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Eulalia Torricelli da Forlì aveva tre castelli: uno per mangiare, uno per dormire e uno per amare De Rossi Giosuè. Bei tempi, quando i castelli servivano a dame e cavalieri per divertirsi e godere dei piaceri della vita.  

Invece proprio nel centro dell’Umbria i castelli sono stati la linea di frontiera tra due mondi: Longobardi e Romani. Quando da Todi si guarda la collina che si ha di fronte, si nota subito la grande macchia del castello di Grutti, imponente e minaccioso. Poi, osservando meglio, si vede che la salita è costellata da torri di vedetta, da castelli, da borghi fortificati, da resti di monasteri e tracce dell’assistenza ospedaliera ai pellegrini.  
 
Tra il XII e XIII secolo Todi era potente, voleva espandersi e contemporaneamente doveva difendersi, e fu necessario creare una solida barriera protettiva, che è ancora in piedi. 
La linea di difesa andava in larghezza da Todi a Marcellano e in lunghezza da Massa Martana a Gualdo Cattaneo. I castelli sono sparsi con abbondanza, come il parmigiano. Sono circa trenta luoghi fortificati. Così tanti in così poco spazio servivano a rendere impenetrabile la linea di confine tra Todi e il resto del mondo.  
Montagne di pietre messe lì a difendere contendenti irriducibili, che sono state date alle fiamme e ricostruite, rase al suolo e ricostruite, demolite e lasciate lì e gli abitanti trucidati e le donne violentate. È mancata la no man’s land: non c’erano zone franche, uccidere e godere nell’uccidere erano la regola. 
Mentre san Francesco predicava agli uccelli e ammansiva i lupi e un secolo dopo Jacopone da Todi scriveva lo struggente lamento di Maria «figlio, figlio amoroso giglio… figlio bianco e vermiglio» e i pellegrini attraversavano quella zona per scendere a pregare a Roma e a Gerusalemme, lassù sul confine accadeva di tutto e il peggio di tutto. 

Il castello di Pozzo. In copertina, quello di Assignano

Le zolle dell’altopiano di San Terenziano sono impregnate del sangue dei combattenti e dei paesani e in più anche del sangue dei primi martiri cristiani. Le strade che salgono da Ponte Rio seguono antichi percorsi fiancheggiati da chiesette di martiri e da imponenti manufatti in posizione dominante e altri nascosti per sorprendere armati e viandanti.   
Foreign fighters o, per dirla all’italiana, mercenari, bande armate al soldo di chiunque, Braccio Fortebracci, Cesare Borgia, imperiali, conti, duchi e principi e il papa, ogni essere umano assetato di potere è passato di là per lasciare delle impronte sanguinolente. 
Tutti sono stati sotto il dominio di Todi, prima della famiglia Atti e poi dell’arcivescovado, che li ha segnati per sempre apponendo il suo stemma: un’aquila con l’occhio grifagno e le cosce da tacchino. 
I castelli dell’altopiano hanno resistito al tempo e ai terremoti, molti sono ancora abitati altri sono restaurati e altri sono stati trasformati in residenze. Scovarli è una caccia al tesoro che regala la scoperta di borghi attraversati da una o al massimo due strade, con pochissime macchine, dove domina il silenzio della natura. Si può trascorrere una giornata alla ricerca di questi castelli piccoli, scoprendo angoli emozionanti di un Medioevo ormai lontano ma ancora visibile.  
 

I castelli nascosti

Uno dei castelli nascosti tra colline e boschetti è quello di Viepri. Si sale fino a Castelvecchio e poi si scende nel vallone del castello. Il borgo ha una sola porta, sovrastata dallo stemma con l’aquila di Todi, e una sola strada. Tutto qua. Eppure quella stradina è una delizia che mostra l’antico e il suo rifacimento. Nel castello c’è una piccola chiesa, dedicata a San Giovanni, inserita nello spessore delle mura. Per visitarla si cerca la signora Cristina che ha le chiavi e che racconta volentieri la vita al borgo qualche anno fa. 
Assignano non si fa trovare facilmente. Salendo da Pantalla si trova l’indicazione e si arriva in un luogo così isolato e silenzioso che t’invita a camminare in punta di piedi. Le mura sono un po’ malmesse, a causa dell’azione del tempo e a causa della grande battaglia che nel 1408 ha messo di fronte le truppe perugine e i foreign fighters di Braccio da Montone. Perugia fu sconfitta. Ma non era finita lì. Qualche anno dopo, il nipote di Braccio, Niccolò, assalì il castello e lo devastò. Passando dall’unica porta d’accesso, con tanto di aquila, si entra in un borgo piacevole e ben restaurato.  
Cambiando  strada e passando da Collesecco, dopo un bel tragitto in mezzo agli olivi, si arriva a Pozzo. Un nome un programma: olio. Sembra che l’attività molitoria di Pozzo si perda nella notte dei tempi e che il pozzo servisse a conservare l’olio. Trovare la porta con l’aquila non è semplicissimo, ma il borgo conserva belle architetture medievali e scorci suggestivi.  

