Sbucciate le cipolle, tagliatele a fette sottili, stendete su una placca da forno e spolverizzatele di sale. Lasciate così per un’oretta, poi strizzatele bene. Ungete una tortiera rettangolare e non troppo alta, disponetevi la pasta da pane in uno strato alto non più di un centimetro e cospargetene la superficie con fettine di cipolla e con foglie di salvia, lavate e asciugate. Irrorate la superficie della schiacciata con un filino d’olio e fate cuocere a 180° circa per 30-40 minuti. Servite la schiacciata calda o fredda.
La schiacciata alla cipolla – che a Città di Castello chiamavano pampassato – è conosciuta in tutta l’Umbria. Si facevano però anche schiacciate con la sola cipolla oppure con le foglioline di rosmarino e, in mancanza d’altro, solo con un po’ di sale in superficie. A Norcia, dove era di regola prepararla quando si faceva il pane e dove veniva chiamata anche spianata, accanto alle versioni più povere (con sale, ciccioli o rosmarino), ve ne erano con zucchine, pomodori, a volte patate.
Titolo: Perugia Underground. Storie di donne, sesso e potere nel Novecento
Autore: Andrea Maori
Editore: Francesco Tozzuolo Editore
Anno di pubblicazione: 2018
Caratteristiche: 108 pagine, foto cm 21 x 15, brossura illustrata con bandelle, ill. b/n
Nella sua ultima opera, Andrea Maori – archivista e ricercatore perugino – ci porta alla scoperta di tre storie che hanno come protagoniste le donne. Tre vicende che attraversano il secolo scorso e che, avvalendosi di una puntuale documentazione e ricerca d’archivio, sono testimonianza della condizione di subalternità delle donne e della loro libertà individuale negata. Il primo racconto, Bell’Epoque a Perugia: «Amori illeciti» nella casa di pena delle donne, ambientato nel 1909, ha come teatro il riformatorio e il carcere femminile di Perugia al centro di polemiche e scandali per le violenze inflitte alle carcerate, che due donne coraggiose e battagliere, Zita Centa Tartarini e Maria Rygier, riescono a portare a conoscenza dell’opinione pubblica.
Nel secondo, Ai margini della storia: Cecilia Aurora e Agostina tra prostituzione e antifascismo, Maori ha seguito la loro storia di emarginazione attraverso le piccole tracce trovate negli archivi. Due donne, Cecilia Aurora Tavernelli di Città di Castello e Agostina Tortaioli di Perugia, schedate come prostitute antifasciste costrette a spostarsi da una città all’altra fino a far perdere le loro tracce e presenti nella storia solo attraverso scarne schede di polizia.
Nel terzo, Pubblica moralità dall’approvazione della Legge Merlin agli anni Settanta. Il caso di Perugia, l’autore analizza con numeri e dati puntuali il fenomeno prostituzione prima e dopo l’entrata in vigore della legge Merlin, che negli intenti doveva dare dignità alle donne ed evitare situazioni di sfruttamento. Inoltre Maori prende in esame la costituzione della Polizia femminile il cui scopo era quello di salvaguardare la pubblica moralità e vigilare sulla stampa reprimendo quella ritenuta immorale.
«Il volume ha il merito di portare alla luce tre storie locali che inevitabilmente si intrecciano con la dimensione nazionale che modulano su tre terreni diversi, ma contigui, la subalternità di classe e di genere che si manifesta nel dominio maschile della sessualità femminile», afferma il professore Paolo Bartoli nella prefazione.
Da segnalare la suggestiva immagine in copertina, che riproduce l’opera che l’artista spagnolo Daniel Munoz realizzò nel 2012 sul muro esterno dell’ex carcere femminile di Perugia. Il murale (acrilico su cemento) dal titolo Donne abbandonate del carcere di Perugia è stato distrutto nel 2017 nel corso dei lavori di messa in sicurezza dell’edificio. «L’idea del murale» spiega l’artista «era di creare un ritratto simbolico della sottomissione delle donne attraverso la storia. Ho scelto questo tema perché l’edificio era la prigione delle donne».
«Meglio cento volte la tenda del beduino, meglio il dorso del cammello, meglio la continua lotta e la sublime incertezza del domani… io voglio morire in Africa, libero come la Natura.»
Così scriveva l’esploratore e naturalista umbro Orazio Antinori, soggetto a quello che potremmo oggi chiamare un vero e proprio mal d’Africa. In realtà a parlare erano il suo animo avventuroso e la sua indole curiosa, che ne fecero prima un ragazzino irrequieto e scavezzacollo e poi uno dei più grandi esploratori di metà Ottocento.
Dai primi anni all'esilio
Orazio nasce a Perugia nel 1811 da una famiglia insignita del titolo marchionale. Diserta gli studi classici ancor prima di aver conseguito il diploma e si dedica all’ornitologia e alla tassidermia. Si definisce anche «falegname per passatempo e meccanico per svago» e, al contempo, si dedica ai disegni e alla caccia, impagliando poi gli uccelli che uccide.
Nel 1837 si trasferisce nella Capitale, scacciato dal padre per aver messo incinta una cameriera – dalla quale ebbe un figlio maschio mai riconosciuto, ma che decise di mantenere. Poté così dedicarsi all’ornitologia, diventando ben presto non solo l’imbalsamatore e custode generale di Carlo Luciano Bonaparte principe di Canino, ma anche un valido aiuto dello stesso nella stesura dell’Iconografia della fauna italica (Roma, 1832-1841) e delConspectus generum avium (Bologna, 1842).
