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La Pasqua è alle porte e tutti si accingono a mangiare uova di cioccolato: al latte, fondente o bianco poco importa. Ma conoscete tutte le sue caratteristiche e la sua storia?

Se ti chiedessi di nominare – a bruciapelo – un prodotto dolce, sono convinto che mi risponderesti: «Il cioccolato» o comunque un preparato che lo contenga. Sarei curioso di sapere qual è stato il tuo primo pensiero: scrivimelo se ti va! Ma il cioccolato possiamo ironicamente definirlo come la risposta corretta a tutte le domande. Lo affermiamo noi oggi, ma in realtà i primi a pensarlo furono i Maya e gli Aztechi che, oltre 3.000 anni fa, cominciarono con la coltivazione della pianta del cacao da cui poi si è arrivati alla produzione del cioccolato. Le più celebri leggende associano il cioccolato alla dea della fertilità, al punto che veniva offerto in tributo, insieme all’incenso, alle divinità della loro religione.

 

Lo chef Alessio Berionni

 

Secondo una leggenda azteca, la pianta del cacao fu donata dal dio Quetzalcoatl agli esseri umani per alleviare la fatica. Sappiamo ora che le fave di cacao contengono in effetti alcaloidi coma la teobromina e anche delle proprietà energizzanti. In quantità minore, caffeina. Elevato, inoltre, il suo potere antiossidante, a cui vengono attribuite anche virtù antidepressive, grazie alla presenza di serotonina, sostanza coinvolta nella regolazione dell’umore. Ricco di vitamine e minerali, il cacao contiene inoltre flavonoidi che influiscono sui livelli di colesterolo e arreca benefici anche per la salute cardiovascolare. Di contro, è sconsigliato nelle persone soggette a ipertensione e nervosismo, nonché ai bambini al di sotto dei tre anni. I preziosi semi arrivarono in Europa dopo il quarto viaggio di Cristoforo Colombo, ma è solo dalla prima metà del Cinquecento che Hernán Cortés, il conquistatore del Messico, iniziò una vera e propria importazione di questa nuova merce nel vecchio continente. Da quel momento, la bevanda, allora consumata con aggiunta di zucchero, anice, cannella e vaniglia, ebbe lo strepitoso, esponenziale successo che tuttora detiene.
Nel Seicento il cacao inizia a essere prodotto anche in Italia, soprattutto a Firenze e a Venezia, ed è grazie alla scuola torinese che nel 1819 Francois-Luis Cailler fonderà la prima fabbrica svizzera di cioccolato. Successivamente, nei primi anni del Novecento, il genovese Bozelli metterà a punto una macchina per raffinare la pasta di cacao, mentre l’olandese van Houten s’ingegnerà a trovare il modo di separare il burro di cacao. Nel 1865, a Torino, Caffarel, mescolando cacao e nocciole, avvierà la produzione di cioccolato gianduia, mentre una decina di anni dopo lo svizzero Daniel Peter inventerà il cioccolato al latte. La prima produzione di cioccolato fondente, avviata a Berna nel 1879, si deve invece a Rodolphe Lindt, mentre a Frank Mars l’invenzione della prima barretta al cioccolato, apparsa a Chicago nel 1923.
Il cioccolato è, nella sua forma originaria nonché attuale, il cioccolato fondente, un preparato di polvere di cacao, burro di cacao, vaniglia e zucchero. Per ottenere cioccolato al latte, agli stessi ingredienti si aggiunge del latte (o in polvere o condensato) mentre, per il cioccolato bianco, si integra egualmente il latte, ma non si impiega la polvere di cacao.

 

Fondente, al latte e bianco

Adesso, invece, spostiamoci sulle tipologie di cioccolato e l’impiego consigliato in funzione della preparazione. Regola sempre valida in cucina è: al di là dello specifico tipo, acquistare materie prime di qualità è la base per un grande risultato. Il cioccolato, come ingrediente principale per altre preparazioni, può essere usato nelle sue tre grandi categorie: fondente, latte, bianco.
Sono amante di quello fondente 98% e lo uso per uno dei miei cavalli di battaglia, una mousse al cioccolato fondete, affumicato e accompagnato da un caramello salato croccante.

L’Alchermes è un liquore italiano di colore rosso cremisi e veniva prodotto a Firenze già nel XV secolo, dove ancora oggi viene preparato, con l’antica ricetta, presso un emporio.

