«Insegnare ai bambini il dialetto è affondarne le radici nell’humus della propria stirpe e comunità». (Cesare Marchi)
Il tour dei dialetti umbri – in questa seconda puntata – punta dritto a nord, a Gubbio. Nella terra dei ceri, del picchiarume e del fànfeno; dove lo stesso dialetto, vista la vastità del comune, cambia da zona a zona, con piccole sfumature che i veri eugubini sanno riconoscere.
Simone Zaccagni
«Se uno vive a Branca o a Mocaiana si capisce, la parlata è un po’ diversa: a Branca pronunciano la C con il suono SCI, invece verso Mocaiana, soprattutto le persone più anziane, sostituiscono la A con la E (gimo a chesa, per dire andiamo a casa); mentre chi abita nella zona di Burano ha influenze marchigiane. Il dialetto eugubino come tutti i dialetti ha una sua dignità: parlarlo non deve essere di nicchia o relegato alle persone anziane o poco istruite, sta tornando di moda ed è giusto così. Moltissime parole dialettali hanno origine latina e vantano una lunga storia» spiega Simone Zaccagni, scrittore, insegnante, giornalista e appassionato di dialetti (ha pure creato un dizionario di eugubino-italiano: Dopo lo Zanichelli, Zingarelli, sempre con la Z… è arrivato lo Zaccagni!) che ci guiderà tra i segreti dell’eugubino. Un dialetto che, come tutti i dialetti umbri, è inimitabile e poco riconoscibile da chi non vive nella regione. Un dialetto che condivide molte parole con il marchigiano e il romagnolo e che ha subito contaminazioni dallo Stato Pontificio e dal Ducato di Urbino.
«Per parlare l’eugubino devi essere nato a Gubbio. Questa è una certezza. Ma come tutti i dialetti umbri anche l’eugubino ha alla base l’italiano, che viene colorito e farcito con parole dialettali. Non è una vera e propria lingua come può essere il siciliano, il veneto o il napoletano (per citarne alcuni): loro passano dal dialetto all’italiano facendo un vero e proprio switch e questo non gli fa commettere errori sull’individuare una parola dialettale o italiana. Noi umbri invece cadiamo in questo tranello: da ragazzino mi capitò di chiedere i succini (prugne) a un fruttivendolo marchigiano, ovviamente non capì. Errori del genere sono molto frequenti nel nostro caso, non è facile… il dubbio spesso viene! Tipico nostro è il troncamento delle parole che appare evidente nella frase: Ma me si di’ i fij, que li fi’ a fa’? (Mi sai dire perché continui a fare bambini)» spiega Zaccagni.
Gubbio, Palazzo dei Consoli. Foto di Enrico Mezzasoma
Picchiarume, tausana e… tanto buligame!
Una parola che non manca mai nelle chiacchiere eugubine è picchiarume. Picchiarume vuol dire tutto, dipende dal contesto, ha diversi significati: dal fare un lavoretto in casa, al piccolo impegno (lasceme gì, chè c’ho da fa ‘n picchiarume, lasciami andare che devo fare un lavoretto) fino all’avere un flirt con una ragazza (c’ho ‘n picchiarume con una!). Si dicono spesso anche frego/a (ragazzo/a) o buligame (confusione, caos): forzando l’etimologia, potremmo farlo derivare dall’inglese bowling game, per il rumore che c’è nei luoghi dove si pratica questo sport.
Immancabili per le vie di Gubbio anche vocaboli come tausana, noiosa esposizione orale volta a ottenere qualcosa, ma anche un rumore continuo (ma què ‘sta tausana? Cos’è questa noia?), furattola (salvadanaio), che viene usata anche in relazione agli occhi semi chiusi: Te c’hi gl’occhi a furattola, per dire che hai uno sguardo sonnolento; o fànfeno, una persona furba e sorniona (sete certi fànfeni!).
L’alzata dei Ceri. Foto by URP di Gubbio
Dialetto e ceri
Ma a Gubbio, dialetto e ceri sono legati a doppio filo. I ceri hanno una terminologia tecnica molto specifica che si unisce e ispira parole e modi di dire dialettali: «Ta quello glie dà du stradoni deriva dalla corsa dei ceri: infatti si dice quando un cero sale bene sul monte e distanzia di molto l’altro, appunto di due stradoni. Ritroviamo questa frase anche nella parlata comune per dire: c’è una distanza abissale,è molto piùbravo. Questo è un modo di dire talmente radicato a Gubbio che un mio amico in discoteca a Palinuro per corteggiare una ragazza le disse: Te, ta la cubista glie di’ du stradoni! Lui voleva farle un complimento, lei ovviamente non capì. Un altro modo di dire molto comune legato ai ceri è: fatte sto pezzo a capodieci (guarda che bella cosa che ti aspetta). Indica la parte migliore, qualcosa di prelibato, perché nella corsa il Capodieci è il ruolo di massima autorità. È una terminologia ceraiola che usiamo anche nella vita di tutti i giorni quando vogliamo offrire qualcosa di buono, di pregiato. Narra la leggenda che qualche sposa l’abbia pronunciata al marito, che finalmente poteva avere la giusta ricompensa di tanta attesa, nella prima notte di nozze. Invece, quando uno sta troppo vicino a una persona si dice: que me fi’ ‘l braccere? (non mi stare troppo appiccicato). Il braccere è colui che dà una mano a chi porta il cero, corre appunto abbracciato a lui e lo aiuta a scaricare il peso. Dovete sapere che la vita degli eugubini è legata ai ceri, fin dalla prima infanzia. I bambini a Gubbio dicono: giochiamo ai ceri? che vuol dire prendere un bastone, una scopa, un ombrello metterselo sulle spalle e ricorrersi. A Gubbio non giochiamo a chiapparella… giochiamo ai ceri! E se questo viene detto a un bambino non eugubino, lui sicuramente non capirà» conclude Simone Zaccagni.
Il dizionario eugubino-italiano lo trovate presso cartolibreria Pierini e edicola Shangai di Gubbio.
Fate un trito di aglio e rosmarino, cospargetevi le costolette, salatele, ungetele con l’olio e fatele marinare per almeno 12 ore prima di cuocerle alla griglia.
Questa è una ricetta dell’Umbria del sud, dove si usava principalmente la pecora. A Gubbio al posto del rosmarino usavano la maggiorana e, a volte, le costolette venivano ripassate in padella con sugo di pomodoro. In alcune zone del perugino si facevano le costolette di castrato in umido, lasciando insaporire con aglio, olio e rosmarino; si rosolavano le costolette, si irroravano di aceto, si salavano, pepevano e portavano a cottura con il pomodoro.