Mazziniano, si arruola come ufficiale nell’esercito pontificio che, a Cornuda (TV), viene sconfitto da quello austriaco – cosa che avverrà, qualche tempo dopo, anche a Vicenza. Antinori viene però colpito al braccio destro, tanto che comincia a scrivere con la sinistra; torna a Roma ed è tra coloro che determinano la fuga di Pio IX. Viene eletto deputato alla Costituente, ma impugna nuovamente il fucile per difendere la Repubblica Romana dai Francesi di Oudinot che, però riusciranno a entrare nella Capitale.
A Orazio non resta che l’esilio: fa rotta prima verso la Grecia e poi verso la Turchia. Qui, rimasto quasi senza mezzi, si mette in società con il console svizzero Guido Gonzenbach: i due si lanciano nell’esportazione degli animali imbalsamati e questo lavoro porta Orazio a cacciare in Asia Minore, Cipro, Candia, Malta e Siria.
I primi viaggi
Sulla scia di questi viaggi, nel 1858 si trasferisce in Egitto e, l’anno dopo, sceglie il Sudan come base di partenza delle sue spedizioni. Così scrive Manlio Bonati: «Conosce altri viaggiatori, interessati al commercio della gomma, delle piume di struzzo, dell’avorio e del caffè, con cui progetta delle spedizioni sul Nilo, il fiume misterioso che convoglia a sé un nutrito numero di esploratori provenienti da varie nazioni europee. Le prime vere avventure africane le vive nel Sennaar con Angelo Castelbolognesi, ebreo ferrarese, e con i fratelli savoiardi Ambrogio e Giulio Poncet. A Galabat vuole penetrare in Abissinia, ma la strada gli è vietata. Col francese Guillaume Lejean arriva al Darfur, dove la carovana si blocca per colpa delle guide e dei portatori, collaboratori indispensabili nei viaggi africani, che non vogliono addentrarsi in località popolate da tribù ostili. Con Alessandro Vayssière, anch’egli savoiardo, e con il lucchese Carlo Piaggia risale nel 1860 il Nilo Bianco fino alla confluenza con il Bahr el-Ghazal. I tre navigano sulla barca del Vayssière con l’intenzione di raggiungere i Niam-Niam. Purtroppo, dopo essere giunti a Nguri, località più meridionale calpestata dal Nostro, “le continue piogge, le febbri, la dissenteria, il vitto scarso e cattivo minacciavano di seppellirci tutti sul luogo”. Con queste parole l’Antinori riassume l’esito sfavorevole della piccola spedizione, che vede morire di febbre l’amico nato nella Savoia e i superstiti tornare stremati nella capitale del Sudan.»
A questo si aggiunge l’incontro con un leone, dal quale Orazio avrebbe potuto difendersi solo con un fucile caricato a pallini; per fortuna il felino se ne va senza attaccarlo. Ma le avventure del nostro non sono destinate a terminare qui: vendendo ogni suo avere, torna in Italia quando, nel 1861, a farla da padrone è il nuovo regno savoiardo. Cede, per 20.000 lire, la sua preziosa raccolta ornitologica, che però viene smembrata tra vari musei; al contrario, decide di donare la collezione etnologica al Museo dell’Università della sua città natale, Perugia.
Il ritorno in Italia e la <em>Società Geografica Italiana</em>
Sappiamo che in seguito entra nella Massoneria, sebbene la data sia incerta; la cosa non intacca la sua passione per i viaggi e le esplorazioni, che si arricchisce delle esperienze in Sardegna, in compagnia dell’ornitologo Tommaso Salvadori, e della cattura degli uccelli in Turchia, alla quale aggiunge anche la ricerca dei reperti romani e la stesura di una corretta carta oro-idrografica dei luoghi visitati.
Nel 1867 si trasferisce a Firenze e figura tra i fondatori della Società Geografica Italiana, di cui ricopre funzioni di segretariato. Due anni più tardi viene scelto dal Governo come rappresentante italiano in Egitto in occasione dell’inaugurazione del Canale di Suez, seguita, un anno più tardi, dalla presenza all’acquisizionedella Baia di Assab. Subito dopo si inoltra nella terra dei Bogos per visitare la colonia della Sciotel, organizzata senza fortuna da alcuni connazionali e per preparare una collezione della fauna del luogo.
La spedizione nello Scioa
Nei 1872 lo ritroviamo a Firenze a espletare incarichi d’ufficio della Società, ma nel 1873 perde di nuovo l’uso della mano destra a causa di una dolorosa infiammazione. Nel frattempo, la sede della Società Geografica Italiana si trasferisce a Roma e Antinori la segue. In questo periodo prende corpo l’idea di progettare una spedizione nello Scioa e nei laghi equatoriali: l’età che avanza non sembra essere un deterrente per l’avventuriero Orazio, che nel 1875 è nuovamente a capo di una missione scientifica nei chott tunisini per rilevare la possibile immissione del mare in quei solitari bacini salati.
Nel marzo 1876, infine, Orazio si imbarca per l’Abissinia e, dopo diversi intoppi, furti e problemi col personale indigeno, la carovana riesce a mettersi in cammino verso lo Scioa. Lo scopo era quello di crearvi una stazione geografica come base per altre spedizioni scientifiche e commerciali. Abu Beker, emiro di Zeila e trafficante di schiavi, ostacola in tutti i modi gli esploratori, che rischiano anche di essere uccisi; ma, alla fine, essi riescono ad arrivare da Menelik II, il re dello Scioa. Antonori ne resta affascinato, anche perché beneficia, al pari dei compagni, dell’ospitalità del monarca e del suo consigliere, il vescovo cappuccino Guglielmo Massaja.
L’incidente di caccia e gli ultimi anni
Questi gli affida un terreno dove sorge la stazione geografica e luogo in cui il marchese può recuperare, visto che si è ferito gravemente in un incidente di caccia. A parlare è Landini, uno dei compagni di Antinori: «Trovai il povero Antinori steso in terra, con la mano destra orribilmente fracassata, grondante di sangue. Seppi che tenendo la mano sulla bocca del fucile, questo esplose e gli portò via gran parte della mano destra dalla palma fino al polso che gli restò scoperto».
