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Le arti e le corporazioni nel Medioevo umbro. La loro ricostruzione nel Mercato delle Gaite

Le corporazioni, che nel Medioevo si chiamavano Arti o Mestieri, rappresentano la forma di organizzazione del lavoro più consueta nelle città italiane, a partire dalla prima età comunale. Rappresentano in sostanza l’associazione di tutti coloro che in una data città esercitano lo stesso commercio o lo stesso mestiere: maestri, apprendisti, salariati.

Nell’Italia settentrionale e centrale fin dal XII secolo si costituirono associazioni di mercanti e fabbricanti (le future Arti maggiori), che miravano precocemente alla spartizione del potere comunale. Gli statuti che le governavano, peraltro rarissimi prima del XIII secolo, erano un insieme di ratifiche di consuetudini professionali, di provvedimenti di polizia e di conferme di diritti, e avevano come modello gli statuti comunali. Di norma lo Statuto o il Breve della corporazione era limitato da quello comunale, e non a caso spesso era proprio l’autorità comunale ad autorizzare la stesura e a ratificarlo, onde evitare il conflitto di competenze e di interessi. Lo Statuto o il Breve erano composti da capitoli o rubriche, di cui:

  • alcuni erano dedicati all’elezione, giuramento, funzioni, diritti e doveri dei rappresentanti e amministratori delle Corporazioni (Capitani, Consiglieri, Camerlenghi, Notai, Famigli)
  • altri riguardavano le norme di mutuo soccorso tra iscritti (aiuto economico tra i poveri dell’Arte, assistenza agli infermi, funerali dei soci)
  • altri regolavano la vita associativa con descrizione dei diritti e doveri di tutti gli iscritti e norme di etica professionale
  • altri regolavano i rapporti tra maestri, garzoni, lavoranti
  • altri regolavano l’iscrizione al Breve, il giuramento del nuovo socio, la tassa di iscrizione, i contributi associativi
  • altri stabilivano il modo di come onorare le feste
  • altri prevedevano le pene pecuniarie piuttosto severe per coloro che non avessero rispettato i singoli Capitoli.

Il nuovo regime, fondato sul laboratorio o sulla bottega di famiglia, rafforzava in realtà la posizione dei maestri che controllavano da vicino l’apprendistato e regolamentavano l’accesso al mestiere. Il grado inferiore nell’ambito della corporazione era quello del garzone, il quale svolgeva un lavoro non specializzato; per poter diventare maestro era necessario trascorrere presso uno di questi un periodo di formazione in qualità di apprendista. Tale periodo aveva termine con una sorta di esame finale, consistente nella preparazione di un capo d’opera, allo scopo di dar prova delle capacità tecniche acquisite.

A Perugia l’elenco delle Arti compare nel capitolo 38 del primo libro degli Statuti del Comune e del Popolo Di Perugia del 1342 in numero di 43; mentre in numero di 44 vengono ricordate dagli emblemi dipinti su un cofano del sec. XV esistente nella Galleria Nazionale dell’Umbria. Un documento finanziario del 1368 consente di stabilire tra le corporazioni una gerarchia principalmente fondata sulla loro potenzialità economica. Al vertice stanno le arti della Mercanzia e del Cambio, seguivano i notai, i pittori, i calzolari, i sartori, pesciaioli, fabbri, maestri di pietra e legname, lavoranti lana o pannilana, procaccianti, macellai, tavernieri, vasari, ciabattini, spadari, cartolari, bovattieri, cestari e canestrari, fornai, barbieri, tintori, orafi, i lavoranti di seta e bambagia ( banbacari), pollaioli, ortolani.

Cofano del sec. XV

A Gubbio le prime sicure notizie dell’esistenza di corporazioni delle arti risalgono alla seconda metà del 1200, ma è soltanto dallo statuto del 1338 ricaviamo il loro numero; oltre ai giudici e notai, esistevano 15 arti (talune delle quali raggruppavano diversi mestieri): erano le arti dei tessitori di guarnelli, dei mercanti e cambiatori, dei lanaioli, tintori e cartolai, dei calzolai, dei muratori e scalpellini, dei falegnami, dei fabbri, orefici, spadai e corazzai, dei conciapelli e sarti, dei beccai, dei merciai, dei mugnai, dei vasai, dei medici e speziali, dei barbieri.

