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«Il (vero) paesaggio è esteso e armonioso, tranquillo, colorato, grande, variato e bello. È un fenomeno principalmente estetico, più vicino all’occhio che alla ragione, più apparentato al cuore, all’anima, alla sensibilità e alle sue disposizioni che allo spirito e all’intelletto, più vicino al principio femminile che a quello maschile. Il vero paesaggio è il risultato di un divenire, qualche cosa di organico e vivente. Ci è più familiare che estraneo, ma più distante che vicino, manifesta più nostalgia che presenza; ci eleva al di sopra del quotidiano e confina con la poesia. Ma anche se ci rimanda all’illimitato, all’infinito, il paesaggio materno offre sempre all’uomo anche la patria, il calore e il riparo. È un tesoro del passato, della storia, della cultura e della tradizione, della pace e della libertà, della felicità e dell’amore, del riposo in campagna, della solitudine e della salute ritrovata in rapporto alla frenesia del quotidiano e ai rumori della città; deve essere attraversato e vissuto a piedi, non rivelerà il suo segreto al turista o all’intelletto nudo.» (Gerhardt Hard)[1]

Associazione Nazionale Città dell’Olio

Foto di Bernardino Sperandio, Sindaco di Trevi

 

Considerato da Simmel come «un’opera d’arte in statu nascendi»,[2] il paesaggio esiste sulla base di tre condizioni sine qua nonnon può realizzarsi senza un soggetto, senza la natura, e senza il contatto tra i primi due. La relazione, in particolar modo, si esprime attraverso i segni, le costruzioni create dall’uomo sul territorio e poi attraverso l’agricoltura,[3] cartina tornasole della felicità di tale unione. Ma la relazione può essere anche quella data dal visitatore che, con il suo sguardo curioso, caratterizza una zona, legandone i tratti significativi con il concetto di tipicità. 

La pianta della civiltà

Tra Spoleto e Assisi, dove milioni di olivi si susseguono per circa trentacinque chilometri, questa duplice tipologia di relazione trova la sua forma più alta. Nella Fascia Olivata, tesa a settecento metri d’altitudine, la storia dell’olivicoltura inizia infatti molto tempo fa. L’olivo è, per Fernand Braudel, la «pianta della civiltà», perché delimita lo spazio del Mediterraneo antico; l’olio era utilizzato come condimento, per i riti religiosi, ma anche nella farmacopea e per l’illuminazione. Nell’Editto di Rotari (643 d.C.), invece, per chi avesse abbattuto un olivo spettava una pena di tre volte superiore rispetto a quella comminata a chi avesse abbattuto un qualsiasi altro albero da frutto. Infine, secondo Castor Durante da Gualdo Tadino (1586), qualche oliva a fine pasto favoriva la digestione.[4]
Ma senza spendere troppo tempo tra i libri, basta fare una visita a Bovara, nei pressi di Trevi, e ammirare il retaggio di tale tradizione con i propri occhi. Il maestoso Olivo di Sant’Emiliano, con i suoi nove metri di circonferenza e cinque di altezza, è un esemplare vecchio di ben diciassette secoli. Tralasciando per un attimo la storia della decapitazione di Sant’Emiliano, Vescovo di Trevi –legato, almeno secondo un codice del IX secolo, alla pianta e poi decapitato – gli studi hanno infatti dimostrato che si tratta di un genotipo particolare, molto resistente che, come tutti i suoi simili, dopo i primi ottocento anni di vita ha visto la parte interna del suo fusto marcire e le parti esterne dividersi, ruotando in senso antiorario.[5]

Un paesaggio unico

Gli olivicoltori sanno che queste zone dell’Umbria, infatti, richiedono una cultivar piuttosto resistente, capace di aggrapparsi a terreni asciutti, poco adatti a mantenere l’umidità. Il Muraiolo è stato dunque designato come la pianta ideale per scongiurare il rischio idrogeologico della zona e, al tempo stesso, per donare quell’olio tipico dal sapore piccante e amaro, ingentilito da note di erbe aromatiche.[6]
La sua coltivazione ha altresì modificato il territorio, rimodellandolo, formando una fascia continua verso l’alto a spese del bosco. L’ha caratterizzato con ciglioni, lunette e terrazzamenti, rendendolo riconoscibile al punto da permetterne l’iscrizione nel catalogo dei Paesaggi Rurali Storici, insieme agli Altopiani plestini, i campi di Farro di Monteleone di Spoleto, le colline di Montefalco, la rupe di Orvieto, il Poggio di Baschi e i Piani di Castelluccio di Norcia.[7]
Obiettivo che segue l’iscrizione all’Associazione Nazionale Città dell’Olio – che riunisce tutti i Comuni, le Province, le Camere di Commercio e i GAL che producono seguendo dei valori ambientali, storici, culturali o incentrati sulle DOP – e prelude al riconoscimento della zona come Paesaggio Alimentare FAO (sarebbe il primo in Europa) e poi come sito UNESCO 
Il pericolo maggiore in cui il paesaggio può incorrere – non venire iscritto nella memoria collettiva ed non essere quindi riconosciuto come caratteristico di una determinata zona del Pianeta – è dunque scongiurato: non c’è persona, sia essa nata in quel luogo o proveniente da lontano, che possa prescindere ora la Fascia Olivata dalle città di Assisi, Spello, Foligno, Trevi, Campello sul Clitunno e Spoleto.  