Nonostante l’infortunio, continuò a praticare la preparazione degli animali, avendo insegnato a due giovani abissini l’arte della tassidermia.
Al contrario dei suoi compagni che, dopo diverse peripezie, decidono di ritornare in patria, Antinori rimane presso Menelik e si dedica a un’esplorazione del Lago Zuai. La pioggia lo fa ammalare; appena si sente in forze si reca a Entotto per vedersi con Menelik, ma al ritorno si bagna di nuovo e si ammala definitivamente.
È però sereno: la sua unica preoccupazione sono i suoi manoscritti, che prega vengano rimandati in patria – al contrario del suo feretro, che riposa ancora a Let-Marefià, in Etiopia.
«Sono un perugino di Ponte San Giovanni, nato e cresciuto lungo il Tevere. Questo fiume ha rappresentato – e rappresenta – molto per me».
Il mio telefono squilla.
«Buongiorno, sono Serse Cosmi. Possiamo fare l’intervista ora, che più tardi sono impegnato?».
«Va bene, mi dia cinque minuti».
Ammetto che ancora non avevo acceso il computer ed ero mezza assonnata, ma mi sono subito svegliata. Rare volte qualcuno mi ha chiamato per anticipare un’intervista e non per annullarla: non Serse Cormi, lui è uno di parola!
Non gliel’ho confessato (ora lo leggerà qui), ma ero sugli spalti dello stadio Curi quando allenava il Perugia. Chiacchierare con lui è stato divertente, c’è scappata più di una risata. Nonostante abbia girato l’Italia per allenare tante squadre – dalla Pontevecchio all’Arezzo, dal Perugia al Genoa, fino all’Udinese, Brescia, Livorno, Palermo, per citarne alcune, resta un perugino D.O.C. anzi come tiene a specificare lui: «un perugino di Ponte San Giovanni».
Serse Cosmi
Mister qual è il suo legame con l’Umbria?
Gli umbri sono legati in maniera viscerale alla loro terra e alle loro radici: io, facendo una professione che mi porta in giro per l’Italia, sento molto questo legame. Quando sei fuori apprezzi ancora di più dove sei nato e la tua terra. Per me è, e rimane, un legame fortissimo.
Si considera ancora l’Uomo del fiume, uomo di Ponte San Giovanni?
Assolutamente sì. Io sono un perugino di Ponte San Giovanni (n.d.r. frazione di Perugia) e in questo c’è differenza: quando ero piccolo c’erano i perugini del centro e quelli dei ponti. Io rivendico a gran voce di essere di Ponte San Giovanni e di essere nato vicino al Tevere, un fiume al quale sono legato fin dall’infanzia.
Il Tevere cosa ha rappresentato per lei?
La mia generazione è forse l’ultima che ha fatto il bagno nel Tevere: ho imparato a nuotare nelle sue acque, giocavo lì e ovviamente andavo a ballare al Lido Tevere. Ho passato la mia infanzia vicino al fiume, crescere vedendolo scorrere è qualcosa che ti porti dentro per sempre.
Oggi c’è un’ondata di allenatori che non ha fatto una vera gavetta, partendo da squadre di categoria minore come ha fatto lei: cosa ne pensa, è un cambiamento del nostro tempo o la fretta di mettere un “nome” in panchina?
È un po’ tutte e due. Chi è stato un grande calciatore ha già avuto in quel mestiere dei grandi privilegi, ma non reputo giusto che, nel momento in cui si cimenta in un altro mestiere – cioè quello di allenatore – non debba fare la stessa gavetta che ha fatto per arrivare ai massimi livelli di calciatore. Mi spiego meglio: chi ha giocato con la Juve, l’Inter o il Milan ha fatto un suo percorso, partendo dalle serie minori per arrivare a vestire quella maglia. Stessa cosa dovrebbe valere per un allenatore, considerando che si tratta di un altro mestiere. Se poi l’allenatore viene visto come il prolungamento della carriera di calciatore, allora sto zitto! Ovviamente un grande calciatore può diventare anche un grande allenatore…
Però non è scontato nemmeno il contrario: che un grande calciatore per forza diventi un grande allenatore…
Sì, infatti. Io ricordo sempre una frase di Arrigo Sacchi: «Non è che per essere un buon fantino devi essere stato un cavallo».
Gaucci, Zamparini, Preziosi… ha incontrato dei veri mastini: in questi anni pensa che sia cambiato il rapporto tra allenatori e presidenti?
I tempi sono decisamente cambiati. I presidenti ora sono più dei manager, l’aspetto passionale è diminuito – fermo restando che il loro ruolo manageriale c’è sempre stato. Col tempo nel calcio sono cambiate tante figure, di conseguenza è cambiata anche quella dei presidenti, che oggi si occupano di aspetti molto diversi rispetto a 20-30 anni fa. Si confrontano apertamente con gli allenatori e parlano con loro di calcio come se facessero lo stesso mestiere, ma la cosa non è intercambiabile. Gaucci, ad esempio, è stato uno dei presidenti meno invadenti con cui ho lavorato. Lui era più un tifoso e le sue reazioni erano di conseguenza da tifoso, però non ho mai avuto la sensazione che mi spingesse – anche in modo velato – a far giocare un calciatore al posto di un altro. Se è successo, è stato talmente abile che non me ne sono mai accorto! (ride).
C’è un calciatore al quale è particolarmente legato?