CONTINUA…

 


Ruggero Iorio, Le origini della diocesi di Orvieto e Todi, alla luce delle testimonianze archeologiche (1995) 
Emore Paoli, Marcellano indagine su un castello medievale umbro (1986) 
Vincenzo Fiocchi Nicolai, Umbria cristiana, dalla diffusione del culto al culto dei santi (2001) 
Atti del convegno internazionale e studi sull’alto Medioevo
Paolo Boni, San Terenziano e il suo altopiano 
www.isentieridelsilenzio 
Maurizio Magnani, Il signore di Collazzone (2010) 
Italia – Umbria: Istituto geografico de Agostini (1982) 
Alexander Lee, Il Rinascimento cattivo 

Oggi ho passeggiato in un giardino incantato.
Un grande prato con alberi, fiori e rose di tutti i colori.
Rose selvatiche con solo cinque petali e rose ibride con un numero infinito di petali, rose profumate e senza profumo, bianche, rosse, gialle, rosa, screziate e tinta unita.
Una tavolozza sterminata di sfumature di colori.

Mi sono venute in mente tante parole dedicate alle rose, ma forse quelle che sono rimaste nella testa e nel cuore di milioni di persone sono solo rosa, rosae, rosae… La prima declinazione latina che rappresentava l’ambito passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Diventavamo grandi con le rose senza profumo di una civiltà lontana.
Rosa, rosae. Le conoscenze botaniche sono venute dopo. Un giardino spontaneo come quello che ho visto, non nasce per caso; ci vuole studio, conoscenza dell’ambiente e la capacità di attendere.

Che crescano spontanee!

Questa meraviglia è stata realizzata dalla signora Helga Brichet, che in poco spazio ha raccolto l’intero mondo. La signora Helga viene dal Sud Africa, vive in Umbria in zona Torri dove coltiva rose cinesi e di altre parti del mondo. Dimenticavo. Il marito è belga.
Insomma i cinque cerchi olimpici sono fatti.

coltivazione rose in umbria

Il giardino

Non aspettatevi il solito giardino delle rose con cespugli ordinati e con passaggi romantici coperti da roselline rampicanti. La signora Helga ha lasciato che i cespugli di rosa mantenessero una forma spontanea, la forma che ha dato loro la natura. E se si devono arrampicare, trovano alberi e pareti su cui salire. Per esaltarne la bellezza le ha accompagnate con altri fiori, come i papaveri, le pervinche e le campanelle azzurre.
Nel giardino fioriscono due tipi di rose, quelle selvatiche e quelle ibride cinesi, che sono antiche, ma sono arrivate in Europa solo verso la fine del 1700 e gli inizi del secolo successivo, subito dopo l’arrivo della porcellana. Da quel momento l’Europa ha conosciuto le rose rosse, quelle della festa degli innamorati. E se ne è innamorata, perciò le ha dipinte ovunque – nei quadri nelle cartoline e sulle porcellane. La moglie di Napoleone, Giuseppina di Beauharnais, volle allestire un giardino di rose al Castello di Malmaison, che sorprendeva per la grande varietà di fiori, e perché le rose cinesi rifioriscono, diversamente da quelle già presenti sul vecchio continente.

La rosa gigante dell’Himalaya

Il giardino delle antitesi

Entrando in giardino mi sono trovata di fronte alla Rosa gigantea dell’Himalaya. Grandi i fiori e grandi le foglie, non ha uno stelo ma un tronco e si arrampica su per un albero altrettanto grande. Poi si passa al suo opposto, un cespuglio di rose selvatiche cinesi bianche, piccolissime, con foglie piccolissime. Si chiama Rosa sericea pteracantha ma una particolarità per me assolutamente nuova: ha spine giganti, rossicce, alate e trasparenti. In controsole sembrano una pietra preziosa.