Tra i suoi ingredienti, oltre all’alcool etilico, zucchero, chiodi di garofano, cannella, acqua, cardamomo, acqua di rose e lamponi, c’è la cocciniglia. La cocciniglia è il colorante tipico, di colore rosso cremisi, e viene ricavato da un insetto della famiglia Coccoidea.

 

 

Attraverso una lunga e particolare lavorazione si ottiene l’acido carmico, da cui si otterrà il colorante. Un chilogrammo ha origine da circa centomila insetti. Il colorante siffatto, da sempre è stato destinato principalmente all’industria alimentare (E 120 è la sigla dell’additivo) e, in piccola misura, alla tintura dei tessuti. Ovviamente l’estrazione dell’acido carnico dagli insetti ha un costo molto elevato e pertanto, nel tempo, la cocciniglia è stata sostituita in modo importante da coloranti di origine sintetica (E 122, E 124, E 132).
Oltre che nell’alchermes, la cocciniglia è stata presente in molte bevande di colore rosso, come aperitivi, bitter e bevande gassate. Il nome cremisi e alchermes derivano dall’arabo qirmizi che significa prodotto da insetti.

 

dolci pasquali umbri

La ciaramicola

In molti dolci umbri…

La ciaramicola è il tipico dolce della provincia di Perugia, di colore rosso con glassa bianca, dove l’alchermes è utilizzato in maniera importante, così come per gli strufoli e le frappe, che vengono spruzzati con il rosso liquore. Non sono da meno l’arrocciata o rocciata, la zuppa inglese, il salame del re, la pizza di Pasqua dolce, i ravioli dolci con ricotta, le pesche dolci e le castagnole sono tipiche e tradizionali preparazioni di dolci umbri che prevedono l’uso dell’alchermes, che piaceva molto ai Medici e piace ancora a molti. D’ora in avanti, quando assaggerete il tipico liquore rosso cremisi o un dolce che preveda il suo utilizzo, vi sorgerà un dubbio: questo alchermes utilizza il colorante fatto con gli insetti o con gli additivi sintetici? Tra gli ingredienti potrebbe esserci scritto E 120… basterà leggere l’etichetta.

 


Ricetta tradizionale della ciaramicola

La tradizione vuole che il 6 gennaio sulla tavola degli umbri spunti fiera… la torta di Pasqua.

Dolci, carbone (per i più cattivi) e caramelle, ma non solo. Il 6 gennaio in Umbria si mangia anche la torta di Pasqua. Non può mancare sulle tavole – in particolare quelle perugine – perché l’Epifania è la prima Pasqua dell’anno e quindi va celebrata con il prodotto tipico della regione legato a questa ricorrenza. La torta – pizza nell’Umbria del sud, crescia a Gubbio – con il formaggio, oggi si trova facilmente in ogni periodo dell’anno, a differenza di come accadeva anticamente, quando era relegata a piatto del periodo pasquale o al giorno della Befana. Farcita, accompagnata dai salumi o semplicemente sola, soffice e resa più gustosa dal formaggio, è dunque immancabile anche il 6 gennaio.

Qui trovate la ricetta tradizionale.

 

prodotti tipici umbria

La prima Pasqua… la prima torta

La presenza in tavola della torta di Pasqua è legata alla celebrazione della prima Pasqua dell’anno che, per la religione cristiana, coincide con l’arrivo dei Magi il 6 gennaio; è una festività molto importante in quanto si ricorda il manifestarsi del Dio bambino. Nella chiesa cattolica, ortodossa e anglicana è una delle massime solennità dell’anno liturgico, come la Pasqua, il Natale e la Pentecoste.

Ma più famosa è la Befana, la vecchietta che a cavallo di una scopa scende dal camino portando in dono dolci, caramelle, frutta secca o carbone e aglio ai più cattivi. L’etimologia della parola Befana – corruzione lessicale di Epifania – deriva dal tardo latino epiphania, dal verbo greco, epifàino (che significa mi rendo manifesto) o dal sostantivo femminile epifàneia (manifestazione, apparizione, venuta, presenza divina). La sua storia è molto antica e legata (forse) a riti propiziatori pagani risalenti al X-VI secolo a.C., per favorire i cicli stagionali dell’agricoltura. Un’altra ipotesi collegherebbe la Befana con un’antica festa romana, che si svolgeva in inverno, in onore di Giano e Strenia – da cui deriva anche il termine strenna – e durante la quale si scambiavano regali.
Di certo c’è che l’Epifania… tutte le feste porta via!