Ce ne sono tanti, ma sono rimasto più legato con quelli di inizio carriera con i quali ho condiviso tanti avvenimenti umani e sportivi. Penso ai ragazzi della Pontevecchio, dell’Arezzo e dei primi anni del Perugia. Poi ho conosciuto anche altri calciatori che spesso sento, ma il rapporto più diretto l’ho mantenuto con quelli con i quali ho iniziato.
Chi avrebbe voluto allenare e non lo ha mai fatto?
Francesco Totti. È un giocatore che mi ha sempre incuriosito.
Ha nostalgia del Perugia? Ha mai pensato di tornare ad allenarlo o è un’epoca che si è conclusa?
Nostalgia no. Si è nostalgici di un qualcosa che non si potrà mai più verificare. Finché farò questo mestiere ci potrebbe essere sempre un’opportunità per ritornare sulla panchina del Perugia, fatto sta che – in 30 anni che alleno – non sono mai ritornato in una società dove sono già stato. Questo è un dato indicativo.
Magari per il Perugia lo farebbe…
Diciamo che è una delle poche squadre per cui lo farei.
C’è un episodio della sua carriera che ricorda con più affetto?
La telefonata di Luciano Gaucci nello spogliatoio dopo la vittoria a San Siro contro il Milan: era prima di Natale e prima del suo compleanno. Quell’episodio per me rimarrà indelebile perché ho avuto la percezione di quanto tenesse alla squadra, ai giocatori e di quando fosse coinvolto umanamente. In quel momento non era un presidente, ma un tifoso che aveva capito che la propria squadra aveva fatto un’impresa eccezionale: era la prima volta nella sua storia che il Perugia vinceva a San Siro.
Serse Cosmi “versione” dj
Se non avesse fatto l’allenatore quale mestiere avrebbe fatto, il dj?
In realtà sono un dj che per hobby fa l’allenatore! (scherza). Sono un insegnate di attività motoria, ho avuto per 10 anni una palestra quindi credo che sarei rimasto nell’ambito sportivo. Anche se, a 60 anni, a volte penso di reinventarmi e fare un altro mestiere. Per me la musica è un hobby ed è rimasto tale, il calcio è iniziato come hobby, ma poi è diventato un lavoro.
Ci racconti qualcosa di lei che i suoi tifosi non sanno…
Quando ho vinto il campionato con la Pontevecchio e siamo andati in serie D, siccome mio padre era stato un fondatore della società e la squadra non era mai arrivata in quella categoria, ho girato con la macchina per tutta la notte, pensando alla mia infanzia e a tante altre cose. È stata la cosa più coinvolgente da quando alleno.
E un suo segreto non legato al calcio?
Mi piacerebbe lavorare a teatro, conoscere persone e scoprire tutto di questo mondo. È un mondo che mi affascina molto.
Fa dei gesti scaramantici?
Quando allenavo i dilettanti cambiavo per ogni partita l’indumento intimo, non mettevo mai lo stesso. Oppure dopo aver vinto una partita facevo sempre lo stesso percorso, ma col tempo le scaramanzie sono molto diminuite.
Ha un aneddoto legato al Perugia, quando era solo un tifoso?
Col Perugia club di Ponte San Giovanni andai a vedere lo spareggio a Foggia: a metà strada eravamo già mezzi morti, tra birre e bevute varie. Per fortuna le tante ore di pullman ci hanno fatto recuperare e siamo arrivati allo stadio in modo dignitoso.
Come vede le scuole calcio umbre, come andrebbero potenziate?
Quando smetterò di fare l’allenatore, il mio sogno è quello di creare o far qualcosa nel settore giovanile del calcio. Sicuramente non si chiamerà scuola calcio, ma settore giovanile. Secondo me, uno dei mali peggiori in questo ambiente è quello di aver abbinato la parola scuola a calcio: la parola scuola ha un valore ed è un luogo in cui ci sono insegnati che formano i ragazzi, nelle scuole calcio invece il vero problema sono proprio coloro che insegnano perché presentano il calcio in modo distorto o comunque nel modo in cui non lo vedo io. Per questo il mio sogno è creare un settore giovanile dove non si paghi, dove emerga il talento e dove il calcio possa essere un vero valore sociale. Un luogo aperto a tutti, dove si premia il talento, ma anche dove tutti posso giocare.
Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?
Aspra – nell’atteggiamento delle persone – autentica, lontana.
La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…
Il titolo di questo articolo, che è anche il nome del progetto presentato ieri alla stampa presso la Rocca Albornoziana di Spoleto, è emblematico dello spirito da cui il progetto trae ispirazione e degli obiettivi che intende perseguire.
La Rocca è l’emblema di Spoleto, una città che è un vero e proprio scrigno contenente infiniti tesori, sia nel cuore delle sue mura sia al di fuori delle stesse e addirittura oltre quella rocca, che da secoli si erge come baluardo e sua suggestiva sentinella. Alle spalle della fortezza voluta da papa Innocenzo VI e edificata sotto la guida del cardinale-condottiero Egidio Albornoz, ci ritroviamo infatti in quella che viene definita la Montagna spoletina, la dorsale che per circa 7000 ettari si estende fra la strada stataleFlaminia e la Valle del Nera e che custodisce molteplici tesori naturalistici, storici e religiosi, visitabili attraverso sentieri suggestivi che meritano di essere conosciuti e valorizzati.
Dalla Rocca alla Roccia ha l’obiettivo di valorizzare, promuovere e riqualificare il forte legame fra Spoleto e la sua montagna proponendo percorsi che dalla Rocca – fulcro e cuore pulsante di tutto il progetto – si snodano sia verso il centro cittadino, sia verso quegli itinerari nel cuore della montagna.
