchi di Cola di Pietro da Camerino, risalente al 1401.
Uscendo, ci siamo accorti che la porticina a sinistra della chiesa era aperta e dava su un piccolo chiostro tenuto magnificamente. Percorrendo una delle stradine di fronte alla piazza, ci siamo imbattuti in una targa con scritto Casa dei Racconti a fianco a un edificio chiuso. Incuriositi, abbiamo cercato informazioni su internet e abbiamo scoperto che si tratta di un centro di ricerca e documentazione sulla letteratura popolare, un luogo depositario della tradizione orale dell’intera comunità, soprattutto quella che si tramanda da generazioni e che contiene miti, leggende, favole, racconti e satire. Ci siamo quindi addentrati nei vicoli silenziosi, dove tutto riporta al passato e mi sono immaginata scene di vita medievale: cavalieri a cavallo, dame a passeggio e il correre dei bambini tra i banchi del mercato.
Chiesa di San Giovanni Battista
Tornata alla realtà, eravamo giunti di fronte alla Chiesa di San Giovanni Battista, che si trova nella parte alta della città. È stata costruita tra il 1200 ed il 1300, ma è stata in parte ricostruita nel 1575. Purtroppo era chiusa quel giorno e non abbiamo potuto visitarla: un motivo valido per tornarci. Tuttavia, ci ha colpito la facciata molto semplice che dà su una piazzetta che, al centro, ospita una cisterna e a lato un belvedere verso le verdi colline.
Abbiamo continuato la nostra visita salendo per le strette vie e, dopo aver percorso il perimetro del castello, siamo usciti dalle mura giungendo alla Cappella di San Rocco, che sorge sotto un porticato dove è presente anche un lavatoio e un abbeveratoio per animali. Quello che ci ha colpiti è l‘atmosfera tranquilla e rilassata di questo borgo. Vallo di Nera è un susseguirsi di stradine, mensole, portoni di legno e sottopassaggi angusti. Tutti si conoscono nel paese, una grande famiglia che ci ha accolti in casa propria con gentilezza e affabilità. Non c’è alcuna traccia del turismo di massa e intorno la natura è la vera protagonista del paesaggio. Questi sono solo alcuni dei validi motivi per visitarla. La posizione in cui si trova, inoltre, offre spunti per diverse attività, come il rafting lungo il fiume Nera e una piacevole passeggiata in bici lungo il tragitto dell’ex ferrovia Spoleto-Norcia. Senza dimenticare che Vallo di Nera è la città del tartufo.
Fare a scaglie il tartufo; rompere in una terrina le uova, salarle e sbatterle leggermente. Versare l’olio in una padella per friggere, aspettare che sia ben caldo e versarvi le uova sbattute. Lasciar rapprendere la frittata in modo che sotto sia leggermente dorata e rimanga morbida in superficie. Togliere la padella dal fuoco, cospargrte rapidamente la superficie morbida con le scagliette di tartufo e ripiegare la frittata su sé stessa. Servire subito.
Molti mescolano il tartufo alle uova sbattute, ma questo era il modo in cui un tempo a Norcia e Gubbio preparavano la frittata di tartufi; la tecnica usata, è di fatto, quella delle omelettes ma mi pare più giusto il termine frittata, che era quello usato in queste due cittadine umbre del tartufo.
A Pietralunga, il comune d’Italia con più raccoglitori di tartufi in rapporto ai suoi abitanti, si è svolta la trentaduesima edizione della Mostra Mercato del Tartufo e della Patata. Venti chef stellati e non hanno cucinato i loro piatti gourmet, devolvendo il ricavato in beneficenza. Stessa sorte per un tartufo di 364 grammi acquistato da un noto ristorante perugino.
Si è appena conclusa la manifestazione di Pietralunga dedicata al tartufo e alla patata, dove 70 espositori di prodotti enogastronomici e di artigianato locale hanno colorato e diffuso profumi nel delizioso borgo medievale umbro. Abbiamo intervistato alcuni rappresentanti istituzionali e privati e ci siamo fatti raccontare l’evento.
