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«È una terra profumata che evoca i colori del giallo, del verde e dell’arancione».

L’intervista a Emanuela Aureli inizia subito con una battuta: «Vi occupate di eccellenze, perché intervistate me?!». Intervistiamo lei perché è un’eccellenza umbra nel suo lavoro. Nata a Terni, l’attrice e imitatrice è simpatica e cordiale, mentre parliamo al telefono saluta i vicini e mi confessa che sta sistemando casa: «Se ho il fiatone è perché sto facendo le pulizie». La chiacchierata è divertente, come se ci conoscessimo da tempo e con naturalezza iniziamo a parlare della nostra regione.

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Emanuela Aureli

Qual è il suo legame con l’Umbria?

Ho un legame molto forte: è la mia terra di cui vado molto fiera. In Umbria ho la mia famiglia, ho ricordi legati a tanti momenti della mia vita e da nomade faccio la spola tra Roma e Terni, vivendo un po’ qua e un po’ là. Mio figlio è nato a Perugia: si deve andare al di là della rivalità sportiva tra le due città. Da non tifosa di calcio non riesco proprio a capirla.

Come si fa ad arrivare in televisione e avere popolarità, partendo da una frazione di Terni?

Fin da piccola sapevo e sentivo che avrei fatto questo lavoro. A cinque anni ho avuto una premonizione, un destino già scritto. Me lo sentivo dentro e sono riuscita a realizzare il mio sogno. Tutto è iniziato nel 1992 quando mia mamma – a mia insaputa – mi inscrisse alla Corrida. Facevo già delle imitazioni, ma avevo anche paura, infatti inizialmente mi arrabbiai. Lei mi spronò dicendomi: «Vai, provaci!». Quindi partecipai imitando Al Bano e Romina, Patty Pravo e Mietta. Vinsi la puntata e da quel momento tutto è iniziato. In un certo senso è stata mia mamma a farmi entrare in questo mondo.

Attrice, imitatrice e personaggio tivù: qual è la professione che sente più vicina?

Tutte e tre. In televisione devi essere preparato su tutto e studiare. A breve ho un provino per una fiction, spero vada bene. Bisogna essere sempre pronti.

C’è un personaggio che vorrebbe imitare, ma ancora non ha fatto?

Molti. Il primo che mi viene in mente è Adriano Celentano. È un personaggio molto sfruttato ed è molto difficile rendere al meglio la sua voce.

Per non cadere nell’imitazione che tutti fanno?

Preferisco che resti un’icona.

Se dovesse imitarla, come rappresenterebbe l’Umbria?

Metterei in mostra la gente genuina con la sua grande umanità. Poi i colori delle vallate e il profumo dell’erba e della terra. Spesso ci accusano di essere chiusi, io non lo credo affatto. Anzi, siamo molto ospitali, abbiamo sempre accolto. Non mi riconosco in questa chiusura e non la sento nemmeno. Chi viene a visitare l’Umbria si accorge della nostra ospitalità: in molti me lo hanno detto.

So che realizza dei quadri: ha mai rappresentato la sua terra?

Invece di andare in palestra, dipingo. Mi piace molto e mi rilassa. Spesso ho dipinto l’Umbria, le sue vallate, i suoi colori e la sua luce. È una terra luminosa: gialla, arancione e verde. Adoro i nostri paesaggi e da poco ho messo su tela Collesecco. Mi piacerebbe fare una mostra, portare i miei quadri anche all’estero.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Familiare, accogliente, calda.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

Il profumo dell’aria di casa.

«Terence Hill ristruttura il parco comunale della cittadina umbra dov’è nato il padre»

don matteo

Terence Hill nel film “Il mio nome è Thomas”

 

Che l’Umbria fosse cara a Terence Hill, nome d’arte di Mario Girotti, è ben noto. Don Matteo è un successo italiano e l’Umbria insieme a lui è la vera protagonista: da Gubbio a Spoleto, il prete detective fa entrare ogni settimana nelle case degli italiani le bellezze di questa terra.
Ma l’amore dell’attore per questa regione ha radici molto lontane. In occasione dell’uscita del suo ultimo film Il mio nome è Thomas – nel quale è regista e protagonista – ha scelto proprio Terni per la prima nazionale e l’incasso dell’evento è stato destinato alla ristrutturazione dei giardinetti comunali della città di Amelia, città dove è nato suo padre. L’attore tornerà ancora a vestire i panni del sacerdote nella dodicesima stagione di Don Matteo, che sarà sempre ambientata a Spoleto con qualche incursione nelle zone terremotate della regione.