Rosa sericea pteracantha

Se Giuseppina Beauharnais aveva il suo giardino di rose, al marito è stata dedicata una rosa rosso violacea che cresce come un cespuglio. La signora Helga, con malizia, ha piantato accanto alle rose Napoleone un cespuglio di rose più chiare, un ibrido dedicato al suo nemico acerrimo: l’imperatore di Prussia.
Profumi? Pochi. Le rose cinesi non sono indicate per la profumeria, ma se vi avvicinate, sentirete un odore gentile e inebriante.
La signora Helga è un’ottima guida, abituata a mostrare ai visitatori le sue meraviglie con una grande conoscenza della materia, anche per il suo ruolo di ex presidentessa della World Federation of National Rose Societies. Per vedere il giardino basta telefonare e prendere un appuntamento. Poi si aspetta che le rose rifioriscano.

La signora Helga


Per maggiori informazioni:
Helga Brichet – 0742/99288

 

«O pa’, si tu me vedessi l’core, l’campanile sona co ‘na tale durezza che le guance m’enno scomparse da la faccia, resta solo ‘na ruga de dolore… o pa’ si tu me vedessi l’core» 

Regista, attore e scrittore. Filippo Timi è tutto questo e molto di più. Un vero perugino col donca, a cui piace portare il dialetto umbro nei suoi spettacoli teatrali. Dal 25 al 27 giugno sarà al cinema per un evento speciale: la trasposizione cinematografica del suo ironico e dissacrante spettacolo Favola, visibile per soli tre giorni. Il film, distribuito da Nexo Digital e diretto Sebastiano Mauri, ci porta nella provincia americana degli anni Cinquanta con le vite perfette, le donne sorridenti e i colori pastello. Qui Mrs Fairytale (Filippo Timi) e Mrs Emerald (Lucia Mascino) s’incontrano ogni giorno per condividere le loro esistenze tranquille e borghesi, ma la facciata di perfezione si sgretola, rotta da segreti terribili e possibilità inaspettate. Nessuna Favola è mai perfetta come sembra… 

Filippo Timi in Favola

Per lei cos’è una favola? Quale sarebbe la sua favola perfetta (se esiste)?   

La favola perfetta è quella che finisce con «e vissero tutti felici e contenti», ma la mia favola ideale è quella di un mondo più tollerante, un mondo che non giudica nessuno come diverso, ma lo accetta come unico. 

Il film è ambientato nella provincia americana: pensa che anche in una città di provincia come Perugia avrebbe potuto raccontare questa storia? 

Ogni provincia si assomiglia, ma per questo film quella americana esprimeva meglio il bisogno del personaggio di evadere nei suoi sogni, nell’America vista nei film sul grande schermo. L’America, con le sue contraddizioni ed esasperazioni, esprimeva perfettamente il luogo fisico e mentale per raccontare questa favola. 

Siamo negli anni Cinquanta e il film affronta il tema dell’identità di genere e del rapporto con il proprio corpo e la società: è cambiato realmente qualcosa rispetto a quegli anni?      

Sì, molte cose sono cambiate, le donne non sono più costrette a mettersi un bustino, indossare gonne a campana ed essere confinate ai fornelli in attesa del ritorno del capofamiglia, ma la reale uguaglianza fra uomini e donne è ancora, tristemente, una meta lontana. Ginger Rogers faceva gli stessi passi di Fred Astaire, sui tacchi alti e all’indietro, ma era pagata la metà. Ancora oggi, per esempio, la differenza salariale di genere è un’amara realtà.  

 

Cosa ha portato di suo nel personaggio? È stato difficile vestire i panni di una donna? 

Per un uomo vestire i panni di una donna è estremamente difficile: a parte la difficoltà fisica, c’è uno sguardo del mondo esterno che ti giudica incessantemente. Sopportarlo, e a volte schivarlo, diventa un doppio lavoro. 

film filippo timi

Filippo Timi in Favola

Ora parliamo un po’ di Umbria: qual è il suo legame con questa regione? 

Sono le mie origini, ho scritto poesie in perugino prima che testi in italiano. Sia nei miei romanzi che nei miei spettacoli non ho mai resistito alla tentazione di introdurre una vena umbra in questo o quel personaggio. Trovo che il dialetto esprima più direttamente certe sfumature di emozioni che l’italiano, invece, a volte, raffredda. 