Il sindaco Mirko Ceci, che abbiamo incontrato tra le animate strade cittadine, ci ha detto: «Gli stand umbri e di fuori regione hanno arricchito le nostre vie insieme a venti chef di tutta Italia che hanno cucinato utilizzando i nostri prodotti. Per noi il tartufo è un volano di sviluppo: abbiamo infatti lanciato il marchio Tuber Turismo, in cui crediamo moltissimo. I turisti sono curiosi di conoscere e vivere il mondo del tartufo e desiderano entrare in contatto con il raccoglietore e il suo cane, andare nei posti di prelievo e vedere la lavorazione finale. Abbiamo nel nostro Comune oltre 400 cavatori e 120 addetti che operano in questo mondo, con due aziende del settore importantissime, che esportano in oltre 50 paesi. In questo event, abbiamo inaugurato una statua dedicata al raccoglitore e al suo cane, che riporta anche alcuni oggetti rappresentativi di questa attività. Inoltre, abbiamo ratificato una prima intesa per un rapporto in divenire di tipo culturale, turistico e commerciale con l’Associazione Russia in Umbria, in accordo con la sua presidente Larisa Gavrilova».
Statua dedicata al raccoglitore di tartufo e al suo cane
Nel borgo regnano suoni, musica e voci che, intrecciandosi tra di loro, armonizzano i residenti con i tanti forestieri intervenuti. Troviamo l’assessore Federica Radicchi, con delega al Turismo, Politiche Sociali e Scolastiche che, appena rientrata dall’importante manifestazione bolognese Fico Eataly World, ci ha confidato: «Abbiamo creato una sinergia con l’istituto alberghiero Cavallotti di Città di Castello i cui studenti hanno creato, con il tartufo e la nostra patata bianca DE.CO., due prodotti denominati il trifola finger food e il tortello al tartufo. Sono stati presentati a Bologna, dove abbiamo portato anche la visciola e la nocciola, che sono state apprezzate moltissimo. La nostra politica è quella di coinvolgere i giovani del territorio e i nostri prodotti, insieme ai paesi vicini per nuove e sinergiche collaborazioni».
Giuliano Martinelli
Dopo aver apprezzato il profumo di uno splendido tartufo, Luciano Bacchetta, presidente della Provincia di Perugia e Sindaco di Città di Castello, ci ha detto: «Nel comprensorio alto-tiberino, così come in tutta la Provincia, abbiamo potenzialità enogastroniche di altissimo livello ricercate in tutto il mondo; in particolare, il tartufo bianco altotiberino ci permette di proiettarci in una dimensione più ampia, anche dal punto di vista promozionale. Dobbiamo lavorare molto sulle strade e infrastrutture, perché se non sono adeguate frenano lo sviluppo; noi cerchiamo di incrementare sinergie con i sindaci di questi borghi, per valorizzare l’immagine del comprensorio».
Poco più in là Monica Panetti, socia fondatrice di Solidart, ci racconta: «Insieme a mio marito, lo chef Simone Ciccotti e a nostra figlia Benedetta Sofia, ho creato l’Associazione Solidart con finalità benefiche unendola al mondo della ristorazione, che è il nostro mestiere. Nell’associazione c’è un gruppo di chef che ha deciso di creare eventi a scopi benefici, come quello in seno a questa manifestazione, che ha voluto indirizzarsi verso la raccolta fondi per l’acquisto di un defibrillatore per una scuola e l’aiuto a una ragazza, Daniela, per favorire la pubblicazione del suo secondo libro. Abbiamo prossimi progetti similari, perché fare del bene fa bene». Le note e la voce di Simone e Selene hanno chiuso, con un tocco di musica soul, la magnifica manifestazione.
Il tartufo e i salumi di Norcia, i formaggi di Vallo di Nera, i vini di Montefalco, Torgiano e Corciano, così come l’olio di Castiglione del Lago, di Lugnano in Teverina eTrevi: l’Umbria da gustare.
Nulla rappresenta l’Umbria come la varietà e la genuinità dei prodotti enogastronomici: legumi e cereali, ma soprattutto il frutto delle trasformazioni operate dall’uomo – formaggi, salumi, prodotti panificati, olio, vino. Una rosa di alimenti che, soli, rappresentano una regione estremamente legata alla terra, perfetta espressione del paesaggio che la caratterizza.
Una convinzione diffusa vuole che i cosiddetti piatti tipici siano anche antichi, frutto di una lunga tradizione locale e rurale. In realtà, i cibi giunti fino a noi dal passato sono benpochi: sicuramente non figurano tutti quegli ingredienti provenienti dal Nuovo Mondo – patate, pomodori, mais, fagioli, cioccolato – che in Europa trovarono larga diffusione solo dal 1800 e che pure costruiscono l’elemento principale di piatti definiti locali o rurali. Anzi, molti di questi prodotti erano appannaggio delle classi più abbienti, che però erano solite gustarsi pietanze molto ricche e speziate, frutto di cotture multiple, in cui venivano occultati non solo il sapore e l’aspetto naturale, ma anche la tipicità e la logica della stagioni. Così, quella che oggi viene romanticamente considerata tradizione enogastronomica, il realtà non è che il retaggio degli ultimi due secoli, specie del periodo tra le due guerre.