Il ritorno al cinema

Dopo anni di successi televisivi, l’attore torna protagonista sul grande schermo con un film di ambientazione western, genere per il quale è diventato un volto iconico grazie a titoli come I quattro dell’Ave Maria, Il mio nome è Nessuno e Lo chiamavano Trinità, uno dei molti film interpretati in coppia con l’amico Bud Spencer. E proprio a lui Terence Hill dedica questo suo nuovo lungometraggio. «Ho pensato a questo film per dieci anni. Volevo unire una parte della storia scritta da Carlo Carretto con quella di una giovane donna, inserendo elementi di avventura, divertimento e dramma. Il film vuole essere contemporaneo, ma allo stesso tempo evocare una sensazione epica», spiega Terence Hill.

 

Veronica Bitto e Terence Hill

Il film

Il mio nome è Thomas, uscito nelle sale il 19 aprile, è una storia on the road tra la Spagna e l’Italia, in cui Thomas, in sella alla sua motocicletta, affronta un viaggio solitario verso il deserto. Durante i preparativi, però, incontra la giovane Lucia, che sconvolgerà tutti i suoi piani. Thomas, a causa di Lucia, si ritrova in una situazione rocambolesca e, per proteggere la ragazza, deve affrontare e mettere al loro posto due delinquenti. Quando finalmente riesce a raggiungere il traghetto diretto a Barcellona, Lucia, con una scusa, si imbarca insieme a lui.
Dopo qualche giorno, finalmente di nuovo solo, viaggia con la sua Harley Davidson verso il deserto. Qui trova un posto ideale: un altopiano circondato da montagne che si affaccia su un grande canyon, dove decide di sostare. Si stabilisce in un piccolo paese abbandonato in stile far west per vivere a contatto con la natura.  Presto però Lucia decide di raggiungerlo e stravolgere ancora una volta la sua quiete. Atmosfere western, polvere, deserto fanno da sfondo a un emozionante viaggio on the road che celebra la vita e l’amicizia e dove non potevano mancare omaggi alle epiche risse (…e le famose padellate!) dei film del passato.

Negli ultimi 20-30 anni è maturato un rinnovato interesse per il cibo sano e di qualità, e l’Umbria si trova proprio nel bel mezzo di questo Rinascimento, che include sia antiche qualità di prodotti sia cibo biodinamico e biologico.

Sapori antichi

Gli alimenti antichi o “di una volta” fanno riferimento a colture che sono state riscoperte dopo anni di scarso utilizzo o addirittura di inutilizzo. È stato ricostruito l’albero genealogico delle sementi per piantare prodotti vegetali che sembravano ormai perduti, rimpiazzati da nuove varietà o da ibridi. Molto spesso, non è possibile trovare questi prodotti nemmeno nei punti vendita. Alcuni di essi possono non essere esteticamente attraenti come i loro alter ego moderni, ma possiedono un gusto unico e delizioso.

Per più di trent’anni, alcuni coltivatori nei pressi di Città di Castello sono andati alla ricerca di antiche varietà di alberi da frutto, e ora il loro frutteto include meli, peri, ciliegi, susini, alberi di fichi e di mandorle. Tutti gli esemplari sono stati catalogati e i loro semi vengono conservati. Proprio per promuovere i frutti “di una volta”, i coltivatori hanno messo in vendita i loro alberi storici tramite l’Azienda Agricola Archeologia Arborea, rendendoli disponibili anche al grande pubblico.

Osserviamo le stelle

Il metodo biodinamico, dal canto suo, si riferisce ad un tipo di agricoltura basata sullo stretto rapporto con i ritmi della natura. Seguendo i principi elaborati da Rudolf Steiner negli anni Venti del Novecento, ha come obiettivo quello di restaurare, mantenere e potenziare la sinergia con l’ambiente. Gli agricoltori più importanti cercano altresì di differenziare le colture, di usarne altre complementari – come quella del trifoglio o dell’orzo per reintrodurre azoto nel terreno – e di ruotarle frequentemente, ma anche di tenere in considerazione la posizione della luna e delle stelle nel momento della semina e del raccolto.