Sbattete lo zucchero e le uova, unite, lavorando con un cucchiaio di legno, la farina e, in ultimo, il lievito. Versate in una tortiera leggermente unta, infornate a 180°e fate cuocere per 35-40 minuti. Lasciate raffreddare e tagliate a fette sottili e della misura del piatto in cui sarà posto il dolce. Lavorate bene la ricotta con lo zucchero a velo, unite il cioccolato, le mandorle (che avrete fatto caramellare in un tegamino con un po’ di zucchero), i canditi, l’uva secca, la vanillina e il maraschino. Spruzzate le fette di torta con l’alchermes e ponete nel piatto uno strato di torta, uno di farcia e così via fino ad esaurimento degli ingredienti. L’ultimo strato dovrà essere di torta. Coprite con un piatto e sopra di esso mettete un peso. Lasciate il dolce così, in frigorifero, per mezza giornata almeno.
Questo dolce veniva servito nei pranzi di matrimonio dei contadini ricchi di Gubbio. L’uso è durato fino a metà degli anni Cinquanta, ma, anche se in altre occasioni, in alcune famiglie continuano a prepararlo. Famosi erano i dolci di ricotta della signora Rina Secchi Notari, che veniva chiamata a preparare i pranzi di nozze e che mi ha svelato la sua ricetta personale. Il dolce di ricotta – è evidente simbolismo del bianco della ricotta – già nell’Ottocento era una delle portate del pranzo di matrimonio dei contadini della vicina Romagna.
Un importante traguardo è stato raggiunto da alcuni prodotti agricoli e agroalimentari umbri, che sono stati inseriti nel Registro Regionale delle Risorse Genetiche Autoctone di Interesse Agrario, grazie all’interessamento del 3A-PTA, il Parco Tecnologico Agroalimentare dell’Umbria, insieme alla sintonica e determinata perseveranza di alcuni avveduti operatori del mondo dell’agricoltura e della pesca.
Olivo Ornellona
I prodotti agricoli e agroalimentari di una volta possono rappresentare un’importante opportunità per la filiera delle aziende coinvolte a livello di produzione, trasformazione, commercializzazione e somministrazione. Nel processo sono ovviamente coinvolti tutti coloro i quali ne fanno parte e con particolari ricadute nei settori: agricoltura, pesca, commercio, artigianato, cultura, enogastronomia e turismo. È fondamentale, per le specie iscritte, aver ricevuto questo ambito riconoscimento, in quanto attorno a questi prodotti certificati si possono costruire strategie di business e di marketing, innescando importanti implicazioni economiche per tutti quelli che partecipano al percorso di valorizzazione e commerciale della singola eccellenza, che come una cassa di risonanza può ampliare l’attrattività e la promozione dell’areale sotteso, al fine di cogliere una maggiore opportunità anche economica all’interno dei contesti coinvolti.
I prodotti agricoli e agroalimentari che hanno una presenza certa e continuativa su un territorio da più di 50 anni potrebbero essere definiti come Risorse Genetiche Autoctone di Interesse Agrario e iscrivibili al Registro Regionale.
L’iscrizione avviene a seguito di un’approfondita analisi del dossier presentato, dove i membri del Comitato Tecnico-scientifico esprimono il loro parere per l’inserimento nell’agognato registro.
Aglione
A oggi, nel Registro Regionale Umbro, sono iscritte 69 risorse genetiche tra varietà erbacee, arboree e animali. È evidente che un prodotto iscritto al registro certifica un passo fondamentale per la sua tutela e la sua valorizzazione e ha immediati vantaggi sugli operatori che coltivano o allevano o commercializzano la specifica risorsa genetica che, altresì, ha la ghiotta possibilità di entrare a far parte della rete di Conservazione e Sicurezza regionale e della Rete Nazionale della Biodiversità.
Recentemente, il Registro Regionale Umbro, si è arricchito di sei risorse genetiche:
L’Aglione, da alcuni chiamato anche l’aglio del bacio, per la delicatezza del sapore e la morbidezza del profumo, che è una specie diversa dall’aglio comune. È presente da più di 50 anni nella Val di Chiana sia umbra (detta romana) sia toscana, dove gli agricoltori hanno tramandato nei secoli la sua coltivazione e le casalinghe le ricette (es. umbricelli o pici all’aglione). In questo caso l’Aglione Umbro è stato iscritto qualche giorno prima di quello toscano e ovviamente ciascuno nei rispettivi registri regionali.
Il Luccio del Trasimeno: specie a forte rischio di erosione in tutta Italia per l’inquinamento genetico dovuto all’immissione di altre specie, che invece, grazie all’attività del Centro Ittiogenico e della Cooperativa dei Pescatori, al Trasimeno ha mantenuto, unico caso in Italia, le sue caratteristiche originarie.
Il Cardo Gobbo della Media Valle del Tevere: varietà locale conservata da un agricoltore di Papiano, residuo di una vecchia, molto apprezzata, varietà tipica della Media Valle del Tevere.
L’Olivo Limona, ad Assisi chiamata Cimignolo: varietà presente nell’Umbria centro-occidentale e centro-settentrionale con esemplari di età ragguardevole, coltivata sporadicamente anche in alcuni areali di regioni limitrofe.
L’Olivo Pocciolo: presente in pochi vecchi esemplari nella fascia olivata Assisi-Spoleto, dove ha dimostrato una notevole adattabilità a difficili condizioni di clima e terreno.
L’Olivo Ornellona: varietà presente con soli due esemplari molto vecchi nel comune di Narni, dalle olive piuttosto grandi che danno un olio di qualità.
Luccio del Trasimeno
Il 3A-PTA
Il 3A-PTA (Parco Tecnologico Agroalimentare) della Regione Umbria è stato il fulcro sviluppatore delle 6 new entry nel registro regionale, come peraltro per tutte le altre risorse genetiche regionali. Il 3A-PTA, opera da più di due decenni per garantire il miglioramento e il mantenimento della qualità dei prodotti agricoli e agroalimentari, tramite certificazioni per la sicurezza e la tutela del consumatore, la formazione, la ricerca a sostegno delle imprese, i progetti internazionali, l’informazione e il marketing; questi sono alcuni dei servizi e delle attività che fornisce l’Ente regionale guidato dal dott. Marcello Serafini, Amministratore Unico del 3A-PTA con sede a Pantalla (PG).