Il progetto, vincitore del bando Por Fesr 2014-2020 Imprese culturali e creative, verrà realizzato dalla Rete Icaro, composta da tre aziende d’eccellenza umbre: Hyla Nature Experience (capofila del progetto), associazione attraverso la quale vengono organizzate iniziative esperienziali a contatto con la natura; Int.Geo.Mod.Srl, ex spin off dell’Università degli studi di Perugia che si occupa di attività di ricerca e sviluppo e formazione nell’ambito delle scienze della terra e di marketing territoriale e la Società Cooperativa Link 3C che ha sviluppato il Circuito Umbrex, piattaforma che attraverso servizi di marketing di prossimità, agevola gli operatori commerciali nelle compravendite, con la possibilità di utilizzare crediti commerciali nei pagamenti.
Nuove tecnologie a supporto del turismo
Dalla Rocca alla Roccia è stato riconosciuto idea innovativa perché ha saputo progettare una soluzione integrata di nuove tecnologie a supporto del turismo, fornendo una risposta completa alle diverse esigenze del potenziale turista: attraverso supporti innovativi sono state individuate soluzioni funzionali a favorire il turismo sostenibile e il miglioramento dell’accessibilità anche verso i disabili, tramite la creazione di esperienze immersive per il turista, la realizzazione di eventi, la realizzazione di percorsi verdi e reti di mobilità leggera. Saranno disponibili pacchetti dedicati alle famiglie e alle scuole, strumenti pensati per comunicare le bellezze del territorio ai più piccoli, eventi tematici di comunicazione ambientale e storica, di divulgazione scientifica, percorsi esperienziali e enogastronomici.
Il centro multimediale e la App di realtà aumentata
La Rocca diventerà un centro multimediale dove, attraverso totem touchscreen, sarà possibile avere informazioni multilingua sui principali siti di interesse del territorio. Qui si potranno noleggiare tablet che accompagneranno il turista attraverso il suo “viaggio”, il percorso che lui stesso sceglierà di intraprendere e nel quale sarà guidato dalla App di realtà aumentata che, tramite una tecnologia altamente innovativa, si attiverà automaticamente in prossimità dei siti di maggiore interesse individuati dal progetto, fornendo informazioni, contributi fotografici e video.
Rocca Albornoziana di Spoleto, foto di Enrico Mezzasoma
Pacchetti turistici e i circuiti di credito commerciale
Sarà possibile usufruire dell’accompagnamento da parte di guide escursionistiche ambientali alla scoperta di quei sentieri della Montagna spoletina di cui parlavamo: la Greenway, i Fontanili di Monte Fionchi, Monteluco, la rete escursionistica delle aree di pregio ambientale del Comune di Spoleto. Attraverso un’attività di coinvolgimento delle strutture ricettive del territorio, le escursioni saranno inserite in veri e propri pacchetti turistici che verranno proposti nel mercato complementare del Circuito Umbrex (regionale) e dei circuiti di credito commerciale presenti in altre undici regioni italiane, attraverso il portale www.viaggiareincrediti.it.
Il Laboratorio di Scienze della Terra
Altro attrattore protagonista dell’attività di promozione portata avanti dal progetto è il Laboratorio di Scienze della Terra, all’interno del quale verrà creata un’aula dotata di proiezioni panoramiche per uno spazio didattico immersivo grazie alle tecniche di video mapping. Qui sarà disponibile anche un bookshop per la vendita di libri/guide sul territorio e gadget ispirati al branding del progetto.
Servizi aggiuntivi
Il tutto verrà promosso attraverso il sito webwww.dallaroccaallaroccia.it – attualmente in allestimento, ma che vi invitiamo a monitorare – che consentirà il costante reperimento di informazioni, la possibilità di prenotazione on line dei servizi offerti, i collegamenti con le strutture ricettive del territorio e l’accesso a un’edicola virtuale in cui sarà raccolto il materiale editoriale digitale disponibile (o realizzato ad hoc) su Spoleto e i suoi attrattori.
Insomma, un progetto ricco e ambizioso a cui auguriamo grande successo perché l’Umbria ha bisogno – e si merita! – progetti coraggiosi al servizio dell’immenso patrimonio naturalistico, culturale e artistico che questa regione è in grado di offrire. AboutUmbria lo seguirà da vicino e cercherà di contribuire alla sua divulgazione, certi che i nostri tanti lettori apprezzeranno un’iniziativa virtuosa a sostegno della nostra amata regione, di cui Spoleto è senz’altro uno dei più importanti fiori all’occhiello.
L’amore per un mestiere che si trasforma in arte: questa è la storia di come ragazzo ha salvato il sapere di un tempo. A guidarlo, l’anziana nonna.
Siamo attesi presso il Retificio Mancinelli, a San Feliciano (Magione). A incorniciare il giardino ci sono i cerchi di plastica delle reti più grandi, affastellati da una parte a indicare l’industriosità di quella apparentemente tranquilla villetta di lago.
Andrea Mancinelli e sua nonna ci accolgono nella stanza da lavoro, grande e luminosa, che il sole mattutino taglia obliquamente come un diamante perfetto. Da un lato, le sedie di legno impilate si innalzano faccia a faccia con un appendiabiti particolare, che invece dei vestiti mette in mostra le reti.
Una stanza smarrita tra le pieghe del tempo
Sì, perché è in questa stanza tutta finestre che Andrea e sua nonna cuciono le reti. Il Retificio Mancinelli potrebbe infatti ridursi a questa luminosa scatola, dove il ragazzo impara il mestiere dei vecchi e gli dona nuova vita, coadiuvato da quella che è una vera e propria istituzione da queste parti. Non sembra poi così fuori luogo quel tavolo, pericolosamente simile alla cattedra di una scuola, stretto tra scatoloni ripieni di reti e ricoperto di piombini, galleggianti e aghi.