In Umbria si possono trovare diversi prodotti di questo tipo, come il vino dell’Azienda Fontesecca di Città della Pieve, quello della Fattoria Mani di Luna Torgiano, o di Raìna, il cui quartier generale si trova a Montefalco. Allo stesso modo, tra le offerte di alcune aziende si annoverano olio biodinamico – come nel caso dell’Azienda Agraria Hispellum di Spello o di Fonte Vergine di Terni – o cereali, come nel caso dell’Azienda Biodinamica Conca d’Oro di Gubbio o Torre Colombaia di San Biagio della Valle (una frazione di Marsciano). Alcuni caseifici locali producono formaggi con il latte di ovini allevati secondo i principi della biodinamica, come per esempio la Fattoria Il Secondo Altopiano di Orvieto.

Ci si può associare a diverse organizzazioni di produttori biodinamici, delle quali Demeter è riconosciuta a livello globale, mentre l’Associazione Nazionale per l’Agricoltura Biodinamica, gruppo diffuso a livello nazionale, ha il suo distaccamento umbro proprio a Spello.

La questione del biologico

“Biologico” è forse la più controllata –sebbene fraintesa- nomenclatura che possiamo trovare oggi sulle nostre tavole. Solo una decina di anni fa, il termine era usato in maniera piuttosto approssimativa e senza alcuna certificazione preventiva; adesso invece, attenersi ai severi prerequisiti richiesti dalle etichette significa avere avuto l’autorizzazione ad usare la parola “biologico” da parte di alcune agenzie governative. L’accettazione all’interno di questa rete implica severi controlli delle quantità e delle tipologie di fertilizzanti usate, il divieto di usare pesticidi e erbicidi, e dichiarazioni sul trattamento sporadico delle colture – soltanto quando la pioggia o i cambiamenti climatici ne rendono necessario l’uso.

La famosa Foglia Verde è garanzia di biologico e indica che il prodotto è stato soggetto ad una serie di controlli europei operati sulle direttive della legge 834/2007. In Umbria ci sono una serie di enti che possono conferire la foglia verde, tra cui ICEA, Ecocert (un ente di origine francese), Suolo e Salute, Bioagricert.

Un processo delicato

Per essere riconosciuto come biologico, un prodotto deve essere raccolto o lavorato attraverso strumenti certificati.

Nel caso dei cereali, il coltivatore deve inviare il proprio raccolto ad un molino certificato, come per esempio il Molino Silvestri di Torgiano, che macina e rivende la farine ottenute sia a privati, sia a ristoranti umbri e toscani.

Allo stesso modo, per produrre ad esempio un olio che sia biologico, la spremitura delle olive deve avvenire in un frantoio che abbia ottenuto una certificazione in tal senso. Il momento migliore per macinare è la mattina, quando ancora c’è la possibilità di utilizzare macchinari puliti, senza residui di prodotti non biologici.

Lo stesso discorso si può fare per qualsiasi frutto della terra: dal vino dell’Azienda Agricola Di Filippo di Cannara o quello della Cantina Antonelli di Montefalco, allo zafferano dell’Azienda Agricola De Carolis Adelino di Civita di Cascia; dalle marmellate dell’Azienda Agricola Sibilla di Norcia, ai formaggi dell’Azienda Agricola Rossi Rita, che raccoglie e lavora il latte biologico di animali allevati in diverse aziende della Valnerina.

Una Onlus nata come reazione, per contrasto, come a voler dire che la parola fine non può essere scritta finché non è davvero e incontrovertibilmente finita. 

Avanti Tutta, associazione perugina nata il 13 giugno del 2013, è guidata da un uomo la cui fine sembrava scritta: a Leonardo Cenci, ex dipendente dell’agenzia delle Dogane di Bologna e Perugia, alla fine del 2012 era stato diagnosticato un tumore estremamente aggressivo al polmone, incurabile, con metastasi al cervello e alle ossa. A soli 39 anni, Leonardo Cenci aveva un’aspettativa di vita di soli quattro mesi.