Tra le persone del 3A-PTA, fautrici di questi importanti ingressi nel registro regionale, ricordiamo il dott. Luciano Concezzi, responsabile dell’Area Innovazione e Ricerca e i suoi collaboratori, il dott. Mauro Gramaccia, il dott. Marco Caffarelli, la dott.ssa Livia Polegri e la dott.ssa Marta Giampiccolo. Oltre alle eccellenze agricole e agroalimentari umbre conosciute e apprezzate in tutto il mondo, si tenga presente che il 3A-PTA della Regione Umbria viene annoverato tra gli Enti istituzionali di indiscusso prestigio e di notevole vanto regionale.
Lo sapevi che in Umbria ci sono prove di come si sono estinti i dinosauri?
Conosciamo tutti l’armonica bellezza della cittadina medievale di Gubbio, accoccolata sulle pendici del Monte Ingino e proiettata sulla valle del Tevere, dove natura e storia si mescolano in un equilibrio perfetto. Non è un caso che proprio Gubbio rappresenti una delle mete più attrattive dell’Umbria. I motivi per visitare Gubbio e la sua montagna sono molteplici, molti alla luce del sole, altri celati dal tempo, in alcuni casi molto tempo, addirittura milioni di anni…
Uscendo dal centro storico di Gubbio si risale la Gola del Bottaccione, una profonda valle fluviale scavata dal torrente Camignano tra il monte Ingino e il monte Foce (o Calvo), attraverso la strada che collega Gubbio con Scheggia.
La gola è ricca di importanti testimonianze storico-artistiche e il suo nome deriva dal termine bottaccio, il bacino di raccolta delle acque che serviva ad alimentare i numerosi mulini presenti nella valle, dove ancora oggi è possibile osservare l’antico acquedotto risalente al Medioevo eugubino.
Ma la Gola del Bottaccione è anche un luogo di particolare interesse scientifico, in quanto, negli anni Settanta del secolo scorso, il geologo Walter Alvarez e il padre Luis Alvarez, premio Nobel per la fisica, fecero un’importante scoperta connessa con l’estinzione dei dinosauri.
Geosito della Gola del Bottaccione, foto di Cristiano Spilinga
Vi chiederete: e cosa c’entra la Gola del Bottaccione con i dinosauri?
Walter Alvarez era a Gubbio per studiare le rocce appenniniche che, lungo la gola, presentano una successione di ben 400 metri in cui è possibile ricostruire 50 milioni di anni di storia geologica.
Studiando le rocce, il geologo scoprì che tra gli strati ve ne era uno di circa 1 cm di spessore particolarmente ricco in argilla e completamente privo di fossili; non immaginatevi grandi fossili, stiamo parlando dei gusci di piccoli organismi marini denominati Foraminiferi che, in quello strato, erano stranamente assenti.
La cosa ancora più strana è che i Foraminiferi presenti nello strato più antico, sotto quello argilloso, erano completamente diversi da quelli presenti nello strato superiore. Ma allora, che significato aveva quello straterello di argilla noto come limite K/T?
La denominazione limite K/T, oggi per maggiore correttezza definito limite K/Pg (Cretaceo-Paleogene), deriva dal fatto che quel sottile strato argilloso separa la roccia del Cretaceo (K) da quella del Terziario (T) o meglio del Paleogene, appunto.
Nello stesso periodo in cui fu scoperto a Gubbio, tale limite geologico fu rilevato anche nel sudest della Spagna dal geologo olandese Jan Smit. Ulteriori studi su quelle rocce consentirono ai ricercatori di rilevare all’interno dello strato anomalo una concentrazione particolarmente alta di iridio, un metallo molto raro sulla Terra ma presente in altri corpi celesti.
Nel 1979, dopo varie ipotesi, gli Alvarez azzardarono che l’anomala presenza di iridio potesse essere messa in relazione con l’impatto che un enorme meteorite avrebbe avuto con la terra circa 66 milioni di anni fa. Tale impatto avrebbe alterato completamente la composizione atmosferica portando a una repentina variazione climatica culminata con l’estinzione di molte forme di vita, tra cui i dinosauri.
Luis Alvarez morì nel 1988 ma gli studi proseguirono e, nei primi anni Novanta, l’analisi del limite K/Pg nei sedimenti di un fiume texano che sfocia nel Golfo del Messico, evidenziò le tracce di un gigantesco tsunami databile a 66 milioni di anni fa.
Si continuò a indagare fino a che non fu identificata un’enorme struttura subcircolare tra 180 e 300 km di diametro nella penisola dello Yucatan. Andando ad analizzare le rocce in quell’area, si scoprì che molte risultavano fuse da un evento datato circa 66 milioni di anni fa e contenevano al loro interno grandi quantità di iridio.
A quel punto tutte le evidenze andavano nella stessa direzione: 66 milioni di anni fa un gigantescometeorite impattò con il nostro pianeta sconvolgendo completamente il clima, determinando così quella che viene definita la quinta estinzione di massa.
Quel centimetro di argilla si era depositato nei 10000 anni successivi all’impatto in un mondo completamente nuovo, in cui i grandi rettili avrebbero lasciato spazio ai piccoli mammiferi. Questa non è l’unica teoria sull’estinzione dei dinosauri, ma certamente una delle più affascinanti… e pensare che tutto è nato dallo studio di quel sottile strato di argilla della Gola del Bottaccione.
BIBLIOGRAFIA
Walter Alvarez, Le Montagne di San Francesco. Perché nel cuore dell’Italia si nascondono i segreti della Terra Fazi Editore, 2010.
«Villard de Honnecourt vi saluta…». Nel nostro XXI secolo possiamo apprezzare un simile esordio: non è certo quello che troveremmo all’inizio di un manuale di tecnologia applicata e neppure del resto in qualsiasi altro manuale.