Ho letto che porterà in scena un cavaliere del Seicento e reciterà in dialetto perugino, col donca: ci può anticipare qualcosa? C’è già una frase in perugino che potrebbe descrivere il personaggio? 

«O pa’, si tu me vedessi l’core, l’campanile sona co ‘na tale durezza che le guance m’enno scomparse da la faccia, resta solo ‘na ruga de dolore… o pa’ si tu me vedessi l’core» 
È la storia di un cavaliere che combatte contro il drago delle proprie paure. Accanto a lui, un angelo custode in crisi esistenziale (Marina Rocco), un menestrello triste in maniera ilare (Andrea Soffiantini), un giovane scudiero alla scoperta dell’eros (Michele Capuano) e una saggia prostituta dai saldi principi (Elena Lietti). 

Oltre al cinema e teatro, ha anche in cantiere progetti letterari? 

I progetti letterari sono molti e segreti, ma ora mi sto concentrando sulla scrittura del nuovo spettacolo. 

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole? 

Ruvidamente accogliente, spudoratamente verace, insomma, meravigliosamente grifagna. 

 

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione? 

A la torta al testo e la ciaramicola che fa la mi mamma, n’sacco, n’sacco bona. 

 

Il trailer di Favola:

 

 

Si è chiusa domenica la terza edizione di Perugia 1416 che ha visto vincitore il magnifico rione di Porta Sole.

 

by Cristina Martino

 

È stata un’esperienza molto positiva caratterizzata da una notevole partecipazione di pubblico, oltre che da un vivo coinvolgimento della cittadinanza che ha animato in maniera impeccabile le varie fasi della manifestazione.

Quest’anno si è registrato sicuramente un grande salto in avanti, «basta guardare ai cortei, tutti molto belli e significativi» come dichiara l’assessore Teresa Severini, presidente dell’Associazione Perugia 1416.

L’assessore plaude al ruolo ricoperto con dedizione dai «tanti volontari, compresi quelli della protezione civile che hanno garantito la sicurezza ormai d’obbligo in ogni manifestazione».

 

Una cinquantina di appuntamenti in programma, cinque mostre, sei eventi per i piccoli, undici ristoranti con menu medievali e personale in costume. Uno sforzo notevole, che ha dato i suoi frutti se pensiamo al considerevole incremento di persone che hanno popolato le strade della città, ma anche all’aumento dei visitatori virtuali, quelli che hanno seguito lo svolgersi dell’evento attraverso il sito web e i social network.

 

by Cristina Martino

 

«Il vero segno tangibile dell’importanza del progetto» prosegue Teresa Severini «è stata la risposta alle taverne, alcune di queste, tipo quella di Porta Sant’Angelo, sono la sintesi del progetto di recupero di luoghi storici, di collaborazione virale nel lavoro di tanti volontari, anche per riportare i locali abbandonati a nuova vita, e di sinergia con i ristoranti della zona. Ma tutti a diverso titolo hanno trovato la forza di vivere insieme ogni momento. Passione, nervosismi, tensioni, entusiasmo, i sentimenti che si succedono in giorni così concitati e che fanno sì che già da domani riprenda il lavoro verso la quarta edizione».

 

Perugia 1416 è una manifestazione in crescita che mira a essere una festa per tutti, in grado di aggregare cittadini e realtà associative dentro e fuori le mura. I rioni diventano un punto di riferimento e di ritrovo anche per i giovani, luoghi che assumono con il passare del tempo un crescente valore non solo culturale, ma anche sociale.

 

by Tommaso Piscitelli

 

Insomma, al di là delle diverse opinioni in merito all’evento, una festa in grado di accogliere e aggregare facendo di lavoro, collaborazione e coesione veri punti cardine, va sicuramente guardata con positività e speranza per il futuro

 

Vallo di Nera appartiene al Club de
I Borghi Più Belli d’Italia

 


«Lasciatevi incantare da uno dei borghi più belli d’Italia, Vallo di Nera, e concedetevi, tra torri medioevali ed echi di antichi cantori, l’assaggio di pregiati formaggi».