 

Cenci

Leonardo Cenci con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, foto per gentile concessione di www.avantitutta.org

Azione e reazione

Erano tanti i modi in cui poteva reagire Leonardo di fronte a una notizia del genere; per molti sarebbe stato comprensibile abbattersi, lasciarsi soffocare dal dolore e dall’incommensurabile angoscia, soprattutto perché, a seguito di quei primi mesi di trattamenti, Leonardo perse l’uso delle gambe. Proprio lui, amante della corsa e pronto a partecipare alla maratona di New York.
Ma ecco la reazione, quella inaspettata, quella che ha fatto di Leonardo un esempio da seguire per tutte quelle persone che sono, o sono state, malate di cancro: a nemmeno un anno da quella terribile diagnosi, la fondazione di Avanti Tutta, nata per ridare fiducia, ottimismo e dignità a tutti i malati di cancro, ma anche per promuovere la pratica sportiva nei protocolli di terapia, insieme a uno stile di vita corretto e sano.

 

Lo sviluppo

Ma questa era solo un’idea, da cui poi avrebbero preso spunto tutte quelle iniziative che fanno di Avanti Tutta un vero e proprio sostegno per i malati oncologici: il finanziamento per l’ammodernamento delle strutture e degli arredi del reparto di oncologia dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Perugia – con l’installazione di una nuova illuminazione a led, di una nuova palestra, di poltrone per la somministrazione della chemioterapia, di letti per malati lungodegenti e di borse di studio per la ricerca – l’attivazione dell’Oncotaxi, un servizio dedicato ai pazienti – autosufficienti, sottoposti a chemioterapia e residenti nei comuni di Perugia e Corciano – che non possono recarsi con mezzi propri presso il day hospital dell’Ospedale di Perugia. E, ultimi ma non meno importanti, tutti quegli appuntamenti fissi che scandiscono l’anno solare, ma che un degente vive in maniera straniata: la tombolata del 31 dicembre – l’Oncotombolata – l’Oncococomerata del 15 agosto e l’Oncostrufolata del Giovedì Grasso. E, naturalmente, non mancano iniziative legate al Natale e alla Pasqua.

 

Il logo della onlus, foto per gentile concessione di www.avantitutta.org

Il primato

E così Leonardo – che dà forza all’Associazione e, al tempo stesso, la trae – ha superato quei fatidici quattro mesi, varcando il quinto anno dalla diagnosi con innumerevoli onorificenze e due maratone sulle spalle.
Sì, perché alla fine, Leonardo Cenci, a New York ci è andato: il 6 novembre 2017, in occasione della 46ª edizione della celebre corsa, è diventato il primo italiano ad aver partecipato a una maratona con un cancro in atto. Un primato che ha replicato l’anno successivo, diventando l’unico uomo al mondo a correre ben due maratone con un cancro in atto. Senza contare che è riuscito anche a migliorare il suo tempo: dalla 24.179ª posizione, è salito fino alla numero 16.169, guadagnando ben venti minuti.

Onore al merito

Il 2017 è stato anche l’anno in cui il Presidente Sergio Mattarella gli ha conferito il titolo di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana. La motivazione? «Per la determinazione e la forza d’animo con cui affronta la sua gravissima malattia offrendo agli altri malati un esempio per reagire e per difendere la vita». Ancor prima erano arrivate l’iscrizione all’Albo d’Oro della Città di Perugia, il Premio internazionale Giuseppe Sciacca per le attività sociali e il volontariato – ricevuto in Vaticano – e il Premio internazionale Le Velo – L’Europa per lo Sport a Scarperia. Il riconoscimento più recente è la medaglia al valore atletico per meriti eccezionali conferita da Giovanni Malagò, Presidente del CONI; lo stesso Malagò ha curato la prefazione di Ama, Vivi, Corri. Avanti Tutta!, il libro, edito da Salani, scritto da Leonardo Cenci e Rosangela Percoco e uscito lo scorso 12 aprile.

 

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«Non vedo un disegno concreto, un progetto globale che si ponga l’obiettivo di promuovere la conoscenza dell’arte contemporanea nelle sue varie espressioni».

Artista, docente universitario e storico dell’arte. È tutto questo, e molto di più, il professore emerito di Storia dell’Arte Bruno Toscano, classe 1930, che nel dopoguerra, con il Gruppo dei sei e con il Premio Spoleto (Mostra Nazionale di Arti Figurative) ha contribuito a promuovere Spoleto tra i centri più attivi dell’arte contemporanea: una personalità che ha dato molto e che ancora può dare, all’arte italiana e all’Umbria stessa.

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Bruno Toscano

Professore, qual è il suo legame con l’Umbria?