Ad Assisi la corporazione più importante e già solidamente organizzata alla fine del sec. XII fu quella dei Mercanti. In un atto comunale del 1233 è documentata con le compagnie dei gabellieri, dei macellai, dei calzolai. Nello statuto manoscritto del 1468 troviamo un elenco di 19 arti e vi compaiono i lanaioli, i calzolai, i tessitori di guarnelli e bambagiari, i tintori.

A Foligno lo svolgimento storico delle Arti muove almeno dal principio del 1200. Nel 1401 erano ventidue: “Ludices et notarii, mercatores, cannaparii,spetiarii, merciarii, fabri, calzolarii, lanarii, carpentarii, funarii, macellarii, pizzicharoli, fornarii, tabernarii, molendinarii olei, molendinarii grani, muratores et fornachiarii, vasarii”. Novant’ anni dopo ne vengono in luce altre cinque: cerdones, magistri petre et lignaminis, aurifices, salinarii, venatores.

A Trevi esistevano nel 1524 esistevano un numero considerevole di mestieri: notai, giudici, medici, calzolai, mercanti, bifolchi, falegnami, forni, barbieri, bastari, fabbri, calderai, armaioli, orologiai, tessitori di panni, mugnai, osti, macellai, ortolani, funari, decoratori, lanari, sarti, segatori, vetrai.

A Todi, nel 1317, le arti sono in numero di ventitré: mercanti, calzolai, merciai, orefici, ciabattini, conciapelli, lanaioli, tessitori di cotone, lino e canapa, fabbri, fornaciai, falegnami, albergatori e osti, vasai, pizzicagnoli, macellai, barbieri, ortolani, muratori, vasai, mugnai, giudici e notai. In successive riformanze del 1332 e del 1439 compaiono le stesse arti.

Antichi mestieri nelle Gaite di Bevagna

A Orvieto l’elenco delle arti si ritrova in un atto del 1295 e comprende ben 24 professioni e mestieri organizzati: giudici e notai, mercanti, lanaioli, calzolai, merciai, macellai, fabbri, pellicciai, sarti, muratori, procaccianti, tavernieri, pizzicagnoli, falegnami, mugnai, salari, funai, albergatori, venditori di ortaggi e frutta, barbieri, calcinai, vasai, macinai, vetturali. Nel 1316 ci sono in più le arti degli orefici, dei bifolchi, degli aromatari.

A Spoleto, in un registro di riformanze del 1362 e in uno del 1517 sono in numero di quindici e tra esse gli orefici, i notai, i giudici. In un registo di riformanze del 1664 non risultano più di cinque. Qualche anno appresso, nel 1673, ne esistono un numero notevole: vasai, fornai, osti, macellai, pizzicagnoli, calzolai, sarti, muratori, falegnami, fabbri, cappellai, merciai, orefici, speziali, mercanti e banchieri, setaioli, lanaioli.

A Nocera Umbra lo Statuto, giunto fino a noi nella versione a stampa del 1567, incentiva e disciplina le arti: della Lana, della Carta, dei Guarnelli (vesti di canapa e lino), dei Cervellieri (copricapo di metallo e cuoio), degli Speziali, dei Fornai, dei Tavernieri, dei Pizzicagnoli, dei Macellai.

A Bevagna lo Statuto, pervenutoci nell’edizione cinquecentesca (la cronologia statuaria sembra muoversi tra il 1334, il 1417-31, e appunto 1500) disciplina le arti dei tessitori di canapa e lana, degli osti e tavernieri, dei macellai, dei maestri del legname e della pietra, dei fornai, delle pizzicarole, dei mugnai, dei fabbri, dei vasai, dei mattonari, dei ceraioli, dei mugnai.

Torcitoio circolare da seta

L’arte della Seta e la sua ricostruzione nel Mercato delle Gaite e nella Gaita Santa Maria

Nella rievocazione storica del Mercato delle Gaite una delle quattro gare in cui le quattro gaite si sfidano è quella dei Mestieri che prevede la ricostruzione di mestieri medievali il cui esercizio risulti storicamente documentato per l’arco temporale di riferimento (1250-1350). Secondo il regolamento il termine mestieri va inteso nella sua accezione di Ars ossia quella di una specifica e ben individuata attività svolta da esseri umani e finalizzata alla produzione di un bene o all’erogazione di un servizio. Nella gara devono essere riprodotte, sulla base di fonti storiche dell’epoca di riferimento, le varie fasi dell’attività rappresentata. A tale scopo devono essere utilizzati materiali, strumenti e tecniche proprie dell’epoca, riprodotti nelle stesse caratteristiche e forme.