Fior di Cacio

 

La Valnerina più ricca, quella più antica e autentica, dove è fiorita la millenaria sapienza umbra e nel cui ventre sbocciano aromi apprezzati a ogni latitudine; ma anche la Valnerina più impervia e selvaggia laddove osano le aquile e si nasconde il lupo. Sapori arcaici e autentica ruralità che storicamente caratterizzano questo idillio bucolico e che tenteremo di raccontarvi in un itinerario il quale, nonostante l’ambizioso titolo, racchiude frammenti di una quotidianità sepolta tra la polvere della memoria. E allora lasciatevi incantare da uno dei Borghi più Belli d’Italia, Vallo di Nera, e concedetevi, tra torri medioevali ed echi di antichi cantori, l’assaggio di pregiati formaggi. Perché questo è quello che agli Umbri piace, perché questa è la nostra cultura.

Un prodotto antico

Nel ricomporre le tarsie di quell’antico mosaico sepolto lungo l’argine del tempo, che è la storia del formaggio, la bussola che orienta la ricerca dei food lovers punta con straordinaria fermezza il Medio Oriente e la leggenda di quel pastore arabo che, attraversando il deserto, conservò del latte di capra in un otre ignorando il processo di stagionatura che avrebbe invece notato giunto al termine della traversata. Dischiusa dalla mitologia araba e sfiorata dal respiro mediterraneo del greco antico, l’etimologia della parola formaggio si intreccia inesorabilmente tra i vimini dell’antico paniere in cui veniva depositato il latte cagliato, formos per l’appunto, divenuto successivamente fromage per le popolazioni galliche e forma per gli antichi abitanti dell’Urbe. Un atlante, quello del formaggio, in cui punti cardinali e coordinate geografiche lasciano spazio a una geografia di scenari alpestri e pastori che a Vallo di Nera, il borgo-castello della Valnerina, resiste eroicamente tra frammenti di memoria pastorale e tradizioni millenarie.

Vallo di Nera e Fior di Cacio

Imbrigliata dallo sguardo marmoreo dell’imponente cassero medioevale Vallo di Nera, avamposto della civiltà contadina e Presidio Slow Food, appare sospesa nel vuoto cosmico di una clessidra i cui granelli di sabbia diventano gocce di memoria di greggi e pastori, custodi di un’antica tradizione casearia che, in questo coriandolo di Umbria, viene omaggiata da un’annuale mostra mercato, Fior di Cacio. La civiltà pastorale, i cui echi appaiano scolpiti in bassorilievi di sentieri e tratturi, a Vallo di Nera diventa depositaria di una ricca tradizione orale, fiorita lungo le rotte della transumanza per opera di aedi pastori che rispondevano agli echi della natura improvvisando canti e narrazioni. Oggi quel passato è documentato dalla Casa dei Racconti, teatro in cui a esibirsi è una memoria popolare fatta di voci in metrica attraverso la quale recuperare l’identità culturale di una quotidianità remota eretta tra macerie del tempo.

 

Per gustarlo al meglio

Vademecum per abbinare in tavola i formaggi della Valnerina non esistono. Tuttavia è possibile accompagnare l’abbinamento secondo prelibati suggerimenti, nonostante i grandi formaggi vadano degustati abbinati a prodotti semplici che ne esaltino pastosità e fragranza, come buon pane e confetture di cui la Valnerina vanta un ricco catalogo. Declinato in tutte le sue vesti il formaggio della Valnerina esalta palati e papille dei commensali se abbinato per contrasto o per similitudine ai vini tipici della Verde Umbria, in un trionfo enogastronomico di aromi e sapori arcaici. Per gli amanti dell’autenticità la birra, che attraverso il brio del luppolo annulla la corposità del formaggio, e le pregiate confetture che il fiume Nera matura all’ombra di pioppi dalle fronde sottili rappresentano eccellenti partner per questo viaggio nella Terra dei Pastori, enciclopedia del gusto e della tradizione.

Le strade di Perugia si animano con la terza edizione di Perugia 1416, i cinque Rioni della città tornano a sfidarsi all’interno della grande festa che coinvolge attivamente la popolazione cittadina e comprensoriale del capoluogo.

Tornano le dame e i cavalieri, i giochi e i cortei, in un susseguirsi di emozioni che culminano domenica 10 giugno nel corteo storico, rievocazione dell’ingresso di Braccio Fortebracci da Montone a Perugia, avvenimento che, seicento anni fa, ha simbolicamente segnato il passaggio dal Medioevo al Rinascimento e l’avvio dell’era di Braccio.

Vi proponiamo le scene salienti, i volti e i luoghi di questa edizione 2018, nella gallery fotografica che raccoglie una carrellata di immagini firmate Officine Creative Italiane.