I miei genitori erano calabresi, ma io sono nato e ho ricevuto la prima educazione a Spoleto. Inoltre, molte mie ricerche sono di argomento umbro.

Ho letto che è stato il fondatore del primo cineclub di Spoleto: oggi, che rapporto ha con quest’arte?

Fondammo, gli amici pittori e io, il cineclub subito dopo la guerra, nel 1949, come un atto di libertà. Volevamo far conoscere tanti film che il fascismo aveva proibito e inaugurammo il cineclub con La grande illusione, il capolavoro di Jean Renoir contro la guerra. Nel programma c’era molto cinema francese degli anni Trenta, ma anche il neorealismo italiano, che stava esplodendo proprio in quegli anni. Nell’insieme, era un cinema povero, in bianco e nero. Oggi è decisamente più tecnologico e spettacolare, talvolta solo di intrattenimento, talvolta, per fortuna, con forti messaggi di attualità.

Come era artisticamente l’Umbria al tempo del Gruppo dei sei di cui faceva parte (Bruno Toscano, Giuseppe De Gregorio, Filippo Marignoli, Giannetto Orsini, Ugo Rambaldi, Piero Raspi)?

È stato un periodo di attività intensa e tutt’altro che provinciale per l’Umbria e per Spoleto, dove confluivano critici e artisti di primo piano dai maggiori centri italiani. Nella giuria delle numerose edizioni del Premio Spoleto, a partire dal 1953, c’erano critici come Francesco Arcangeli, Luigi Carluccio, Marco Valsecchi e artisti come Mario Mafai, Roberto Melli e Marino Mazzacurati.

Come è oggi dal punto di vista artistico la nostra regione?

Non vedo un disegno concreto, un progetto globale che si ponga l’obiettivo di promuovere la conoscenza dell’arte contemporanea nelle sue varie espressioni. Avverto semmai la tendenza a visioni parziali, spesso legate a mode effimere o ad avanguardie molto datate. Fa eccezione il Ciac di Foligno, concepito come un osservatorio di ampia visibilità. Ma questo non è un problema dell’Umbria. È noto che il declino ha origini profonde e di vasto raggio. Quando la conoscenza non è più considerata necessaria, si abbassa il livello dell’istruzione e anche l’interesse per la storia e per l’arte.

Come ha influito l’Umbria nella sua pittura?

I quadri che ho dipinto sono legati ai luoghi chi mi circondano. Ma questi non sono panorama, ma piuttosto un habitat ricco di stimoli e molto coinvolgente. C’è qualcosa di materno nella terra che ci circonda, che non può essere rappresentato in forme figurative convenzionali.  Negli anni Cinquanta le poetiche riconducibili all’Informale, tra le quali l’Ultimo naturalismo di Francesco Arcangeli, rispecchiavano questo contatto a livello profondo con la natura.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Divisa tra aree in crescita e aree in abbandono; per conseguenza, impoverita; nonostante tutto, affascinante.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

…fertile costa d’alto monte pende….

La città di Terni ebbe una delle tipografie più prolifiche e rinomate del tempo, insieme al primo esperimento di illuminazione pubblica e alla linea telefonica. Ma soprattutto ebbe un uomo illuminato, lungimirante, con uno spirito imprenditoriale volto alla diffusione della cultura tra le masse: Virgilio Alterocca.

«Io Virgilio Alterocca da Terni di professione e vocazione insegnante, ma per le vicende della vita esercente di piccole industrie, grafiche e telefoniche». Con queste parole egli si identifica scrivendo le sue ultime volontà[1] e, con modestia, in poche parole riassume la sua vita professionale. Secondogenito di nove figli, Virgilio nasce a Terni da Ferdinando «caffettiere» e da Maria Angeli «donna di faccende»[2].