Una stanza che sembra smarrita nel tempo, con i modellini in cotone delle reti e la foto del defunto patriarca a tenere sotto controllo ogni colpo di ago e gioco di mano, elementi coreografici, sebbene pratici, di un lavoro artigianale che affonda le sue radici nella vita quotidiana dei pescatori del Trasimeno.
A completare la scena, una sorta di sgabello di legno posto sopra un armadietto – che poi scoprirò essere un sostegno per le grosse nasse di nylon – e alcune carrucole che pendono dal soffitto e alle quali Andrea appende subito un tofo.
Mentre i fotografi si scatenano, osservo la perfezione tecnica di tale creazione, con i suoi inganni dal nome emblematico che intrappolano l’ingenuo pesce. Andrea, nel frattempo, ci dà una dimostrazione pratica di come la rete viene attaccata ai cerchi, contando i punti uno per uno: ogni quattro punti si ferma e fa un nodo, lasciando presagire un lavoro piuttosto ripetitivo, ma che chiede in cambio un’estrema attenzione. Quello che lui chiama ago, è in realtà l’achecella, una sorta di pettine a due soli denti che Andrea muove in maniera fluida e sapiente, come se stesse pettinando la chioma dell’amata.
Foto di Claudia Ioan
Foto di Claudia Ioan
Foto di Claudia Ioan
Foto di Claudia Ioan
Foto di Claudia Ioan
Foto di Claudia Ioan
Foto di Claudia Ioan
Foto di Claudia Ioan
Foto di Massimiliano Tuveri
Foto di Massimiliano Tuveri
Foto di Massimiliano Tuveri
Dal 1955
E pensare che, secondo sua nonna, ha ancora molto da imparare. Cerco di capire se è fiera di suo nipote, di come ha ripreso il mestiere sul quale ha ruotato la sua vita. Invece di rispondermi, inizia a parlare di sé.
È dal lontano 1955 che fa questo lavoro certosino, ma da un anno a questa parte ha dovuto smettere per via della salute che comincia a vacillare. Ha lavorato tanto e con passione, ma ora sente di essersi invecchiata e le si spezza il cuore. La paura per la sua salute, così come l’impossibilità di rassegnarsi all’inevitabilità di una situazione, le incrinano la voce – ma non c’è bisogno che sia io a dirle che è una guerriera e che tutti vorremmo avere una nonna come lei.
Precisione ed esperienza
Dalla breve dimostrazione di Andrea capiamo che questo tipo di lavoro è estremamente complicato: richiede precisione e esperienza, così come una soglia d’attenzione estremamente elevata. A dimostrazione di tale tesi, Andrea dispiega un tramaglio stendendolo tra l’appendiabiti e la finestra a est: il nylon, inizialmente di un azzurro chiarissimo, sembra quasi scomparire, sospeso tra il pulviscolo e il sole di tarda mattina. Adesso capisco perché la stanza è così luminosa.
Non deve essere facile, inoltre, ricordarsi gli innumerevoli schemi delle altrettanto innumerevoli tipologie di reti. Spuntano allora degli appunti consunti, conservati nei cassetti della cattedra-scrivania: schemi, numerazioni, aggiornamenti. Tutto quello che serve per costruire una rete perfetta è scritto lì, su fogli contabili e quaderni scollati, un patrimonio dall’aspetto umile che vale più di un raro tesoro.
È il sapere che permette di costruire i complicati tramagli e le similari reti per la caccia alla lepre, o quelle per il mare, per lo sport, per le vetrine, per i ristoranti e per i giochi dei bambini. Quelle reti che generazioni e generazioni di pescatori hanno steso sul lago Trasimeno, il cui verde pastello si staglia discreto in fondo alla strada.
Se si toglie un diamante a un edificio perfetto tutto sembra sgretolarsi…
Sulla copertina campeggia questo diamante perfetto e per un lungo tratto del romanzo mi sono chiesta che cosa c’entrasse un diamante in copertina per un libro che in gran parte è ambientato a Perugia. Poi, continuando la lettura, tutto mi è apparso perfettamente chiaro: non soltanto perché l’azione si sposta a Ferrara e si parla della leggenda legata a Palazzo dei Diamanti, ma perché il diamante rappresenta anche la preziosa unicità di ogni membro di un gruppo nel quale, se un elemento viene rimosso, produce una terribile deflagrazione che porta inevitabilmente allo sfaldamento dell’unità: da quel momento non esiste più un noi, ma ognuno, da solo, deve percorrere la strada per divenire adulto.
Le storie di Santo, Babila, Elettra, Mirro e Sandrino, se da un lato ci riportano a pensare a quello che forse è il film più bello sull’adolescenza – Stand by me: ricordi di un’estate, tratto dal celebre racconto di Stephen King – dall’altro ci fanno assaporare i ricordi di una Perugia in cui la vita era scandita da ritmi diversi, dove il centro non era approntato per i turisti, ma era un luogo vivo, il cuore pulsante della città. Un centro cittadino forse più malandato di quello di oggi, ma traboccante di vita vera e vissuta. L’amore al tempo del design è un bel libro che racconta più di una storia d’amore, quella tra Santo e Babila, che, quale fil rouge, ci accompagna dalla prima all’ultima pagina. Ci riporta a un periodo della storia italiana difficile e complesso, dove gli eventi fanno da sfondo e rendono tutto molto concreto e vero, senza però appesantire una storia che è bella così, perché possibile e vera, sebbene in essa entri anche il fantastico grazie a quella capacità che Santo ha di incidere con la forza della mente sugli eventi che lo turbano.