La gallery è in continuo aggiornamento, tornate a trovarci!

 

Un ritorno da non perdere, quello delle ventiquattro maioliche rinascimentali, che dopo cinquecento anni tornano a Deruta.

Vaso con un asino sdraiato. Deruta 1500

 

Presentata alla Frieze Masters di Londra del 2017, la più importante fiera di arte antica e moderna del Regno Unito, l’edizione italiana della mostra Sacred and Profane Beauty Deruta Renaissance Maiolica è curata dal Museo della Ceramica di Deruta ed è visibile fino al 30 giugno. Provenienti da collezioni private, le opere sono state selezionate da Camille Leprince e Justin Raccanello con la consulenza di Elisa Paola Sani, collaboratrice del Victoria & Albert Museum ad oggi tra i massimi esperti di ceramica rinascimentale.

Un percorso tra le maioliche

Attraversando le sale del museo si entra in luogo affascinante dove le opere esposte rappresentano la bellezza sacra e profana, come ricorda anche il titolo della mostra. La pittura umbra, in particolare quella di Pinturicchio e Perugino, viene resa immortale grazie all’abilità dei maestri vasai derutesi che fabbricarono maioliche policrome tra Quattrocento e Cinquecento.
La città di Deruta, fin dal Medioevo, è stata il palcoscenico per l’arte dei maestri vasai; la massiccia presenza degli artigiani è dovuta alla facile reperibilità nel territorio dell’argilla, presente in grande quantità nelle colline derutesi e nei depositi alluvionali del Tevere. Questa nobile arte si è sviluppata grazie alle notevoli vie di comunicazione presenti nel territorio. La città è stata il centro di un intenso movimento artistico e commerciale, anche perché molti maestri vasai da tutta Italia si sono stabiliti a Deruta, spinti dall’esenzioni fiscali concesse per favorire il ripopolamento della città, dopo l’epidemia di peste del 1456.

 

Piatto da pompa con eroe con elmo da parata. Probabilmente di Nicola Francioli

La regina della ceramica

È proprio in questo periodo che l’arte umbra, dipinta nelle grandi pale d’altare dagli artisti del Quattrocento, viene impressa sulla ceramica. In questo ambito la produzione derutese è quanto mai variegata sia per le qualità che per le tecniche. Un tripudio di forme, colori, motivi decorativi e repertori iconografici, sono impressi nella ceramica. Tra le opere più affascinanti esposte ci sono i grandi piatti da pompa (alcuni superano i 40 cm di diametro). La presenza di fori testimonia che essi potevano essere appesi a scopo decorativo e pronti per essere usati per occasioni speciali. Lo schema decorativo tradizionale prevede un motivo ornamentale sul bordo che incornicia la scena principale, dove possiamo vedere: Giuditta con la testa di Oloferne, San Francesco che riceve le stimmate, David con la testa di Golia, una crocifissione, e la nascita di Adone. Alcuni sono decorati con nobildonne e dame, vestite con eleganti abiti esaltati dalla preziosa lustratura, le quali stringono tra le mani lunghi cartigli con iscrizioni complesse, proverbi, scritte moraleggianti e persino una poesia di Petrarca. Le dame ricordano quelle dipinte dal Perugino e da Pinturicchio, in particolare una di queste richiama alla mente la Sibilla delfica del Pinturicchio dipinta nel soffitto della Sala delle Sibille negli appartamenti Borgia in Vaticano, ed una Madonna con il bambino ricorda la Madonna di Foligno di Raffaello, ora conservata alla Pinacoteca Vaticana.
Altri piatti da pompa invece recano gli stemmi di nobili famiglie umbre; come quello dei Baglioni, signori di Perugia, o quello con lo stemma della famiglia Crispolti. Inesauribili furono quindi le fonti di ispirazione per i maestri vasai.