 

La passione per l'insegnamento

Malgrado la semplicità dei natali, si deve alla sensibilità della famiglia la prosecuzione delle scuole dopo le classi elementari -egli ottiene la licenza della Scuola tecnica nell’anno scolastico 1870-1871- e la frequentazione, negli anni 1868-1870, la Scuola di musica comunale, dove apprende a suonare il flicorno e il violino. In un primo tempo, ottenuta la patente normale, egli si dedica con passione all’insegnamento, divenendo nel 1878, a soli 25 anni, direttore delle scuole elementari della sua città, incarico dal quale sarà costretto a dimettersi per occuparsi della sua attività imprenditoriale nel 1883. All’istruzione dedicherà per tutta la vita grandissima attenzione, sia nei suoi incarichi di tipo politico nelle file dei socialisti, sia dalle pagine del suo settimanale, sia come privato cittadino. Noto è infatti il suo impegno all’interno della Società generale operaia che aveva come fine quello di «promuovere l’istruzione, la moralità e il benessere degli operai, affinché eglino pure possano cooperare efficacemente al miglioramento indefinito dell’umanità»[3] o il suo ruolo nel Comitato di beneficenza per l’istruzione e l’educazione popolare, comitato che «persuaso che non possa esservi vera civiltà in un paese finché esiste la categoria degli analfabeti, si prefigge di far quanto occorra per ottenere che la legge sulla istruzione elementare obbligatoria (promulgata da 13 anni, ma rimasta presso di noi lettera morta) abbia qui in Terni la sua completa applicazione»[4]. Quale assessore alla Pubblica istruzione del comune di Terni, egli fonda nel 1903 la Lega per l’istruzione popolare contro l’abbandono scolastico e dal 1904 egli si dedica in prima persona a far sì che a Terni venga istituita una Scuola professionale a servizio della grande industria, che vedrà attivati i primi insegnamenti a beneficio di 125 allievi nell’ottobre del 1909.

personaggi umbri

L'attività tipografica e le cartoline illustrate

Tuttavia, come anticipato, la passione per l’insegnamento si accompagna a una passione altrettanto profonda per un’altra attività a carattere più squisitamente imprenditoriale, ma anche artistico, come vedremo. Infatti, nel 1877 avvia la tipografia che sarebbe diventata per lui sinonimo di successo in Italia e all’estero. L’idea di una tale attività si deve probabilmente al padre Ferdinando, che già nell’anno 1871 figura quale libraio nell’elenco Librai, editori e tipografi italiani e in quell’anno è proprietario di un piccolo negozio di cartoleria. Virgilio, morto il padre, decide di seguirne le orme impiantando una nuova tipografia che nel 1886, grazie all’acquisto di due nuovi macchinari, è in grado di stampare 50.000 copie al giorno contro le circa 2.500 copie stampabili con i macchinari ordinari[5]. L’acquisizione di ulteriori e innovative tecnologie – di cui era probabilmente venuto a conoscenza nell’Esposizione di Berlino del 1893 – gli consentono, l’anno seguente, di vincere la medaglia d’oro all’Esposizione di Milano per un calendario réclame stampato in vari colori e poi, a partire dal 1897, di avviare su larga scala la produzione delle cartoline illustrate.
Dunque Virgilio Alterocca è uno dei primi a introdurre nel mercato italiano la cartolina illustrata, inventata soltanto l’anno precedente per le nozze del futuro re Vittorio Emanuele III con la principessa Elena. La prima cartolina della prima serie (composta di 18 vedute di Terni e dintorni) viene dedicata alla cascata delle Marmore, assoluta bellezza naturale del territorio ternano. Ben presto però alle meraviglie architettoniche e paesaggistiche umbre si affiancano altre cartoline dal tema artistico che riproducono – novità assoluta – gli atti salienti delle opere teatrali e liriche, nell’idea di permettere agli spettatori di portarsi a casa un pezzetto dello spettacolo, ma di consentire anche a chi non poteva assistere dal vivo di conoscere opere liriche e artisti. Con finalità principalmente didattiche, Virgilio Alterocca presta la propria opera anche ai capolavori della letteratura italiana quali La Divina Commedia[6], grazie a un accordo con i Fratelli Alinari a seguito di un concorso che vide vincitore il pittore Alberto Zardo, o I promessi sposi, serie stampata in numerosi esemplari a uso delle scuole.
Sempre affascinato dalle nuove invenzioni, mediante un accordo con i Fratelli Pathé di Parigi a partire dal 1904, lo stabilimento tipografico inizia a produrre cartoline illustrate con le scene più significative dei film dell’epoca. Ebbe invece minor fortuna l’invenzione della cartolina parlante, ossia la cartolina fonografica che, tramite «un piccolo ed elegante meccanismo» che registra la voce del mittente, permette al destinatario di riascoltare la voce registrata più e più volte. Fu lanciata per la prima volta nel 1905 proprio dallo stabilimento Alterocca.