Di colpo, con questo saluto, entriamo in un altro mondo, quello del XIII secolo con tutto il suo splendore. Un secolo prima, l’umile monacoTeofilo apriva anch’egli, con un saluto, il suo Trattato di arti diverse: «Dio Onnipotente sa che non ho scritto le mie osservazioni né per amore di una lode umana, né per il desiderio di una ricompensa temporale, che non ho nascosto nulla di prezioso o di raro per malizia o gelosia, che non ho passato sotto silenzio nessuna cosa, riservandola per me solo, ma che per accrescere l’onore e la gloria del suo nome ho voluto venire incontro alle necessità e aiutare il progresso di un gran numero di uomini». Villard è più sobrio e più efficace al tempo stesso, ma lo spirito è il medesimo: «Villard de Honnecourt vi saluta, e prega tutti coloro che lavoreranno con gli strumenti che troveranno in questo libro, di pregare per la sua anima e di ricordarsi di lui, perché in questo libro si può trovare grande aiuto per la saldezza della muratura e per gli strumenti di carpenteria; vi troverete anche il modo per rappresentare le figure, i disegni, secondo quanto comanda e insegna l’arte della geometria». «Le treizième siècle est le temps où triomphe le nombre, où le quantitatif s’impose. Ratio en latin c’est raison mais aussi compte, calcul. Des trois grand domaines où le Moyen Age affirme sa créativité le moulin et ses applications, le textile et sens instruments, le batiment et ses machines, c’est dans ce dernier que se situent les dessins de Villard de Honnecourt». (Jacques Le Goff). «Les moulins hydrauliques destinés à different usages-moudre le grain, fouler le tissu, marteler le métal, etc.- existaient déjà du tems de Villard. Ma les moulins actionnant des scies n’avoir été mis au point qu’au cours du XIII siècle e n’ ètre devenus opèrationnels qu’au cours de la deuxième moitié de ce siècle. Le scie hidraulique, dessinèe par Villard de Honnecourt, qui peut ètre datèe de la première moitiè du XIII siècle, presente donc un interét particulier parce que cela semble etre la première raprésentazion d’une telle machine». (Roland Bechmann).
Il disegno della sega idraulica di Villard de Honnecourt
Un’invenzione fondamentale
L’energia idraulica ha avuto nel Medioevo la stessa importanza del vapore nel XIX secolo e del petrolio nel XX. Veniva utilizzata al massimo per meccanizzare tutta una serie di operazioni: vi si macinava il grano, vi si setacciava la farina, vi si follava il panno, vi si conciavano le pelli e vi si forgiava il ferro grazie all’albero a camme che Villard ha rappresentato nel suo disegno. La prima menzione medievale di una sega idraulica si trova in un documento normanno del 1204. Ma la prima raffigurazione è quella di Villard.
Sotto il suo disegno Villard scrive: «In questo modo si costruisce una sega che sega da sola». La sega meccanica è la prima macchinaautomatica in due tempi: al movimento circolare delle ruote, che dà luogo a un moto alternativo capace di segare, s’aggiunge un avanzamento automatico del legno verso la sega. Lassus descrive così il suo meccanismo: «Un ruscello, le cui onde sono indicate in alto a sinistra, fa muovere una ruota a pale oblique attorno ad un asse che porta una seconda ruota dentata e quattro camme. La ruota dentata fa avanzare il tronco da segare, tenuto in posizione da quattro guide che gli impediscono di deviare. Le camme poggiano su uno dei bracci articolati fissati alla parte inferiore della sega verticale, la cui parte superiore è fissata a sua volta all’estremità di una pertica flessibile. Appoggiandosi sul braccio dell’articolazione, la camma fa scendere la sega, che piega la pertica e comincia a risalire in virtù della flessibilità di quest’ultima, dal momento in cui la camma ha esaurito la sua azione».
Le corporazioni umbre
Nel 2001 la Gaita Santa Maria, nella ricostruzione delle antiche attività produttive, ha riprodotto tutte le fasi lavorative dell’Ars magistrorum lignaminis (Arte dei legnaioli). Sebbene l’ordine gerarchico la ponesse negli ultimi posti delle Arti minori, l’Arte dei legnaioli era tutt’altro che di trascurabile importanza economica. I suoi iscritti, pur non essendo eccessivamente numerosi rispetto a quelli delle altre corporazioni, erano pur sempre molto importanti per la vita della città. Infatti, oltre a partecipare alla costruzione degli edifici, ne rendevano abitabili gli interni con mobili e masserizie. A Firenze, già dal XIII secolo, erano suddivisi in quattro membra, secondo il particolare lavoro eseguito e cioè, come affermava lo statuto (1342):
facienti e vendenti botti, tina e bigonce
facienti e vendenti cofani, forzieri e casse
altri maestri purché non siano segatori o bobulici (conduttori di carri trainati da buoi)
segatori
A Gubbio, nello Statutum Comunis et Populi, Civitatis, Comitatus et Districtus Eugubii la Rubrica 53 del 1° libro, elenca le Arti, tra cui l’Arte dei Falegnami, ne conferma la legalità associativa, ne approva i loro Brevi o Matricole o Statuti (1334): cioè le raccolte di norme di etica professionale miste a disposizioni di carattere protezionistico per l’associazione o a disposizioni preventive atte ad evitare la concorrenza fra soci. In essi si scrive che il legname ridotto in tavole dai segatori raggiungeva i vari specialisti dell’Arte, tramite la collaborazione dei trasportatori e cioè:
i bottai che facevano le botti, i tini, le bigonce
i carpentieri che facevano i travetti, vergoli, impalcature
i bastari che facevano le selle, i basti
i carradori che facevano i carri, barrocci, ruote
i balestrari che facevano balestre
i tornitori che tornivano paletti per una infinità di usi civili, militari, religiosi.