«Ero un’anima in pena e non sapevo che fare della mia vita, poi è arrivato Dio e mi ha aperto il mondo social, come un vero miracolo».

Nei giorni scorsi ho avuto una (video)chiamata da Dio. Non è una cosa da tutti i giorni, ma ero pronta, mi ero persino truccata. Era più di un mese che non lo facevo! Dio, alias Alessandro Paolocci da Foligno, ha oltre un milione di follower tra Facebook, Twitter e Instagram e chi frequenta i social non può non conoscerlo. Creare questo profilo gli ha cambiato la vita ed è stata come una vera chiamata, un segno che gli ha aperto orizzonti e possibilità. La nostra chiacchierata – al limite tra il serio e l’ironico, tra il sacro e il profano – inizia con una mia incertezza che prontamente chiarisco: «Come la devo chiamare: Dio, Altissimo, Divino o Alessandro?», «Dio va benissimo». Avvertenza per il lettore: a volte risponderà Alessandro, a volte Dio. La differenza è molto sottile.

 

Alessandro Paolucci

Lei più che il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe è il Dio di Facebook, Twitter e Instagram: come si fa a diventare così popolari sui social?

Dopo aver ho creato il profilo social di Dio, ho visto che ci hanno provato anche altri – con altre figure religiose – ma non hanno avuto lo stesso ritorno di pubblico. Forse, a differenza di me hanno una vita e ci passano meno tempo, oppure hanno sbagliato il momento. Ho aperto il profilo Twitter nel 2011, Facebook 2013 e Instagram un anno dopo: erano gli anni del boom dei social e gli algoritmi erano più generosi, oggi non sarebbe così facile. Inoltre è stata una vera novità, ancora non esistevano profili simili.

Mi perdoni il gioco di parole: com’è nata l’idea di creare Dio?

Era il 2011 ed ero disoccupato. La realtà non andava benissimo, mentre sui social tutto era perfetto. Avevo visto che c’era il profilo Twitter del Papa, ovviamente era finto – ancora il Papa vero non aveva aperto il suo. Ho pensato, spariamola grossa e creiamo il profilo di Dio. A quel punto dovevo farmi seguire e farmi leggere, così mi sono messo a ricercare tutti i tweet che parlavano di Dio e sono andato a rispondere a tutti. Questa cosa, apparentemente scema, ha dato il via e nel giro di poche ore ho ricevuto tanti messaggi di gente esaltata perché gli aveva risposto Dio. (ride!) All’epoca non avevo capito il potenziale, ma era un gioco divertente e ho continuato a farlo.

Siamo oramai a Pasqua… come affronta questi giorni, anche in virtù della situazione che si sta vivendo?

La mia vita è cambiata poco, anche prima stavo sempre al computer e al telefono. Abbiamo superato un mese e la situazione comincia un po’ a pesare.

Vuol dire qualcosa a tutti i suoi fedeli?

La Pasqua quest’anno si fa in casa, non andate a trovare i nonni, compratevi l’uovo di Pasqua da soli e la benedizione va benissimo anche in streaming. Il Papa e le chiese si sono organizzati per trasmettere le messe, non serve riaprire le chiese: sono oltre 2.000 anni che la preghiera viene fatta a distanza e ha sempre funzionato bene.

Nel mondo social le fake news sono il male di questo periodo…

È un periodo meraviglioso, ogni giorno ce n’è una. Non gli si sta dietro. In questi giorni va di moda quella sul 5G e non sono gli italiani quelli che più ci stanno cascando, ma gli inglesi che hanno iniziato a bruciare le antenne 5G. I complottisti inglesi sono più avanti di quelli italiani, non è da sottovalutare.

 

Io che ascolto la parola di Dio!

Alessandro Paolucci è la mano materiale di Dio in qualche modo: chi ha scelto chi?

Alessandro è l’incarnazione. Le religioni sono così, ogni tanto le divinità si reincarnano in un corpo. Certo potevano scegliere meglio. Comunque, è stato lui a scegliere me, io nella vita volevo fare l’insegnante e invece sono diventato Dio. Capita! (ride!)

È laureato in Filosofia, forse la scelta non è stata poi così casuale?

Dopo aver studiato per anni i pensieri su come nei secoli veniva immaginato Dio, in effetti si è più preparati. Dopotutto Dio, nella scelta delle risorse umane è sempre stato bravo.

Alessandro è umbro: anche la scelta dell’Umbria non è casuale?