La vera cucina rurale e regionale nasce nel XVIII in Francia, dove cominciano a essere sperimentate preparazioni più semplici ma, paradossalmente, più dotte, caratterizzate da alimenti freschi, verdure, erbe aromatiche e da una separazione ben nettatra i sapori. Prima che il nostro orgoglio nazionale ne esca ferito, c’è da specificare che i nostri connazionali parteciparono a questa rivoluzione proponendo una cucina ancor più garbata e semplice, ponendosi per la prima volta il problema dell’identità culinaria e delle tradizioni locali. Lentamente nacquero i primi ricettari, dove la nuova gastronomia francese o francesizzante si mescolava alla cucina popolare delle occasioni solenni – feste, riti propiziatori, occasioni di aggregazione legate a particolari momenti dell’anno. Si sa, il cibo da sempre stimola i rapporti umani, al punto che eventi come la vendemmia, la battitura del grano, la raccolta dello olive o l’uccisione del maiale si traducevano in occasioni di convivialità, veri e propri esempi di compenetrazione tra territorio e enogastronomia.
Il maiale e il tartufo
I ricchi, abituati alla cacciagione, consideravano il maiale cibo da poveri. In realtà, le famiglie che potevano permetterselo, si assicuravano nutrimento per un anno: il maiale, insieme ai suoi derivati, era un ottimo ricostituente per i contadini provati dalle fatiche agricole. Norcia, famosa oggi come allora per la presenza dei norcini, è stata da tempo associata ai salumi grazie all’uso attento delle tradizionali tecniche di lavorazione della carne – peraltro mutuate sulle procedure dei chirurghi preciani, veri e propri pionieri nel trattamento dei mali che da sempre affliggono l’uomo. Tra i prodotti più celebri spicca il Prosciutto di Norcia IGP, ma non mancano insaccati e prodotti caseari – si pensi alla grande mostra mercato Fior di Cacio, che anima il borgo di Vallo di Nera con degustazioni, cooking show, laboratori per bambini e con la maxi ricotta presentata dai Cavalieri della Tavola Apparecchiata – spesso arricchiti anche dal tartufo che, proprio a Norcia, veniva un tempo cacciato con le scrofe, attirate dall’androsterone presente nel tartufo come nel feromone dei maschi. I Romani, che ne erano ghiotti, lo chiamavano funus agens, perché provocava indigestioni mortali, mentre, in epoca moderna, si pensava che avesse delle proprietà afrodisiache, forse proprio per quella stessa analogia tra il maiale e l’uomo da cui a Norcia nacque il mestiere del chirurgo.
Il vino
L’Umbria può vantare ben due DOCG in ambito vinicolo: il Sagrantinodi Montefalco e il Torgiano Rosso Riserva. Montefalco si è caratterizzato fin dal passato per la cura del vigneto, geneticamente poco produttivo – negli anni Sessanta era quasi scomparso – e per la produzione di un vino rosso rubino dipinto anche da Benozzo Gozzoli nel ciclo ispirato alla vita di San Francesco, posto proprio nella chiesa di San Fortunato, nel centro cittadino. Il prodotto di questi uvaggi puri o misti, ma al cento percento provenienti da vitigni autoctoni, trova largo impiego non solo negli abbinamenti, ma anche nella preparazione stessa di primi piatti e cacciagione. Dal canto suo, Torgiano Riserva, che per disposizione del disciplinare deve essere sottoposto ad almeno tre anni di invecchiamento – dei quali sei mesi in bottiglia, di vetro tipo bardolese o borgognotta – è perfettamente indicato per pastasciutte, pollame nobile, arrosti e formaggi stagionati. Viene anche diluito e utilizzato per comporre delle opere inedite: ogni anno, gli artisti di Torgiano dipingono infatti i vinarelli, sorta di acquerelli color borgogna venduti per sostenere le attività culturali del borgo.
Tutte queste roccaforti di produzione sono comprese in specifici itinerari, la cui chiave di volta è l’eccellenza: Torgiano è compreso sotto la Strada dei Vini Cantico, mentre l’AssociazioneStrada del Sagrantino abbraccia Montefalco e le sue colline.