Vi erano poi altre categorie di lavoratori che esercitavano la parte più nobile dell’Arte. Erano coloro che esercitavano L’Arte della scultura lignea, dell’intaglio, dell’intarsio, della pittura del legno, dei mobili. A Todi, già dal 1282, viene ricondotto il primo elenco delle sedici corporazioni o Università con i nomi di ognuna di esse e dei consoli loro rappresentanti e tra esse i magistri lignaminis (maestri del legno e carpentieri): a essa vi facevano parte non solo il semplice artigiano, ma anche il disegnatore e il realizzatore di mobili e attrezzeria, l’intagliatore e l’intarsiatore, il carpentiere. In questa specifica attività gli si richiedevano conoscenze particolari di ingegneria e matematica, nozioni sulla distribuzione dei pesi e dei carichi indispensabili per innalzare le ardite impalcature necessarie a costruire gli edifici pubblici e religiosi della fine del Duecento. A Foligno, tra le ventisette corporazioni medievali, era presente anche quella del Legname. Lo statuto dell’Arte (1404) riguardava tutti i lavoratori del legno, tutti coloro che, nelle diverse specializzazioni, usavano questa materia prima per produrre manufatti di qualsiasi genere. È il tempo di carpentieri, tornitori, begonzari, zoccholari, carratari, bastari, fabbricatori di molini e di archi… artigiani che immettono sul mercato oggetti da destinare ora agli uomini, ora agli animali. A Perugia fin dal 1291 è documentata la presenza dell’Ars magistri lignaminis et lapidum. L’Arte, i cui statuti risalgono al 1385 comprendeva scalpellini, falegnami e carpentieri, categorie che intervenivano congiuntamente nel campo dell’edilizia religiosa e civile della città. La ricchezza della corporazione è testimoniata dall’entità delle contribuzioni imposte dal Comune; la frequente presenza dei suoi iscritti nel Consiglio priorale riflette il ruolo importante da essa rivestito nel contesto cittadino. A Bevagna, nei Libri Statutorum Antique Terre Mevanee sono menzionati i magistri lignaminis etlapidum. La loro importanza nella Bevagna medievale era indubbiamente notevole in quanto si prevedeva l’intervento del podestà qualora il loro lavoro non fosse adeguatamente retribuito e che la difesa dei loro interessi, in eventuali cause, fosse assunta dallo stesso Comune. (CXXXII. De mercede magistrorum lignaminis et lapidum cum irent ad aliquam executionem faciendum). «Si aliquo tempore magistri lapidum vel vignorum ad executionem aliquam faciendam contra aliqua malefactorem, potestas faciat eis satisfieri pro eorum labore de bonis illius malefactoris vel de bonis comunis, dum tamen illa solutio fiat per camerarium comunis et quod dicti magistri pro predictis in qualibet curia defendantur per comune Mevanee».
La sega idraulica
La sega idraulica di Villard nel Mercato delle Gaite
Sulla base di tali conoscenze storiche, nel ricostruire l’Arte dei legnaioli e l’Arte dei maestri del legname e della pietra, la Gaita decise di ricostruire la sega idraulica disegnata da Villard di Honnecourt nel suo taccuino. Il taccuino scritto da Villard e risalente al XIII secolo è il primo esempio di trattato di ingegneria e il disegno della sega ad azionamento idraulico per ricavare tavole dai tronchi d’albero è uno dei disegni più interessanti. La progettazione e la sua realizzazione hanno richiesto tempo e fatica, ma il risultato ottenuto ripaga delle difficoltà incontrate. La macchina viene mossa da una ruota ad acqua come quella dei mulini (in alto a sinistra nel disegno); l’asse che parte dal centro della ruota aziona sia l’avanzamento del tronco sia il movimento della lama. Il tronco da tagliare viene tenuto a contatto della lama da una ruota raffigurata con sei denti (al centro del disegno); i quattro bastoni (camme) all’estremità dell’asse servono invece per trascinare verso il basso la lama che una pertica (un grosso ramo in diagonale da destra a sinistra), flessibile come una molla, riporta verso l’alto. La lama, quindi, a ogni giro dell’asse, la lama è trainata quattro volte verso il basso.
La bottega dei segatori ricostruita risponde a tre criteri: collocazione in prossimità del fiume per la disponibilità di energia spazio per l’accumulo e la preparazione dei tronchi, area per la preparazione ed essicazione delle tavole. Una volta abbattuti e sfrondati, con corteccia integra, i tronchi vengono trasportati su zattere; arrivati in prossimità della segheria, una gru manuale a carrucole multiple, solleva i tronchi e li accumula sul piazzale; prima del taglio vengono scortecciati e viene scelta la posizione che il tronco deve avere sulla sega, in modo da tagliare subito il lato più nodoso; il tronco viene posizionato sulla sega, durante il taglio il tronco non deve poter ruotare né andare fuori asse, lo spessore delle tavole va da 5 cm in su, ogni tavola tagliata viene tolta e poste nel posto di essiccazione. Grazie a Flavio, Gianluigi, Alfredo, Marco, Gianpaolo, Paolo e Gianni la Gaita è riuscita a dar vita a questa macchina e con essa, di nuovo, alle idee di Villard.
Che non ci resti, ora, che pregare per lui?
Riferimenti bibliografici:
Bechmann R. Villard de Honnecourt. La pensèe tecnique au XIII siecle et sa communication, Picard 1993
Fare a scaglie il tartufo; rompere in una terrina le uova, salarle e sbatterle leggermente. Versare l’olio in una padella per friggere, aspettare che sia ben caldo e versarvi le uova sbattute. Lasciar rapprendere la frittata in modo che sotto sia leggermente dorata e rimanga morbida in superficie. Togliere la padella dal fuoco, cospargrte rapidamente la superficie morbida con le scagliette di tartufo e ripiegare la frittata su sé stessa. Servire subito.
Molti mescolano il tartufo alle uova sbattute, ma questo era il modo in cui un tempo a Norcia e Gubbio preparavano la frittata di tartufi; la tecnica usata, è di fatto, quella delle omelettes ma mi pare più giusto il termine frittata, che era quello usato in queste due cittadine umbre del tartufo.
Raffaello, genio del Rinascimento e uno dei più grandi artisti di ogni tempo, fu soprattutto un pittore, ma forse non tutti sanno che la bellezza e la grazia delle sue opere, così come avvenuto anche per il suo grande maestro Perugino, sono state una grandissima fonte di ispirazione per l’arte della ceramica, arte che ebbe e ha ancora in Umbria uno dei territori di massima elezione.
Dall’ultimo quarto del XV secolo e fino ai primi decenni del secolo successivo la maiolica lustrata rappresentò infatti l’eccellenza dei maestri vasai italiani, in particolare di quelli delle due cittadine umbre di Deruta e di Gubbio. Rapidamente, a partire dagli anni Venti del XVI secolo, si affermò una nuova tipologia che la letteratura ceramologica moderna comprende negli istoriati, fortemente influenzata dalla pittura di Raffaello Sanzio e favorita dalla grande diffusione delle stampe di Marcantonio Raimondi che ne riproducevano disegni e opere, rendendo facilmente accessibili dipinti del maestro urbinate altrimenti difficilmente avvicinabili.
Camera delle meraviglie
Verso il secondo decennio del XVI secolo, la nuova moda della ceramica figurata con scene evocative di miti, imprese o di episodi biblici, spesso tratti dalle opere di pittori coevi, soppiantò quella del lustro, o maiolica secondo la antica denominazione. Testimoni del passaggio furono le officine di Gubbio, in particolare quella di Mastro Giorgio Andreoli, che ancora verso gli anni ’30 del Cinquecento apponeva il lustro su piatti istoriati urbinati, come si legge inequivocabilmente in quello datato 1532, raffigurante la Presentazione della Vergine al Tempio, che sul retro porta la specificazione M G finì de maiolica.