L’Umbria è una regione santa. Prendere uno di Roma sarebbe stato banale, quindi Dio ha pensato: Prendiamo uno di Foligno, che non c’entra nulla… nemmeno di Assisi (anche in questo caso sarebbe stato banale), ma di Foligno. Prevedo poi un boom turistico ad Assisi, in quel caso Foligno verrà spianata e ne diventerà il parcheggio.

Cosa farebbe Dio se potesse fare un miracolo per l’Umbria?

Ci porterei il mare.

Dalle Marche o dalla Toscana?

Dalle Marche, che verranno completamente sommerse. A qualcosa, purtroppo, bisogna rinunciare. Rinunciamo alle Marche.

Da poco è uscito il suo libro Cercasi Dio, punta a raggiungere le copie che ha venduto col primo, quello che tutti noi – più o meno – conosciamo?

È presto per dirlo, è uscito da pochi mesi.

Di cosa parla?

È un romanzo, un po’ autobiografico, un po’ inventato. La vita vera è poco avventurosa, quindi l’ho farcita con la fantasia. È una storia dedicata ai giovani nati negli anni Ottanta, quelli che sono stati cresciuti con l’idea che sarebbe andato tutto bene e invece no, è andata diversamente. Non è che abbiamo avuto una vita difficile, ma ci avevano talmente illuso che la disillusione è stata pesante e siamo ancora provati. Io stesso devo dire che, in un periodo difficile della mia vita, Dio mi ha salvato. Aprire questo profilo mi ha aperto una strada che mai avrei immaginato. Tutto questo viene raccontato nel libro. C’è anche mia mamma, che è una coprotagonista involontaria.

Quindi possiamo dire che il tocco divino c’è stato davvero…

Sì. È stata un’esperienza mistica, tipo San Paolo. Ero un’anima in pena e non sapevo che fare della mia vita, poi è arrivato Dio e mi ha aperto il mondo social, come un vero miracolo.

In concreto cosa è successo?

Ad esempio, mi contattano aziende per tenere corsi sui social network, perché vedono che la mia pagina cresce, ha successo e quindi vogliono sapere i tutti segreti. Mi pagano per questo. Ho lavorato a Milano in aziende dove non sono entrato per il mio curriculum, ma perché ero Dio. Volevano Dio in azienda. Una cosa incredibile!

Alessandro è credente?

Credo in me stesso.

Per finire faccia un augurio ai suoi fedeli… e anche a chi non è proprio un suo fan.

Più che un augurio ci vuole un incoraggiamento. Gli economisti dicono che ci sarà la ripresa dopo il grande crollo. È sempre stato così e così sarà. Bisogna però fare dei cambiamenti, basta essere solo più igienici e più responsabili dei nostri germi. Non è difficile, sono cose che la mamma ci insegna a 5 anni… ce la possiamo fare!

Ingredienti per una torta

  • 500 g di farina
  • 5 uova
  • 200 g di formaggio misto, possibilmente pecorino e romanesco, di cui metà grattugiato e metà a pezzetti
  • 50 g di strutto
  • 50 g di olio extravergine d’oliva
  • 60 g di lievito di birra
  • 7-8 grani di pepe
  • Sale
  • Olio o strutto per ungere la tortiera

 

 

Procedimento

Ponete i grani di pepe in un pentolino assieme a un po’ d’acqua e fate bollire per un quarto d’ora, quindi lasciate raffreddare e filtrate. Lavorate assieme la farina, le uova, lo strutto, l’olio, i formaggi, l’acqua aromatizzata al pepe, un bel pizzico di sale e il lievito, sciolto in poca acqua tiepida. Ungete una tortiera alta, con la base più stretta della parte superiore e riempitela a metà con l’impasto. Fate lievitare fino a quando la torta non avrà raggiunto i bordi della tortiera (sarà necessaria all’incirca un’ora – un’ora e mezza) quindi infornate a 160° circa. Fate cuocere per circa un’ora, alzando a 180° verso fine cottura. Sfornate e lasciate raffreddare prima di gustare la torta, che si conserva per molti giorni.

 

 

Questa versione della torta di Pasqua con il formaggio, pur essendo moderna perché prevede la cottura nel forno, rispetta negli ingredienti e nella forma la torta tradizionale. La devo alla signora Carla Onorini di Magione, che tra l’altro, invece di mettere il pepe in grani previsto dalla ricetta originale e non a tutti gradito, aromatizzava la torta con acqua bollita al pepe. La torta – pizza nell’Umbria del sud, crescia a Gubbio – con il formaggio, oggi si trova tutto l’anno nelle panetterie, ma un tempo compariva sulle mense degli umbri solo nel periodo pasquale e anche il 6 gennaio, giorno di Pasqua Epifania, che per la tradizione popolare è la prima Pasqua dell’anno.