Stelio Zaganelli
Come ogni libro, anche questo è in parte autobiografico, nel senso che in esso Stelio Zaganelli ricorda tutte le città a lui care: Perugia dove ha sempre vissuto, Ferrara che gli ha dato i natali, Firenze dove è divenuto architetto e Milano dove si è spesso recato per lavoro e per piacere. Quando egli parla delle scale mobili e del restauro del centro storico di Perugia non si può inoltre non pensare a un omaggio al nonno omonimo dell’autore che fu sindaco dal 1977 al 1980. Certo anche nei personaggi, così vivi e veri, ci devono essere i ricordi di persone e di caratteri vissuti dall’autore e forse l’aver scelto nomi davvero particolari – che soli un po’ stonano nella narrazione talmente vivida di un tempo che oggi ci appare lontano e perso – serve proprio a nascondere identificazioni reali e a voler consegnare il tutto alla pura fantasia.
Di certo, al termine della lettura, un’intera generazione di perugini riporrà questo libro con cura e lo conserverà nel cuore e nella mente con particolare affetto, proprio perché vi avrà riconosciuto una parte importante della propria storia.
«Non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell’anima». (Ingmar Bergman)
Il cinema è un’arte che si fa in squadra. Tutti conoscono gli attori e il regista, ma il grande lavoro arriva dalle diverse maestranze che, impiegate dietro le quinte e unite in una stretta collaborazione, raggiungono l’obiettivo finale: il film. Questa filosofia ha ispirato gli umbri che lavorano nel mondo del cinema a unirsi per mettere in campo la loro forza, ma soprattutto la loro professionalità. È nata così l’Associazione Mestieri del Cinema Umbri – di recente costituzione – formata da residenti umbri con curriculum professionale in tutti i reparti della produzione cinematografica e televisiva. L’associazione conta oggi un’area, tra soci, collaboratori e partner, di oltre 100 persone, legate dalla visione comune di uno spazio di confronto e crescita nel proprio territorio.
Alcuni momenti durante la realizzazione del corto
«I nostri obiettivi sono molteplici: il primo è lo scambio di idee, ognuno rinforza e arricchisce gli altri con i propri pensieri. Un secondo traguardo è quello di far rivivere un settore, quello del cinema, che potrebbe favorire indotti lavorativi di tanti tipi. E infine, dialogare con le istituzioni. Esiste, infatti, una legge del 2016 che dovrebbe essere applicata per incentivare le produzioni. In Umbria ci sono tanti festival molto belli e interessanti, ma fanno parte del settore della distribuzione, quello che manca e che noi vorremmo portare, sono delle produzioni che possano far lavorare i vari settori cinematografici» illustra il presidente dell’associazione Federico Menichelli. «Per l’Umbria è una vera novità, nessuno prima aveva mai pensato di creare un’associazione di questo genere. Non solo, è utile per un confronto tra addetti ai lavori, ma soprattutto per far ripartire in Umbria questo settore» fa eco la costumista Isabella Sensini, anche lei membro del gruppo.
Da poco tempo è stata ricostituita l’Umbria Film Commission: sono presenti nuove produzioni e soprattutto ci sono tanti operatori del cinema costretti a lavorare fuori regione: «L’Umbria Film Commission può dialogare con la nostra associazione di categoria e potrebbe non solo accogliere nuove produzioni, ma anche creare dei prodotti da esportare», prosegue il presidente.
Gli studi del Centro Multimediale di Terni
L’importanza dell’unione è sostenuta anche da Alessio Rossi, addetto ai casting: «Molti di noi lavorano a Roma o in altre città e questo fa perdere all’Umbria grandi possibilità d’incrementare le produzioni. Così potremmo creare lavoro anche qui. Inoltre, nel mondo dello spettacolo più si è uniti e si conoscono persone, più si lavora». Karina Y Muzzio, make up artist, è felice di far parte di questo gruppo perché crede che sia una grande occasione per rilanciare la settima arte nostrana: «L’Umbria è una regione che offre molto, ma è fondamentale unirsi per dare una spinta concreta a questo settore».
Il biglietto da visita che ha presentato l’Associazione Mestieri del Cinema Umbri è stato un cortometraggio dal titolo Umbria: La Rinascita, girato all’interno del Centro Multimediale di Terni.
«Si tratta di una struttura molto importante, con due studi – uno di 900 metri quadri e uno con il green screen – che potrebbe essere utilizzata per fare formazione o per attirare produzioni da fuori, sfruttando anche il panorama e i borghi circostanti. Oggi è di proprietà del Comune di Terni ed è un luogo vuoto e non utilizzato. Rilanciarlo sarebbe fondamentale» sottolinea Menichelli.
Il cortometraggio
Il cortometraggio Umbria: La Rinascita è stato il primo passo di un movimento tecnico-artistico che, dopo anni di silenzio e isolamento, ha ricongiunto i professionisti umbri all’insegna del rispetto reciproco per progetti comuni. Il corto è stato realizzato con il completo e totale investimento di tutti i professionisti dei vari reparti: tutti gli interpreti hanno partecipato a titolo gratuito per sostenere la propria regione d’origine.
Valeria Ciangottini e Federico Menichelli
«Da bravi artigiani, il nostro primo passo è stato quello di girare un cortometraggio. Siamo molto contenti perché abbiamo raggiunto oltre 23.000 visualizzazioni e abbiamo coinvolto artisti del calibro di Alfiero Toppetti e Valeria Ciangottini. Ognuno ha dato quello che aveva e che poteva dare. Tra i partecipanti – ed è un segno importante – c’è anche l’amministrazione comunale di Terni. Il nostro prossimo passo è attirare l’attenzione degli imprenditori e della Regione, che deve allinearsi a un panorama nazionale molto più avanzato. Serve un fondo cinema e occorre che le produzioni vengano attratte dall’Umbria: la forza della regione sta nel fatto che, sul grande schermo, non appare così spesso. Ecco, mettendo insieme tutti i pezzi si può fare molto», conclude Federico Menichelli.