A Gubbio, perciò, in occasione delle celebrazioni raffaellesche per i 500 anni dalla morte dell’artista, la Fondazione CariPerugia Arte organizza la mostra Dal lustro all’istoriato: Raffaello e la nuova maiolica allestita dall’11 settembre 2020 al 6 gennaio2021 presso le Logge dei Tiratori della Lana. A cura di due fra i massimi esperti della materia a livello internazionale, Giulio Busti e Franco Cocchi con la collaborazione di Luca Pesante ed Ettore Sannipoli, la mostra documenta attraverso circa centoquaranta opere, altri materiali e supporti multimediali le caratteristiche e il rapido passaggio dalla produzione a lustro a quella istoriata – con particolare riferimento alla riproduzione dalle incisioni e stampe delle opere di Raffaelo e altri pittori dell’epoca – nonché l’evoluzione del gusto nel collezionismo e alle riproduzioni di marca storicista tra Otto e Novecento.
Le quattro sezioni
Il progetto espositivo si articola in quattro sezioni: Deruta, Perugino, Pinturicchio e i vasi che paion dorati, che documenta la produzione derutese dalla seconda metà del Quattrocento e il rapporto con la pittura umbra coeva; Mastro Giorgio finì de maiolica, incentrata sull’attività di Mastro Giorgio Andreoli, divenuto celebre per l’applicazione dei lustri in oro e rubino sulle maioliche, e della sua bottega fra Quattro e Cinquecento; Raffaello e l’istioriato, che attraverso una selezione di alcune opere appartenenti alla Collezione di Maioliche Rinascimentali della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia documenta l’influenza di Raffaello sul cambiamento della ceramica e dell’affermarsi dello stile istoriato nella prima metà del Cinquecento.
Un vero coup de théâtre è rappresentato dalla sezione Il gabinetto delle curiosità e delle meraviglie che ricrea idealmente una camera di collezioni d’arte e curiosità ceramiche, tornato in voga fra Ottocento e Novecento come ripresa storicista di quelle che fin dal Rinascimento avevano trovato collocazione nelle dimore reali, nobiliari, di scienziati e uomini illustri e istituzioni. Di grande impatto scenografico questa parte dell’allestimento comprende cinquantacinque opere ispirate alla iconografia raffaellesca.
Percorso espositivo
Il percorso si completa con le proiezioni di alcuni video, tra cui quello della mostra MAIOLICA – Lustri oro e rubino dal Rinascimento adoggi allestita sempre dalla Fondazione CariPerugia Arte ad Assisi nel 2019, con la quale Dal lustro all’istoriato: Raffaello e la nuovamaiolica si pone in continuità.
L’iniziativa sarà anche occasione di approfondimento attraverso un programma di webinar, collaterale alla mostra, con la presenza di esperti a confronto sul tema dell’influenza di Raffaello sulla ceramica italiana ed europea.
Orari di apertura: dal martedì al venerdì 15.30-18.30; sabato e domenica 10.00-13.00 e 15.30-19.00
«Dal punto di vista sentimentale è stato molto difficile prendere questa decisione. Ammetto che è una ferita spaventosa, ma razionalmente è la scelta più giusta che si potesse fare».
Gubbio divide i suoi annali in a.C. e d.C. dove C sta per Ceri. La vita degli eugubini viene scandita e organizzata in base alla Festa dei Ceri: impegni pubblici e privati sono regolati da questo evento, che diventa così un vero spartiacque della quotidianità locale. Non è raro quindi, sentire in città la frase: «Lo facciamo prima o dopo i Ceri?».
Filippo Mario Stirati, sindaco di Gubbio. Foto di URP Gubbio
Quest’anno però non ci sarà nessun un prima e nessun un dopo. La festa, infatti, a causa del Coronavirus, è stata annullata. Non ci sarà la corsa. Niente taverne. Niente festeggiamenti in giro per la città. Niente alzain Piazza Grande. Niente sfilate e processioni. Niente folla colorata per le vie di Gubbio. Nemmeno la Spagnola del 1920 o il terremoto del 1984 avevano fermato l’evento. Solo le due Guerre Mondiali avevano interrotto parzialmente questa tradizione millenaria – ci sono testimonianze che ne attestano l’esistenza sin dal 1160, come solenne atto di devozione degli eugubini verso il vescovo Ubaldo Baldassini, morto in quell’anno.
Una decisione sofferta
Il Coronavirus però non ha dato scampo e il sindaco di Gubbio, Filippo Mario Stirati, ha preso – a malincuore – la decisione più giusta, ma anche la più sofferta: «Dal punto di vista sentimentale è stato molto difficile. Ammetto che è una ferita spaventosa, ma razionalmente è la decisione più giusta che si potesse prendere, anche perché, con le ordinanze in vigore, non è che avessimo altre alternative. Devo dire che non avrei mai immaginato, come Sindaco, di entrare purtroppo nella storia per essere stato il primo ad aver annullato la Festa dei Ceri. Sono eugubino fino al midollo, sono stato ceraiolo e sono all’interno di questo mondo fino in fondo. È una vicenda che mi tocca molto da vicino» confessa il Sindaco.
Il 15 e il 16 maggio non saranno comunque due date anonime: «I riti religiosi previsti per la festa del Patrono si svolgeranno con i distanziamenti sociali doverosi e c’è l’invito per i cittadini di abbellire la città e le case con gli stendardi e le luci. Loro stessi, seppur con molta amarezza e tristezza nel cuore, hanno capito la situazione e la scelta che ho fatto» prosegue Stirati.
L’alza dei Ceri. Foto di URP di Gubbio
Tra le indiscrezioni che circolano in città c’è persino quella di spostare la Corsa: tra le date papabili ci potrebbe essere l’11 settembre, giorno della traslazione del corpo di Sant’Ubaldo nell’omonima Basilica. «È solo un’idea, ancora ufficialmente non se n’è parlato. Gubbio è legata al 15 maggio, immaginare una soluzione alternativa per ora è impossibile; inoltre è una decisione che va presa con molta cautela. Vedremo come evolverà la situazione» spiega il primo cittadino di Gubbio.