 


Per gentile concessione di Calzetti&Mariucci editore.

Mi sono resa conto che a Perugia le ciambelle vanno alla grande e che si assomigliano un po’ tutte

Durante il periodo pasquale non c’è panetteria, bar o pasticceria dove non sbocci la ciaramicola, il ciambellone umbro dal caratteristico colore rosa ricoperto di meringa e codette colorate.
Un dolce delicato, sebbene imporporato dall’alcolico alchermes, che la tradizione vuole legato ai cinque rioni del capoluogo perugino, ma che la storia, con un documento del 1430, identifica come un prodotto da forno che il camerlengo di Gubbio aveva voluto offrire ai cittadini il 15 maggio, in occasione dei festeggiamenti al patrono Sant’Ubaldo.

Livrea perugina

Certo è che, guardando lo stemma di Perugia, il binomio rosso-bianco che la ciaramicola cerca di replicare sembra essere un vero e proprio omaggio alla città. Il bianco, simbolo di rinascita, è screziato di quelli che il dialetto chiama cecini, dei confetti colorati di cui il verde simboleggia i giardini che caratterizzavano il rione Porta Eburnea, il blu Porta Santa Susanna che guarda al lago Trasimeno, il giallo il grano proveniente da le contrade oltre Porta Sant’Angelo, il rosso la legna da ardere che arrivava dai boschi oltre Porta San Pietro e il bianco i marmi e i travertini che nobilitano il rione di Porta Sole.
I cinque rioni, in alcune varianti, sono presenti anche sotto forma di pinnacoli di meringa.

 

La variante con la croce e i pinnacoli

 

In altre, invece, a differenziare il dolce è una croce posta in mezzo alla ciambella, che per alcuni rappresenterebbe Piazza IV Novembre dove campeggia la Fontana Maggiore, mentre, per altri, sarebbe un semplice simbolo benaugurale.
Forse è per questo che le fanciulle in età da marito erano solite regalare la ciaramicola ai propri amati: per prospettare loro un’unione feconda.
Terribilmente simile al Torcolo di San Costanzo, non vi pare?

Un dolce, tanti spunti

 

Ma se l’origine della ciaramicola vi sembra confusa, aspettate di sentire quella del nome. Per alcuni, il nome deriva da ciara, volgarizzazione del latino clara (chiara) che verosimilmente fa riferimento all’albume fatto rassodare sulla superficie del dolce ancora caldo. Mica, invece, richiama la parte solida del dolce, il pane.
Di segno opposto è la teoria che vuole la derivazione da ciarapica, nome dialettale della cinciallegra che, con il suo piumaggio colorato, sarebbe uno dei primi segnali dell’arrivo della primavera. Per altri il nome della ciambella deriverebbe invece da ciaramella, un neologismo, sempre dialettale, usato per indicare la forma circolare del dolce.

QUI trovi la ricetta di Rita Boini.

INGREDIENTI:
  • 500 g di farina
  • 200 g di zucchero
  • 120 g di strutto
  • 3  uova
  • 50 g di alchermes
  • 1 scorzetta di buccia d’arancia non trattata (solo la parte arancione) grattuggiata
  • poco latte
  • burro per ungere la tortiera
  • confettini colorati
  • 1 cartina di lievito per dolci, dose da ½ Kg
  • burro per ungere lo stampo. 

  

PREPARAZIONE

Lavorate assieme la farina, lo zucchero, lo strutto 2 uova e un tuorlo, l’archemes, la buccia d’arancia ed un po’ di latte, unite al lievito e versate in uno stampo unto di burro, lasciando da parte un po’ di impasto e dando la forma di  un torcolo. Ricavate dalla pasta rimasta due bastoncini e disponeteli a forma di croce attraverso il buco della ciaramicola. Infornate a 180 °C e fate cuocere per circa 40 minuti. Togliete dal fuoco, ponete sulla superficie della ciaramicola la chiara dell’uovo rimasta montata, spolverizzate con i confettini ed infornate a fuoco caldo, ma spento, perché la chiara si rapprenda.

 

La ciaramicola con l’alchermes era il dolce tipico di Pasqua nel perugino e si usava prepararne in abbondanza per farne dono agli amici. 

 

Per gentile concessione di Calzetti-Mariucci Editori