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“Vorrei scoprire il mondo del teatro”

di Agnese Priorelli

«Sono un perugino di Ponte San Giovanni, nato e cresciuto lungo il Tevere. Questo fiume ha rappresentato – e rappresenta – molto per me».

Il mio telefono squilla.

«Buongiorno, sono Serse Cosmi. Possiamo fare l’intervista ora, che più tardi sono impegnato?».

«Va bene, mi dia cinque minuti».

Ammetto che ancora non avevo acceso il computer ed ero mezza assonnata, ma mi sono subito svegliata. Rare volte qualcuno mi ha chiamato per anticipare un’intervista e non per annullarla: non Serse Cormi, lui è uno di parola!

Non gliel’ho confessato (ora lo leggerà qui), ma ero sugli spalti dello stadio Curi quando allenava il Perugia. Chiacchierare con lui è stato divertente, c’è scappata più di una risata. Nonostante abbia girato l’Italia per allenare tante squadre – dalla Pontevecchio all’Arezzo, dal Perugia al Genoa, fino all’Udinese, Brescia, Livorno, Palermo, per citarne alcune, resta un perugino D.O.C. anzi come tiene a specificare lui: «un perugino di Ponte San Giovanni».

Serse Cosmi

Mister qual è il suo legame con l’Umbria?

Gli umbri sono legati in maniera viscerale alla loro terra e alle loro radici: io, facendo una professione che mi porta in giro per l’Italia, sento molto questo legame. Quando sei fuori apprezzi ancora di più dove sei nato e la tua terra. Per me è, e rimane, un legame fortissimo.  

Si considera ancora l’Uomo del fiume, uomo di Ponte San Giovanni?

Assolutamente sì. Io sono un perugino di Ponte San Giovanni (n.d.r. frazione di Perugia) e in questo c’è differenza: quando ero piccolo c’erano i perugini del centro e quelli dei ponti. Io rivendico a gran voce di essere di Ponte San Giovanni e di essere nato vicino al Tevere, un fiume al quale sono legato fin dall’infanzia.

Il Tevere cosa ha rappresentato per lei?

La mia generazione è forse l’ultima che ha fatto il bagno nel Tevere: ho imparato a nuotare nelle sue acque, giocavo lì e ovviamente andavo a ballare al Lido Tevere. Ho passato la mia infanzia vicino al fiume, crescere vedendolo scorrere è qualcosa che ti porti dentro per sempre.     

Oggi c’è un’ondata di allenatori che non ha fatto una vera gavetta, partendo da squadre di categoria minore come ha fatto lei: cosa ne pensa, è un cambiamento del nostro tempo o la fretta di mettere un “nome” in panchina?

È un po’ tutte e due. Chi è stato un grande calciatore ha già avuto in quel mestiere dei grandi privilegi, ma non reputo giusto che, nel momento in cui si cimenta in un altro mestiere – cioè quello di allenatore – non debba fare la stessa gavetta che ha fatto per arrivare ai massimi livelli di calciatore. Mi spiego meglio: chi ha giocato con la Juve, l’Inter o il Milan ha fatto un suo percorso, partendo dalle serie minori per arrivare a vestire quella maglia. Stessa cosa dovrebbe valere per un allenatore, considerando che si tratta di un altro mestiere. Se poi l’allenatore viene visto come il prolungamento della carriera di calciatore, allora sto zitto! Ovviamente un grande calciatore può diventare anche un grande allenatore…

Però non è scontato nemmeno il contrario: che un grande calciatore per forza diventi un grande allenatore…

Sì, infatti. Io ricordo sempre una frase di Arrigo Sacchi: «Non è che per essere un buon fantino devi essere stato un cavallo».     

Gaucci, Zamparini, Preziosi… ha incontrato dei veri mastini: in questi anni pensa che sia cambiato il rapporto tra allenatori e presidenti?   

I tempi sono decisamente cambiati. I presidenti ora sono più dei manager, l’aspetto passionale è diminuito – fermo restando che il loro ruolo manageriale c’è sempre stato. Col tempo nel calcio sono cambiate tante figure, di conseguenza è cambiata anche quella dei presidenti, che oggi si occupano di aspetti molto diversi rispetto a 20-30 anni fa. Si confrontano apertamente con gli allenatori e parlano con loro di calcio come se facessero lo stesso mestiere, ma la cosa non è intercambiabile. Gaucci, ad esempio, è stato uno dei presidenti meno invadenti con cui ho lavorato. Lui era più un tifoso e le sue reazioni erano di conseguenza da tifoso, però non ho mai avuto la sensazione che mi spingesse – anche in modo velato – a far giocare un calciatore al posto di un altro. Se è successo, è stato talmente abile che non me ne sono mai accorto! (ride).