Una corsa mai interrotta
Nel corso dei secoli, la Festa dei Ceri si è fermata solo in altre due occasioni. Sant’Ubaldo, Sant’Antonio e San Giorgio – non solo simboli di Gubbio, ma dell’intera Umbria – raramente non hanno scalato il monte Ingino; lo avevano fatto anche nel 1817 quando un’epidemia di tifo invase Gubbio e nel 1920 durante l’epidemia di Spagnola, che colpì gravemente la città.
La Corsa per le vie della città. Foto di URP di Gubbio
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, però, si sono dovuti arrendere e si sono fermati dal 1916 al 1918, eccenzion fatta nel 1917 quando vennero celebrati sul Col diLana: a Gubbio la Festa era stata sospesa per Regio Decreto. I soldati eugubini impegnati al fronte decisero quindi di festeggiare i Ceri direttamente in zona di guerra, tra le Dolomiti, e il 15 maggio del 1917 una copia delle tre strutture lignee corse sul Col di Lana, appena qualche centinaia di metri dietro la prima linea del fronte, tra l’emozione e la commozione dei presenti. «Nel 2017 abbiamo anche celebrato i 100 anni di questo particolare evento. Durante la Seconda Guerra Mondiale, invece, corsero solo i ceri mezzani portati da donne e ragazzi. Anche nel 1984 la Festa si fece: il 29 aprile di quell’anno Gubbio fu l’epicentro di un terremoto che face tanti danni ma nessuna vittima e, anche per alzare il morale della gente, si decise di non interrompere l’evento» conclude il Sindaco. Insomma, il 15 maggio 2020 verrà sicuramente ricordato e purtroppo passerà alla storia, non solo a Gubbio ma in tutta l’Umbria. Forse, quest’anno più che mai, la forza dei tre Santi che salgono il monte spinti dal calore della gente avrebbe simboleggiato la voglia di rinascita e di risalita di questa Regione. Per ora possiamo solo immaginarli. Ma torneranno!
«Il mio nome è Walkiria: le Valchirie erano le figlie del dio della guerra. Una donna guerriera poteva essere solo una Walkiria».
Nomen omen, quello di Walkiria Terradura ha scritto, insieme a quelli di molte altre italiane, la storia della Resistenza; una storia in cui la lotta contro il pregiudizio della società maschile dominante è stata ardua quasi quanto quella contro i nazi-fascisti. Ma la storia di questa eugubina straordinaria ci racconta come i sacrifici, le privazioni e nondimeno le perdite subite da ragazzi poco più che ventenni hanno finito per appianare le differenze di genere, in nome di un unico grande ideale, quello della libertà.
Stirpe di terra dura
Tutto ha inizio il 13 gennaio del 1944, quando i fascisti dell’OVRA (Opera Vigilanza Repressione
Walkiria Terradura
Antifascismo) fanno irruzione nel Palazzo dei Duchi di Urbino, a Gubbio, dove Walkiria vive insieme al padre Gustavo e ai fratelli. La stessa Walkiria, in alcuni articoli scritti per «Patria Indipendente», ricorda come un incubo quella terribile notte di gennaio[1]. Il padre non aveva preso sul serio gli avvertimenti riguardo ai movimenti sospetti dell’OVRA da Perugia a Gubbio, pensando che la neve e il gran freddo avrebbero fatto da deterrente: si trovò quindi braccato in casa propria. Fu proprio a Walkiria che venne l’idea di nasconderlo: si ricordava – a seguito dei suoi giochi di bambina – di una cavità tra le travi della soffitta. Quel fervente antifascista che era l’avvocato del Foro perugino Gustavo Terradura, non senza notevoli sforzi, vi si infilò e lì rimase per ben otto ore. I soldati rivoltarono tutta la casa come un calzino, ma non riuscirono a trovarlo. Quando finalmente se ne andarono, Gustavo e Walkiria – ormai nota alle autorità – si diedero alla macchia, scegliendo la Selva del Burano, al confine tra Umbria e Marche, come loro meta.
Sacrifici e patimenti in una vita all’addiaccio
Walkiria lungo le rive del torrente Burano, foto di «Patria Indipendente»
Ma nei boschi non erano soli. Molti partigiani già compartivano la durezza e la moltitudine di pericoli di una vita all’addiaccio, sotto il fuoco nemico e quello alleato. Gustavo si unì quindi alla V Brigata Garibaldi di Pesaro e Walkiria lo seguì come combattente aggregata al V Battaglione, chiamato Gruppo Panichi, dal nome del comandante Samuele Panichi.
Gli uomini, inizialmente, guardarono con diffidenza le giovani combattenti, ma vuoi per la loro bravura nel captare le informazioni, vuoi per la fame, il freddo e la paura che condividevano, ben presto si convinsero che anche le donne erano all’altezza dei compiti che quel momento delicato richiedeva. Al punto che Walkiria venne nominata dai suoi compagni capo di una squadra, chiamata Settebello, di cui era appunto l’unico membro femminile. Secondo Walkiria fu perché sapeva fare «un discorso politico»: aveva infatti ereditato dal padre un atteggiamento sprezzante verso il regime e più volte era stata interrogata in questura e redarguita. Non era l’unica: suo fratello Araldo si era arruolato nella Marina e stava scontando sette anni di prigionia in Egitto; l’altro, Enrico, era partigiano in Jugoslavia e Lionella, sua sorella minore, ben presto l’avrebbe raggiunta sui Monti del Burano.
Ma come si svolgeva quella vita da guerriglieri? Ci si spostava continuamente da un posto all’altro, trovando ospitalità presso le stalle che i contadini, poverissimi, mettevano a disposizione; ci si scaldava con il fiato degli animali e dormendo tutti insieme sul pagliericcio sparso sul pavimento. Spesso si riusciva a cucinare qualcosa di caldo, come una minestra di lardo, nei grandi camini delle cascine di una volta, persino in quelle abbandonate. Di giorno si discuteva di azioni, da compiere dopo che gli Alleati avrebbero lanciato dagli aerei armi e materiale bellico. Con i paracadute bianchi e rossi che li accompagnavano si potevano fabbricare camicie e fazzoletti.
Quando cominciò a piovere dal cielo soprattutto plastico, fu chiaro cosa bisognava fare: far saltare i ponti per impedire l’avanzata o, alternativamente, la ritirata, dei tedeschi. Fu proprio in questo ambito che si specializzò Walkiria: insieme al commilitone Valentino Guerra, minava gli stretti ponti fra i monti anche per impedire che i tedeschi, furiosi per le sconfitte subite sul piano internazionale, riversassero la propria rabbia sulla popolazione innocente e inerme. Una volta, Walkiria e Valentino, dopo una di tali azioni, si ritrovarono soli a contrastare un nutrito gruppo di avversari. Ebbero evidentemente la meglio, ma su Walkiria cominciarono a pesare ben otto mandati di cattura. Le truppe tedesche antiguerriglia, sebbene le stessero continuamente alle calcagna e girassero con la sua fotografia, non riuscirono mai a catturarla.