Ma i percorsi non finiscono qui: la Strada del Vino Colli del Trasimeno comprende, ad esempio, i borghi di Corciano – definita anche città del pane per la sua lunga tradizione produttiva ma, prima di tutto, animata dall’annuale Castello diVino, ricco di concorsi a tema e degustazioni – e Castiglione del Lago, famosa anche per la regina in porchetta, la carpa del lago aromatizzata al prosciutto.
Non possiamo certo dimenticarci del vin santo, produzione che risente della vicina Toscana, ma che a Citerna trova, nella sua variante affumicata, la denominazione di Presidio Slow Food. Essendo questa una zona da lungo tempo votata alla coltivazione del tabacco, per ottimizzare gli spazi sia le foglie sia i grappoli venivano appesi alle travi, in modo che entrambi potessero seccarsi grazie ai camini o alle stufe. Il fumo che, inevitabilmente, si sprigionava, finiva per donare alle uve quel tipico retrogusto di affumicatura che ancora oggi caratterizza la produzione citernese.
L'olio
L’Umbria e il suo cuore verde sono stati declinati in modi innumerevoli: dalle foreste all’ombra che esse generano, il nome stesso della regione parla di vegetazione, rigogliosa e fresca. Ma come non pensare al verde-argenteo degli olivi che presidiano i pendii?
Per Trevi passa la fascia olivata, una zona, posta a trecento metri di altitudine e lunga 35 km, iscritta nel catalogo dei Paesaggi Rurali Storici per il modo in cui ha cambiato non solo il paesaggio, rendendolo caratteristico, ma anche le vite degli uomini che da tempo se ne prendono cura. La conseguente produzione di olio la annovera, a buon diritto, tra le Città dell’Olio, tra le quali spicca anche il borgo di Lugnano in Teverina: luoghi in cui la tradizione olivicola fa rima con ambiente, con territorio e con un patrimonio umano da tutelare.
Ma che fa il paio, soprattutto, con un’attività antichissima, testimoniata dagli ultimi baluardi di un tempo che fu: olivi millenari, come quello a Villastrada, nel borgo di Castiglione del Lago, o quello a Bovara di Trevi, vecchio 17 secoli, sul quale sembra che fu decapitato nientemeno che il vescovo Emiliano, poi divenuto santo.
Sabato 8 Aprile 2017, presso lo Spazio Arte Valcasana (Scheggino – PG), nell’ambito della manifestazione Diamante Nero, è stata inaugurata la mostra d’arte internazionale CromoNero, con la presentazione del Sindaco di Scheggino Paola Agabiti e del curatore Graziano Marini.
Gli artisti coinvolti
La mostra è stata organizzata con il contributo, oltre a quello di Graziano Marini, di Pino Bonanno e Franco Profili. Il periodo della mostra sarà dall’8 Aprile al 1 Maggio 2017. Trentacinque sono stati gli artisti coinvolti nell’evento: Afro, Valentina Angeli, Enrico Antonielli, Chiara Armellini, Gianni Asdrubali, Romeo Battisti, Pino Bonanno, Sestilio Burattini, Tommaso Cascella, Bruno Ceccobelli, Piero Dorazio, Marino Ficola, Giuseppe Friscia, Benvenuto Gattolin, Giuliano Giuliani, Eugène Ionesco, Davide Leoni, Annamaria Malaguti, Graziano Marini, Arianna Matta, Saverio Mercati, Kristina Milakovic, Gianluca Murasecchi, Franco Profili, Giosuè Quadrini, Virginia Ryan, Raffaele Ricci, Roberto Ruta, Antonio Sammartano, Pino Spagnulo, Giulio Turcato, Xavier Vantaggi, Emilio Vedova, Franco Venanti, Paul Wiedmer.
Il nero del Diamante
L’evento CromoNero è concomitante con la tradizionale festa del Diamante Nero, ovvero la festa del tartufo nero, prodotto tipico del territorio apprezzato in tutto il mondo. La decisione di realizzare tale progetto espositivo ha presupposto una particolare sensibilità a far sì che il Nero fosse sentito come riferimento importante per ogni azione creativa d’arte visiva, sia essa espressa attraverso la pittura, sia attraverso la scultura.
Si è consapevoli che, quando ci si esprime con il colore, si evocano sempre sensazioni, emozioni e ricordi; Jung sosteneva che esso porta in sé un significato più ampio, inconscio, che non è semplice da definire o spiegare completamente. Quando la mente ne esplora il significato suscita idee che vanno oltre la razionalità. Infatti scrisse: «Il nero è il colore delle origini, degli inizi, degli occultamenti nella loro fase germinale, precedente l’esplosione luminosa della nascita».