 

Alterocca

Illustrazione della Divina Commedia

L'importanza della pubblicità

Nel dicembre 1883 Virgilio Alterocca fonda il settimanale «L’Annunziatore umbro-sabino» (che dal 1887 prenderà il nome di «Il Corriere umbro-sabino») allo scopo di esaltare il progresso industriale della sua città, dove nel 1881 era entrata in funzione la Fabbrica d’Armi e che vedrà, l’anno successivo, l’apertura delle celebri Acciaierie. Il primo numero del giornale coincide con il primo esperimento di illuminazione elettrica cittadina che, in pieno spirito positivista, viene esaltato con queste parole dalle pagine del settimanale: «Terni, la pronosticata Manchester d’Italia, è illuminata a luce elettrica!»[7]. Egli comprende con lungimiranza e capacità da imprenditore moderno l’importanza della pubblicità, come si evince dalla definizione che appare stampata su ogni numero del giornale, in quarta di copertina: «La pubblicità è la madre del commercio, della civiltà, del progresso. Ciò che non si conosce è come non esistesse. Essa è la fonte inesausta di ricchezza […] chi non crede alla pubblicità non crede alla luce»[8]. L’attività del settimanale cesserà quando Virgilio Alterocca preso da altre preoccupazioni lavorative (nel 1886 diviene gerente responsabile del teatro Politeama[9] e l’anno seguente sigla l’accordo con il Comune per la pubblicità e le affissioni) si renderà conto di non poter garantire al giornale la necessaria indipendenza intellettuale.

E telefono fu

È del 1884 un’altra idea vincente di Virgilio Alterocca, anch’essa improntata alla visione imprenditoriale di stampo moderno: a pochi anni di distanza dalla sua invenzione, egli decide di impiantare a Terni una delle prime linee telefoniche della cui espansione e importanza egli è assolutamente convinto: «Da principio, come accade di tutte le cose nuove, avremo chi troverà il telefono una istituzione superflua o prematura. Poi man mano che se ne verranno conoscendo in pratica i numerosissimi vantaggi, prenderanno il telefono perfino i facchini e i lustrascarpe. Lo vedrete»[10]. Partita con soli 50 abbonati, la rete si espande rapidamente, tanto che già nell’anno seguente può contare 72 abbonati e nel 1907 collega Terni a numerose città italiane[11].
Nel 1908 viene insignito dell’ambitissima investitura di Cavaliere del lavoro e della medaglia d’oro che il Ministero della Pubblica istruzione attribuiva agli insegnanti benemeriti. Si spegne dopo lunga malattia ad Arrone.

 


BIBLIOGRAFIA

Le notizie del presente articolo sono state in larga parte tratte dal volume di C. Armadori, Virgilio Alterocca (1853-1910). Biografia analitica con cenni sulla sua famiglia, Arrone, Thyrus, 2016 al quale si rimanda per una bibliografia esaustiva su Virgilio Alterocca.

 


[1] S. Marigliani, Il testamento segreto di Virgilio Alterocca, Terni, Stampa litografica Stella, 2012, p. 339.

[2] I mestieri dei genitori sono desunti dall’atto anagrafico del quinto figlio dei coniugi. Documento citato da C. Armadori, Virgilio Alterocca (1853.1910). Biografia analitica con cenni sulla sua famiglia, Arrone, Thyrus, 2016, p. 18.

[3] D. Ottaviani, L’Ottocento a Terni, pt. II, Terni, Arti grafiche Nobili, 1984, p. 98.

[4] «Il Corriere umbro-sabino», 30 ago. 1888. Citazione tratta da C. Armadori, cit., pp. 74-75.

[5]  «L’Annunziatore umbro-sabino», 21 gen. 1886. Citazione tratta da C. Armadori, cit., p. 134.

[6] Sul tema si veda P. De Angelis, Divina Commedia. Le cartoline illustrate di Virgilio Alterocca, Terni, Dalia, 2014.

[7] «L’Annunziatore umbro-sabino», 27 dic. 1883. Citazione tratta da C. Armadori, cit., p. 101.

[8] Citazione riportata da C. Armadori, cit., p. 135.