Bachi da seta

La scelta dell’arte della seta deriva sia dalla consapevolezza dell’importanza che tale attività assumeva nell’Italia del basso Medioevo, sia perché, fino a qualche decina di anni fa, grazie alla diffusione del gelso nel territorio, le donne di Bevagna si dedicavano in gran numero all’allevamento del baco e alla raccolta e vendita dei bozzoli. La Gaita ha deciso di riprodurre tutte le fasi di questo complesso ciclo di lavorazione, dall’allevamento del baco da seta – pratica ormai rarissima da osservare nell’Italia di oggi – alla tessitura del prezioso filo, passando attraverso le fasi della trattura, della torcitura, della tintura e dell’orditura. L’allevamento inizia facendo schiudere le uova conservate dall’anno precedente. Non appena esce dall’uovo, il baco da seta è una minuscola larva che inizia a mangiare le tenerissime foglie di gelso. Questo è un periodo di rapida crescita a cui, dopo una giornata di sonno ininterrotto, segue la prima mutazione. Il filugello cambia quattro volte l’involucro chitinoso che gli avvolge la pelle prima che possa raggiungere la maturità e poter tessere il bozzolo. Dalla schiusa delle uova al bozzolo trascorrono 30 giorni durante il quale il baco viene ad essere alimentato ogni tre ore. 4 mute per cinque età, un consumo di foglia che varia da 3 kg per la prima età a 770 kg per la quinta, un aumento di lunghezza da mm 3 alla nascita a 45 mm alla quinta età fino a 90 mm a maturità completa (aumenta di 30 volte), un aumento di peso da gr 0,00056 fino ad 1 gr alla quinta età e 4 gr a maturità completa (aumenta di 8000 volte). Verso il settimo giorno della quinta età il baco cessa di nutrirsi, svuota completamente il suo intestino e tramite le sue due lunghissime ghiandole serigene tubulari inizia la costruzione del bozzolo che dura da tre a quattro giorni; al termine il baco con una nuova muta si trasforma in crisalide. Miliardi di crisalidi in procinto di uscire dal loro bozzolo vengono uccise con il calore, al sole, per impedire alle aspiranti farfalle di secernere il liquido alcalino che sciogliendo le sostanze gommose del bozzolo crea il foro d’uscita. Dopo la strage, il miracolo. I delicati involucri sierosi riescono a ridonare tutto il filo che li compone. Il primo procedimento nella preparazione di un filo di seta è la trattura: i bozzoli vengono immersi in acqua bollente per rendere il materiale legante viscoso e vengono rimossi con bastoni, alle estremità dei quali aderiscono i filamenti di seta. Il peso del bozzolo varia da 1,8 a 2,5 gr, la lunghezza della bava serica dai 1500 ai 2500 m; da 100 gr di bozzoli si ricavano 20/25 g di seta; per ottenere 1 Kg di filo di seta occorrono più di 10 kg di bozzoli. I filamenti sono avvolti su un aspo: essendo i filamenti di seta troppo delicati per essere avvolti uno alla volta, se ne avvolgono insieme un certo numero, da tre ad otto. La successiva operazione consiste nell’incannatura, ossia nel passaggio dalle matasse di seta avvolte intorno all’arcolaio ai fili avvolti in rocchetti di legno. Successivamente i fili di seta vengono ritorti (filatura e torcitura) per impedire che i singoli filamenti si separino.  Di notevole valore è la ricostruzione del torcitoio circolare da seta. Il torcitoio da seta è la prima macchina operativa complessa che l’uomo abbia mai ricostruito. Dopo la torsione le matasse di filo di seta vengono collocate in sacchetti e bollite in acqua saponata (cocitura) per eliminare la gomma naturale che può ostacolare la tintura; vengono poi sciacquate in acqua pura e messe ad asciugare. Quelle di color perlaceo vengono poi sbiancate con i vapori di zolfo (inzolfatura); così il filo bianco è pronto per la tintura. I principali coloranti utilizzati per la tintura della seta erano la robbia e il verzino per le varie    gradazioni di rosso, il guado e l’indaco per gli azzurri, la guaderella e il sommaco per i gialli, le noci di galla per il nero; il verde si otteneva combinando guado e guaderella, mentre le celebrate e preziose tinture in  scarlatto avevano bisogno del chermes, il più costoso di tutti i coloranti, derivato dai corpi essiccati di una specie di pidocchio che viveva sui lecci e su altre varietà di quercia  mediterranea. Uscita dalle tintorie, la seta torna nelle mani delle incannatrici che avvolgono i fili di trama sui rocchetti; questi vengono spediti nelle case di altri lavoratori serici per l’orditura. Predisposto l’ordito tutto è pronto per la trasformazione decisiva, la tessitura. L’elemento di raccordo tra i diversi poli operativi è costituito dalla bottega di seta, dove i setaioli, coadiuvati da uno staff di fattori svolgono le funzioni organizzative, amministrative e commerciali indispensabili per il funzionamento dell’azienda disseminata.