C’è un calciatore al quale è particolarmente legato?

Ce ne sono tanti, ma sono rimasto più legato con quelli di inizio carriera con i quali ho condiviso tanti avvenimenti umani e sportivi. Penso ai ragazzi della Pontevecchio, dell’Arezzo e dei primi anni del Perugia. Poi ho conosciuto anche altri calciatori che spesso sento, ma il rapporto più diretto l’ho mantenuto con quelli con i quali ho iniziato. 

Chi avrebbe voluto allenare e non lo ha mai fatto?

Francesco Totti. È un giocatore che mi ha sempre incuriosito.

Ha nostalgia del Perugia? Ha mai pensato di tornare ad allenarlo o è un’epoca che si è conclusa?

Nostalgia no. Si è nostalgici di un qualcosa che non si potrà mai più verificare. Finché farò questo mestiere ci potrebbe essere sempre un’opportunità per ritornare sulla panchina del Perugia, fatto sta che – in 30 anni che alleno – non sono mai ritornato in una società dove sono già stato. Questo è un dato indicativo.

Magari per il Perugia lo farebbe…

Diciamo che è una delle poche squadre per cui lo farei.

C’è un episodio della sua carriera che ricorda con più affetto?

La telefonata di Luciano Gaucci nello spogliatoio dopo la vittoria a San Siro contro il Milan: era prima di Natale e prima del suo compleanno. Quell’episodio per me rimarrà indelebile perché ho avuto la percezione di quanto tenesse alla squadra, ai giocatori e di quando fosse coinvolto umanamente. In quel momento non era un presidente, ma un tifoso che aveva capito che la propria squadra aveva fatto un’impresa eccezionale: era la prima volta nella sua storia che il Perugia vinceva a San Siro.   

Serse Cosmi “versione” dj

Se non avesse fatto l’allenatore quale mestiere avrebbe fatto, il dj?

In realtà sono un dj che per hobby fa l’allenatore! (scherza). Sono un insegnate di attività motoria, ho avuto per 10 anni una palestra quindi credo che sarei rimasto nell’ambito sportivo. Anche se, a 60 anni, a volte penso di reinventarmi e fare un altro mestiere. Per me la musica è un hobby ed è rimasto tale, il calcio è iniziato come hobby, ma poi è diventato un lavoro.

Ci racconti qualcosa di lei che i suoi tifosi non sanno…

Quando ho vinto il campionato con la Pontevecchio e siamo andati in serie D, siccome mio padre era stato un fondatore della società e la squadra non era mai arrivata in quella categoria, ho girato con la macchina per tutta la notte, pensando alla mia infanzia e a tante altre cose. È stata la cosa più coinvolgente da quando alleno.  

E un suo segreto non legato al calcio?

Mi piacerebbe lavorare a teatro, conoscere persone e scoprire tutto di questo mondo. È un mondo che mi affascina molto.  

Fa dei gesti scaramantici?

Quando allenavo i dilettanti cambiavo per ogni partita l’indumento intimo, non mettevo mai lo stesso. Oppure dopo aver vinto una partita facevo sempre lo stesso percorso, ma col tempo le scaramanzie sono molto diminuite.

Ha un aneddoto legato al Perugia, quando era solo un tifoso?

Col Perugia club di Ponte San Giovanni andai a vedere lo spareggio a Foggia: a metà strada eravamo già mezzi morti, tra birre e bevute varie. Per fortuna le tante ore di pullman ci hanno fatto recuperare e siamo arrivati allo stadio in modo dignitoso.  

Come vede le scuole calcio umbre, come andrebbero potenziate?

Quando smetterò di fare l’allenatore, il mio sogno è quello di creare o far qualcosa nel settore giovanile del calcio. Sicuramente non si chiamerà scuola calcio, ma settore giovanile. Secondo me, uno dei mali peggiori in questo ambiente è quello di aver abbinato la parola scuola a calcio: la parola scuola ha un valore ed è un luogo in cui ci sono insegnati che formano i ragazzi, nelle scuole calcio invece il vero problema sono proprio coloro che insegnano perché presentano il calcio in modo distorto o comunque nel modo in cui non lo vedo io. Per questo il mio sogno è creare un settore giovanile dove non si paghi, dove emerga il talento e dove il calcio possa essere un vero valore sociale. Un luogo aperto a tutti, dove si premia il talento, ma anche dove tutti posso giocare.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Aspra – nell’atteggiamento delle persone – autentica, lontana.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

Spello.

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Agnese Priorelli

Laureata in Scienze della Comunicazione, è giornalista pubblicista dal 2008. Ha lavorato come collaboratrice e redattrice in quotidiani e settimanali. Ora collabora con un giornale online e con un free press. È appassionata di cinema e sport.