[9] Nel 1886 Virgilio Alterocca acquista tramite una società la fatiscente Arena Gazzoli che ristruttura completamente fino a farla diventare un moderno teatro che grazie all’impresario Ciro Scognamiglio presenterà un interessante cartellone. Il Politeama verrà ceduto alla Cassa di Risparmio di Terni nel 1894.

[10] «L’Annunziatore umbro-sabino», 30 dic. 1886. Citazione tratta da C. Armadori, cit., p. 139.

[11] Albano, Ancona, Arezzo, Avellino, Bologna, Caserta, Castellammare di Stabia, Cava, Firenze, Foligno, Forlì, Frascati, Genova, La Spezia, Napoli, Nocera Inferiore, Perugia, Pesaro, Roma, Salerno, Scafati, Tivoli, Torino, Torre Annunziata e Torre del Greco.

«Anche il più lungo dei viaggi inizia con un passo», recitava quel polveroso aforisma orientale che sembra esorti l’animo umano a immolarsi oltre la più ardua delle salite, oltre quelle torri di fumo che segnano il confine tra ciò che la ragione rifugge e il cuore rivendica.

Yin e Yang, entità tanto complementari quanto antitetiche che qui assumono la connotazione di Terra e Cielo, congiunzione ancestrale di quell’ordine cosmico che qui si manifesta in idilli di valli soggiogate da rocche e castelli, fortificazioni dell’animo e della mente.

 

Foto by I luoghi del silenzio

La valle dei viandanti

Non a caso il nostro viaggio inizia proprio da una valle, quella di Narco, e dal suo fiume che qui si rivela metafora di un percorso interiore dall’incedere ciclico capace di restituire all’animo umano i gradi di marinaio e naufrago. E allora sorge spontaneo pensare a quell’uomo senza volto, a quell’eroe romantico simboleggiato dal dipinto di Friedrich[1]. Un viandante che porta nel suo nome l’idea del percorso, di un peregrinare senza sosta, di una ricerca infinita che si perde nei misteri della vita.
Issata sulla volta del cielo da funi di roccia e granito, la Val di Narco abbraccia il viaggiatore nell’ampio respiro del suo ventre iniziandolo a un’esperienza dai contorni onirici, in cui gocce d’acqua e di memoria infinitamente piccole celano ciò che è infinitamente grande ed eterno. Acqua che quindi è armonia ed equilibrium, espressione del creazionismo cosmico che si eleva al cielo in località Santa Anatolia di Narco, dove il Nera bagna l’Abbazia dei Santi Felice e Mauro, santuario ancestrale che contende agli spiriti arcani del vento e delle stelle i misteri e i silenzi dell’eterno.

 

Rosone a doppia corolla

L’abbazia

Consacrata ai due monaci siriani che intorno al V secolo a.C. si insediarono in Val di Narco, l’Abbazia dei Santi Felice e Mauro, vestibolo di ingresso nella contemplazione dello spirito, narra nella polvere acre dei bassorilievi che la cingono le vicende dei santi uccisori del drago, nel cui mito si cela la bonifica della valle che le esondazioni del Nera rendevano insalubre. Svestito il saio, quei monaci schivi venuti dalla lontana Siria indossarono le vesti pagane dell’homo faber, trionfo della tecnica e della sapienza umana, sinonimo di una spiritualità che qui rifiuta il possesso prometeico della natura perché rappresentazione di quel motore immobile da cui tutto ha origine e in cui tutto si risolve.
La facciata, ode dagli echi marmorei che celebra la plasticità del romanico spoletino, tesse tra i cinerei mormorii del Nera pentagrammi di mosaici e affreschi che consacrano alla gloria degli altari le gesta dei santi uccisori del drago. Ammainato tra i rovi di antichi sentieri campestri fioriti nei giardini perduti della Valnerina, il rosone a doppia corolla narra, nel fregio che lo sorregge, le epiche gesta del santo Felice, elemento ornamentale che qui si rivela allegoria dell’esperienza umana, monito scultoreo dall’effetto bipolare a cui l’artista affida il compito di elevare lo spirito di chi lo contempla per poi ancorarlo al suolo, su quel letto d’arenaria su cui giace la leggenda dei santi sauroctoni, cioè uccisori di draghi.

 

Presbiterio, foto di La Valnerina

 


[1] Si veda Viandante su mare di nebbia, Caspar David Friedrich, olio su tela, 1818, Hamburger Kunsthalle Amburgo.