Nella ricostruzione degli strumenti di lavoro utilizzati, dalla fornace per scaldare l’acqua e immergervi i bozzoli, al grande aspo per raccogliere il filo in matasse, uno sforzo particolare è stato dedicato alla ricostruzione del congegno utilizzato per la torcitura del filo di seta, il torcitoio a trazione umana, considerata dagli specialisti come la prima macchina operativa complessa che l’uomo abbia realizzato e come tale alle origini della civiltà industriale, facendone l’unico esemplare esistente e funzionante al mondo.

Durante la manifestazione, il torcitoio è certamente, fra gli strumenti d’epoca presenti, il più prestigioso per il suo valore storico e culturale e inoltre, nell’ambito di una riproduzione il più fedele possibile di mestieri medievali, è sicuramente la macchina riprodotta nel modo più corretto per quanto riguarda le fonti di energia, immune dalla contaminazione con le tecnologie moderne (corrente elettrica, metano) utilizza solo la forza delle braccia.

L’Arte della seta in Umbria

A Perugia la lavorazione della seta inizia nella prima metà del Quattrocento. Nel 1529 l’arte dei bambacari chiese e ottenne di unirsi con i setaioli. I bambacari e i setaioli costituirono il Collegio della seta e della bambagia (mantenendo tuttavia separati i propri statuti) nel 1529. In seguito, la necessità di raggiungere un più razionale impiego delle risorse economiche convinse dell’opportunità di riunire le due arti. La nuova istituzione assunta la denominazione di Arte della Seta e della Bambagia, redasse gli statuti nel 1531. Nel 1543 vennero elaborati gli statuti definitivi dell’arte. Redatte in volgare, le disposizioni sono comprese in sessantadue capitoli, di cui quarantotto riguardano l’arte della seta e quattordici quella della bambagia.

Capitolo 1. Che li merchatante de l’arte de la seta siano tenute de bollare rocche e channone con loro sengno.

Capitolo 5. Che li filatoiaie siano obligate filare et diligentemente a usu de bono e liale maestro.

Capitolo 7. Che niuno filatoio o torcetore possa filare né torcere seta a frostiere né a chi non ha bothiga in piaçca.

A Foligno, già negli 1471-1472, due mercanti imprenditori forestieri manifestano il desiderio di introdurre l’Arte della Seta. Ma solo nel 1540 vengono elaborate tre bozze degli statuti dell’arte, due delle quali abbastanza simili e composte da 15 capitoli e 17 capitoli.

Capitolo 1. In primis che alcun foristero che non sia habitante in Foigno per anni 30 et habbia casa et possessione non possa lavorare, ne fare lavorare.

Capitolo 2. Item che tucti quilli che vogliono lavorare o far lavorare siano matriculati ad larte de la seta.

Capitolo 8. Item che nessun filaturaro, ne tintore, possano torcere, ne torcere, ne filare, ne tignere in alcun modo, alcuna generatione de seta ad nessun foristero, ne ad alcun altro che non sia matriculato et scritto ad larte sotto pena.

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Alfredo Properzi

Laureato in Medicina e Chirurgia, medico di famiglia. Appassionato di calcio, innamorato della Juventus. Appassionato di storia medievale, in particolare della storia del lavoro e dell'alimentazione medievale; di Bevagna e della sua storia antica e della sua bellissima rievocazione medievale: il Mercato delle Gaite.