Il colore del mistero
Nell’arte, il bianco e il nero sono colori-non colori, per molti versi sopportati, altre volte ossessivamente analizzati. Hanno la capacità di contenere tra loro l’intero universo, come il senso dell’infinito. Sono gli eccessi di uno stesso mondo.
Sappiamo che, soprattutto il nero, corrisponde alla schematizzazione cromatica delle prime domande che l’uomo si è posto, in quanto assorbe, non respinge, attrae.
È il colore del mistero. Non si sa quali risposte contenga e nasconda, ed è questa la grande sfida che attira e coinvolge gli artisti, presi come sono a cercare l’altro da sé, l’oltre inesplorato, l’evocazione di ogni orizzonte che sfugge e allontana il tempo.
L’artista sa bene che il seme per germogliare deve essere sepolto nella terra, nell’oscurità, ma sa anche che il messaggio che ci trasmette contiene elementi di vitalità e inquietudini ancestrali. Il tartufo nero, nella sua conformazione strutturale, rappresenta bene questo senso di fragile inconsistenza dell’esistenza. La sua asperità e la sua “fragranza” interna si contrastano, ma si accolgono per rappresentarci completamente il senso ultimo della vita. Perché, come nella favola di Eros e Psiche di Apuleio, l’amore prospera al buio e il nero costituisce l’elemento più adatto a rappresentarlo se si sanno cogliere le varie sfumature che esso comporta, conferendo un senso del sacrificio, tenacia, pessimismo, abnegazione e risolutezza nel perseguire le proprie emozioni.
«Il nero mi ossessiona»
Mirò diceva: «Il nero mi ossessiona, non esiste altro colore con così tante qualità e sfumature, è il paradiso della pittura, è l’inizio e la fine», mentre Van Gogh sosteneva che il nero va considerato come la più luminosa combinazione dei più scuri rossi, azzurri e gialli. Ovvero racchiude una concentrazione infinita di colori caldi e per questo va “vissuto” come se fosse un alito che ci alimenta con tutta la sua carica di misteriose attribuzioni.
L’artista, rabdomante risoluto, è sempre alle prese con la sostanza che questo colore comporta, vi cerca lo spirito interno, lo percuote, lo interroga incessantemente fino a sentire le sue voci più soffocate e, con l’abilità adeguata del minatore, ne coglie tutta la raffinata valenza cromatica. Dopo averlo bene esplorato, lo affida alla visione dei più curiosi e attenti visitatori dell’animo umano, i quali sapranno leggervi messaggi chiaramente espressi, ma anche tutte le fratture, le derive, gli enigmi che racchiude.
Un colore ancestrale
Ogni artista partecipante a CromoNero ha sempre avuto, ed ha, una particolare sensibilità e attenzione verso il Nero, cogliendo in esso la sostanza più profonda delle proprie ricerche cromatiche e delle proprie derive espressive, senza farsi mai coinvolgere negativamente dal mistero che emana e che rappresenta e ben sapendo che anche il nero viene colto attraverso la sua risonanza interna, la funzione psichica di base, la posizione occupata nella genesi dello spettro dei colori e il suo significato interiore. Ma viene colto anche in assonanza con stati d’animo, oggetti, suoni, memorie. Così, per esempio, del giallo diciamo che è il tipico colore terreno ed è rappresentazione cromatica della follia, mentre il blu si vuole che appaia come il colore del cielo, che rimanda alla profondità, che indica all’uomo l’infinito e che assomiglia al suono del violoncello.
Contrasti fondamentali
Il nero costituisce uno dei contrasti fondamentali dei colori in quanto si contrappone sempre al bianco. Il contrasto in questione rappresenta così il limite del movimento cromatico: il bianco è simbolo di un mondo in cui tutti i colori sono scomparsi, dove regna un gran silenzio, e tuttavia vi è la possibilità della rinascita; il nero invece si cerca di assimilarlo al nulla privo di possibilità, silenzio eterno. L’artista però si ribella a tale considerazione accademica e cerca di dimostrare sempre che il nero è il vero portatore delle motivazioni profonde della creazione, lo “spirito” acceso di ogni autentica ricerca estetica entro la quale nasce e si sviluppa l’azione emotiva, gestuale, concettuale dell’agire espressivo.