 

Piatto da pompa con David con la testa di Golia. Deruta 1560

Il Co di Deruta

A seguito di recenti scoperte archivistiche è stato possibile ricostruire il lavoro di Nicola Francioli, conosciuto come il Co o Il Co di Deruta, maestro vasaio attivo dal 1513 al 1565.
Il piatto da pompa più illustre è proprio quello del maestro Francioli: la Natività. Rappresentazione cara al Perugino, che in Umbria realizzò tre versioni di questo soggetto e a Pinturicchio che ne dipinse una a Spello nella Cappella Baglioni. La scena sacra è stata dipinta con più tonalità di blu e arancio, la sacra famiglia al centro della composizione è in preghiera; la Vergine è inginocchiata e San Giuseppe, in piedi, sembra proteggere il Bambino adagiato sopra un cuscino. Alcuni pastori arrivano a rendere omaggio al Re dei Giudei e tre angeli nel cielo recano in mano un cartiglio. Sullo sfondo si nota la città di Gerusalemme.
«Sono molto amati i vasi di terra cotta quivi fatti, per essere talmente lavorati, che paiono dorati. Et anche tanto sottilmente sono condotti, che insino ad hora non si ritrova alcun artefice nell’Italia.»
È con queste parole che Leandro Alberti nell’opera Descrittione di tutta Italia (1550)  fa conoscere l’eccellenza della ceramica prodotta dai maestri vasai in tutta Italia.

 

Piatto da pompa con la Natività. Nicola Francioli detto Co di Deruta. Deruta 1520-1530

«L’olio e il vino umbro sono un nostro patrimonio culturale come il Pinturicchio e il Perugino»

Gianfranco Vissani non ha bisogno di tante presentazioni. È forse il primo chef apparso in televisione, quando ancora gli chef stavano solo in cucina. Esuberante, schietto e un vero umbro verace. E anche durante la nostra chiacchierata si dimostra tale: ricorda il padre quando ammazzava il maiale o quando preparava i liquori al sambuco e al muschio e alle tante cose che gli ha insegnato, o a quando guardava Goldrake. «Tu lo guardavi Goldrake? Forse sei troppo giovane!». Poi l’intervista si sposta sulla cucina umbra ed è palese il suo attaccamento a questa terra e a tutto quello che regala. «Il mio, è un vero rapporto col territorio».

Gianfranco Vissani

Qual è il suo legame con l’Umbria?

Ho origini maremmane ma sono nato in Umbria a Civitella del Lago in provincia di Terni, quindi il mio legame è molto forte. Al lago di Corbara mio padre ha aperto il primo ristorante quando ancora c’era poca corrente in zona e le strade erano poco praticabili. Da giovani cerchiamo e siamo attratti da tutto quello che è diverso, per questo – dopo l’istituto alberghiero a Spoleto – ho girato molto l’Italia: Venezia, Cortina d’Ampezzo, Genova, Firenze e Napoli, oggi invece tutto quello che c’è qui è la mia vita. Amo l’Umbria, ho con questa terra un legame molto radicato.

Se l’Umbria fosse un piatto, quale sarebbe?

Non sarebbe solo un piatto, ma tantissimi. Sarebbe la caccia, le lenticchie di Castelluccio, le patate di Colfiorito, il tartufo cavato e non coltivato, l’olio, i vini come il Sagrantino, la torta cotta sotto la brace, la maialata e il sanguinaccio, i tordi di Amelia e la palomba alla ghiotta di Todi. Siamo una piccola regione, ma molto importante e innovatrice in cucina.

Un ingrediente che non può mancare sulla tavola di un umbro…

Sicuramente l’olio, per le sue piccole dimensioni l’Umbria ne produce tantissimo, e il vino di Caprai e Lungarotti che sono stati dei veri innovatori. Questi due prodotti sono un nostro patrimonio culturale pari al Pinturicchio e al Perugino.

Quanto, e in che modo, questa regione ha influito nella sua cucina e nel suo lavoro?

Moltissimo. I prodotti umbri sono molto presenti nelle mie ricette.

Il suo ultimo libro La cucina delle feste ha come sottotitolo L’altro Vissani: chi è l’altro Vissani? Ne esiste un altro?

Sì, è un altro rompiscatole come me (ride). È un sottotitolo che mi piaceva mettere.

Un bravo chef è quello che cucina la miglior pasta al pomodoro o quello che crea un ottimo piatto mai fatto da altri?

Un bravo chef deve sapere fare entrambe le cose: partire dalla semplicità di una pasta al pomodoro per arrivare a un piatto più particolare e complicato.

Piccola curiosità: c’è un cibo che proprio non sopporta? E uno del quale non può fare a meno?

Non mi piacciono i crauti e non potrei fare a meno dell’olio o del prosciutto, ma di quello che non sa troppo di maiale.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Colline, paesaggi naturali e verde.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

La vita tranquilla e le viti d’uva.