«La cittadina si presenta solenne e poderosa, con quella sua porta, il corso e la chiesa di San Francesco» (M. Tabarrini)
Vista di Monteleone di Spoleto, foto di Claudia Ioan
Storia
Posto su un colle lungo la valle del fiume Corno, Monteleone
di Spoleto è tra i borghi più belli e caratteristici della Valnerina.
Nei secoli, grazie alla sua posizione, ha guadagnato l’appellativo di Leone
degli Appennini. Il suo territorio è inserito in uno degli angoli
naturalistici e paesaggistici più gradevoli e incontaminati dell’Appennino
centrale.
La città è come un piccolo
scrigno che custodisce da secoli preziosi oggetti di storia, arte e
architettura: vanta,
infatti, antichissime origini, come testimoniano le numerose tombe ritrovate
nei dintorni. Delle passate epoche di guerre e assedi
rimangono numerose testimonianze, di cui la più celebre è la biga del VI secolo a.C.,
qui ritrovata nei primi anni del Novecento, e della quale si conserva nel museo
– all’interno della Chiesa di San Francesco – una splendida copia.
L’originale è invece esposto al Metropolitan Museum of Art di New York.
La cittadina, fin dall’antichità, appare al visitatore solenne in tutta la sua maestosità; testimone delle sue antiche vestigia, Monteleone ostenta al viandante tutta la fierezza della sua storia. Il paese infatti, isolato tra le brulle montagne dell’Appennino, è ricco di simboli e significati. Curioso è il ripetersi di certi numeri: tre sono le cintemurarie e, ognuna di esse, è provvista di tre porte, sei le torri e otto i baluardi della città. Il castello, cinto da solide mura, torri di vedetta e porte, conserva al suo interno la tipica urbanistica medievale e rinascimentale con case, chiese e palazzi gentilizi che si affacciano su vicoli e piazzette. Elemento caratteristico di tutto il paese è la roccia locale bianca e rossa, che rende la sua architettura unica, capace di richiamare la magica bicromia degli antichi ordini cavallereschi. Il territorio conta quattro nuclei abitativi (Ruscio, Rescia, Trivio e Butino), i quali erano legati principalmente all’attività agricola e pastorale e a celebri attività industriali, come le miniere di lignite di Ruscio e quelle di ferro, dalle quali, secondo la tradizione, fu estratta la materia prima per i cancelli del Pantheon a Roma.
Il farro di Monteleone, foto di Claudia Ioan
Eccellenze a Monteleone di Spoleto
A rendere Monteleone di Spoleto una cittadina ancora più meravigliosa è il colore ambrato che contraddistingue i suoi terreni: il farro di Monteleone è tra le eccellenze d’Italia, tanto che, grazie all’impegno dei produttori locali, è stato possibile richiedere e ottenere il marchio D.O.P (Denominazione di Origine Protetta).
Monteleone di Spoleto, foto Claudia Ioan
Chiesa di San Francesco
Varcate
le mura della città, è possibile scoprire, attraverso piacevoli percorsi,
importanti ricchezze storiche e artistiche, come la Chiesa di San Francesco,
costruita tra XIV-XV secolo. La chiesa è l’opera più appariscente e suggestiva
per complessità di storia, sviluppo, arte e fede. È un libro con santi e
simbologie da scrutare e leggere con cura. Il titolo della
chiesa è in realtà quello di S. Maria o meglio Madonna dell’Assunta, ma è
comunemente nota col nome del poverello d’Assisi da quando intorno al 1280 vi
s’insediarono i primi francescani. Infatti, fino alla soppressione del
convento, l’ordine francescano in Monteleone utilizzò sempre e in ogni atto
ufficiale un sigillo recante l’emblema dell’ordine sovrastato dall’immagine
dell’Assunta rapita in cielo con le iniziali S(anctae) M(ariae). Vari affreschi
decorano le pareti della chiesa con immagini devozionali fatte eseguire
probabilmente da pittori della scuola umbra del sec. XIV.
Chiesa di San Nicola
La chiesa
è posta nel punto più alto del centro storico; ha origine altomedievale, infatti
i primi documenti risalgono al 1310. Presenta una pianta disposta su un’unica
navata provvista di dieci cappelle con propri altari. Il soffitto è a cassettoni e ricoperto da una tela dipinta a
tempera con motivi floreali. Tra le diverse opere di notevole pregio citiamo
La decollazione di S. Giovanni Battista fra S. Antonio da Padova, S. Isidoro
e la Maddalena, attribuita al pittore Giuseppe Ghezzi e l’Annunciazione,
probabilmente opera di Agostino Masucci.
Chiesa di Santa Caterina
Nel 1310 cinque monache agostiniane, provenienti dal Monastero di S. Caterina a Norcia, chiesero al Capitolo di S. Nicola una chiesetta e una casa nella parte bassa di Monteleone per edificarvi un monastero. Sia la casa sia la chiesa erano fuori la cerchia delle mura, costruite nel 1265. Le monache rimasero lì per quasi cinque anni. Della stupenda chiesa settecentesca, restano soltanto le mura perimetrali.
Chiesa di Santa Caterina, foto Enrico Mezzasoma
Chiesa di Santa Maria de Equo
L’ambiente interno della chiesa è tipico delle pievi campestri: al centro della chiesa è posto un altare settecentesco, ornato da una statua lignea della Madonna con Bambino; ai lati, all’interno di due nicchie, ci sono le statue lignee di S. Pietro e S. Paolo. Lungo la parete di sinistra è raffigurato il venerabile Gilberto o Liberto, eremita qui vissuto per molti anni.
Bibliografia:
L’Umbria si
racconta. Dizionario E-O, Foligno 1982 di Mario Tabarrini.