Le compagne partigiane
Rosina, al secolo Rosa Luxemburg Panichi, con la sua cavalla Ribella, in «Patria Indipendente»
Il V Battaglione, lassù sulle montagne del Burano, resisteva anche grazie ad altre partigiane, quattro delle quali Walkiria stessa ricorda con affetto nei suoi scritti.
C’era Rita, di soli 16 anni, cui era toccato un moschetto modello 91 che, quando aveva la baionetta innestata, era alto quanto lei; c’era Iole, scappata dalla Repubblica di San Marino dopo aver saputo le violenze perpetrate nei confronti della popolazione e l’ennesima cattura di ebrei; c’erano Rosina[2], figlia di Samuele Panichi, e Lionella, la Furia dai capelli rossi che non smentì di certo il carattere intrepido della famiglia Terradura.
Walkiria ricorda Rosina per il suo corpo grande e solido, così come per la sua grandeforza e il suo linguaggioa dir poco colorito. Sembra che una volta avesse abbattuto un vitello con un pugno dritto tra gli occhi; eppure era una persona generosa e allegra, dall’umorismo facile, che trasportava sempre grandi carichi per assicurarsi che nemmeno alla madre, anch’essa alla macchia, non mancasse nulla. Portava con sé anche erbe medicinali essiccate per curare i malanni di tutta la squadra, ma anche caramelle, da distribuire ai bambini che incontravano durante i frequenti spostamenti.
Lionella, invece, aveva costituito una vera e propria sorpresa, pure per la stessa Walkiria. La ragazza, dopo la fuga del padre e della sorella, aveva deciso di restare a casa perché certa di non avere nulla da temere: non aveva mai fatto scelte politiche paragonabili a quelle dei familiari. Eppure, qualche tempo dopo, era arrivato l’ordine di arrestarla; durante gli interrogatori si era dimostrata arguta, tanto da riuscire a interpretare, quando necessario, il ruolo della ragazzina sprovveduta e ignorante. Così i fascisti l’avevano liberata e lei, contravvenendo ai loro ordini, aveva subito lasciato Gubbio per raggiungere Walkiria e Gustavo sulle montagne.
Lionella Terradura, in «Patria Indipendente»
Lì si rese protagonista di azioni estremamente coraggiose, tanto da essere soprannominata Furia per la sua imprevedibilità e irruenza: se Walkiria armeggiava con l’esplosivo, Lionella «andava a sequestrare il grano ammassato nei vari silos della zona prima che lo trafugassero i tedeschi e ne curava, insieme ai compagni, la distribuzione alla popolazione affamata; faceva incetta sia di moderni fucili da caccia che di antiche doppiette, in attesa che arrivassero dal cielo i rifornimenti di armi promessi dagli anglo-americani; nei paesi limitrofi alla zona partigiana curava la raccolta di denaro per pagare almeno in parte i prodotti alimentari che ci fornivano i contadini più poveri; cercava nuove basi per i ragazzi che arrivavano alla macchia sempre più numerosi, spostandosi da un luogo all’altro a cavallo, che montava a pelo, con una maestria e una disinvoltura invidiabili.[3]»
Il 25 aprile del 1945
Molti dei volti che prendono forma tra le pagine, Walkiria non li rivedrà mai più: ragazze e ragazzi che, per la libertà, donarono gli anni più spensierati della vita, diventando adulti prima che il tempo facesse il suo naturale corso. Molti di essi, conosciuti nei boschi umbro-marchigiani, erano americani, giunti a combattere in terra straniera e forse lì periti. Ma dalle parole di Walkiria non traspare alcun rimpianto né rimorso: la consapevolezza di aver contribuito a liberare il mondo da regimi oppressivi cancella i sacrifici individuali e attenua le sofferenze fisiche e spirituali.
E poi molti degli amici e compagni torneranno con lei nella natia Gubbio, così da festeggiare insieme la tanto attesa Liberazione:
Una scena di Bandite, un documentario del 2009 di Alessia Proietti, visibile gratuitamente in streaming fino al 26 aprile su Openddb
«Appena appresi la notizia della definitiva vittoria partigiana, ricordo di aver riso e pianto, stordita da tale avvenimento che pur sapevo vicino. Uscii di casa quasi correndo per incontrarmi con quei ragazzi eugubini che avevano combattuto con me nella V Brigata Garibaldi, e anche con i ragazzi di altre formazioni, per festeggiare insieme la vittoria. Ricordo che ci abbracciammo commossi e che andammo a brindare, ora in una osteria e ora in un bar, gridando tanti evviva e tanti abbasso sino a diventare rochi. Rimasi poi soltanto con i miei tre amici più cari, Carlo, Oreste e Silvio per cercare Nanne Monacelli, un compagno che aveva tenuto nascosti, a rischio della vita, moschetti, bombe e fucili mitragliatori, prelevati dopo l’armistizio da una polveriera del nostro esercito che poi, portati in montagna, ci permisero di formare i primi gruppi armati. Nanne, non appena ci vide, ci invitò tutti a pranzo e sua moglie preparò – come si dice a Gubbio – un sugo finto (cioè senza carne) leggero ma assai gustoso, con il quale condì un bel piatto di pasta asciutta. Mise poi in tavola pane, salsicce secche, insalata e due grandi boccali di vino. Quello fu il pranzo con il quale festeggiammo il 25 aprile che ancora ricordo per tutto ciò che ci dicemmo e per le risate egli scherzi che si protrassero fino a sera, di cui tutti fummo bersaglio.[4]»
Partigiana per la vita
Nonostante il matrimonio con il capitano dell’OSS (Office Strategic Service) Alfonso Thiele e l’iniziale trasferimento negli Stati Uniti, Walkiria decise di tornare in Italia per partecipare attivamente all’ANPI(Associazione Nazionale Partigiani d’Italia)[5]. Attualmente vive a Gubbio. Siamo certi che oggi, nonostante il passare degli anni, festeggerà con lo stesso entusiasmo e orgoglio di quel 25 aprile 1945, giorno della Liberazione dal nazifascismo.