 

arte

Foto di Bernardino Sperandio, Sindaco di Trevi

Garanzie

L’obiettivo non è tuttavia quello di ridurre il territorio a museo, ma di metterlo in relazione con il suo retaggio culturale e comunitario, anche per preservarlo dai cambiamenti che potrebbero distruggerlo. Non sono infatti così lontani gli anni della Prima Guerra Mondiale, quando gli olivi venivano tagliati per supplire alla mancanza del carbone nelle fabbriche del Nord; o le terribili gelate del 1929 o del 1956, che portarono ad una significativa contrazione della produzione. Non sono lontani nemmeno gli anni Sessanta, quando la moda vessava l’olio d’oliva in favore di quello di semi, come pure non sono scomparse le difficoltà a reperire manodopera per ogni raccolta autunnale. Tanto più che i dettami stabiliti dalla Cooperativa di Olivicoltori di Trevi, nata nel 1968 per superare la dimensione familiare, sono molto severi: tutte le olive devono provenire dal territorio in questione, devono essere raccolte a meno e consegnate al frantoio dopo poche ore dalla raccolta, per essere poi molite nel giro di dodici ore per mantenere i giusti livelli di acidità e ossidazione.  
Non c’è spazio per l’industrializzazione e la produzione di massa: questa Fascia si mantiene aderente alla genuinità delle cose antiche nello stesso modo in cui avvolge i versanti collinari, anche quelli più aspri. In questo modo anche il visitatore potrà goderne, magari passeggiando lungo il Sentiero degli Olivi tra Assisi e Spello, o lungo quello di Francesco di cui l’olivo stesso è simbolo. Potrà ricollegare senza indugio le argentee chiome al sapore piccante della bruschetta con l’olio nuovo –l’Oro di Spello[7] – che gli si riverserà in bocca, donandogli la stessa consapevolezza e saggezza di quegli antichi popoli del Mediterraneo che preservarono la civiltà donando alla terra alberi di oliva.

 


[1]G. Hard, Die «Landschaft» der Sprache und die «Landschaft» der Geographen. Semantische und forschunglogische Studien, Bonn Ferd-Dümmlers Verlag, 1970, in M. Jakob, Il Paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009.
[2]G. Simmel, Philosophie der Lanschaft, in M. Jakob, Il Paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009.
[3] M. Jakob, Il Paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009.
[4] Ulivo e olio nella storia alimentare dell’Umbria, in www.studiumbri.it
[5] TreviAmbiente > paesaggi da gustare, 2015
[6] Umbria: protezione di un’origine, a cura di D.O.P. Umbria, Consorzio di tutela dell’olio extra vergine di oliva, 2014.
[7]Da www.reterurale.it
[8] L’Oro di Spello è una manifestazione annuale che riunisce la Festa dell’Olivo e la Sagra della Bruschetta.

 


 

L’articolo è stato promosso da Sviluppumbria, la Società regionale per lo Sviluppo economico dell’Umbria

 


 

 

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Indossa la fascia di capitano del Sassuolo ogni domenica e, da vero centrocampista, corre e recupera palloni per la sua squadra.

Francesco Magnanelli, nato a Umbertide e cresciuto a Città di Castello, è un umbro DOC, di quelli che amano la terra e la vita semplice, ben lontano dallo stereotipo del calciatore moderno. Di mestiere fa il mediano, un lavoro sporco e di fatica. Un lavoro fatto per gli altri. È partito dalle giovanili del Gubbio ed è arrivato in Europa League con il suo Sassuolo, portandosi sempre nel cuore un pezzetto d’Umbria.

 

capitano-sassuolo

Francesco Magnanelli, 33 anni

Qual è il suo legame con questa regione?
È la mia terra, la mia famiglia d’origine, gli amici di sempre. Ho un legame molto forte con questa terra e, per questo, torno appena posso. Ci passo le vacanze, è un luogo molto particolare e affascinante. Per me rappresenta le cose semplici, la campagna, le grigliate e il camminare scalzo.

Quindi la sente ancora casa sua, benché sono anni che vive fuori?
Certo che la sento casa mia. Dico sempre che ho due case: una a Sassuolo e una a Città di Castello. A Sassuolo ho mia moglie, i figli e il mio lavoro; a Città di Castello ho le mie origini e spesso quando sono lì faccio le cose che facevo da ragazzino. Vivo la campagna, una vita semplice e più reale.

Nel suo campo lei è un’eccellenza umbra: si sente un po’ un rappresentante di questa regione e dello sport umbro?
Senza esagerare sono solo un ragazzo che è riuscito a uscire dall’Umbria, una regione che un po’ ti imbriglia. Mi spiego meglio: spesso i giovani umbri al massimo vanno a Perugia a fare l’università, in pochi si allontanano veramente. In qualche modo si fa fatica a uscire. Se penso al mondo del calcio, ci sono tante scuole calcio, ma sono pochi i ragazzi che riescono a fare esperienze extraregionali. Oggi, devo dire che è un po’ la situazione è migliorata, si sentono nomi di giovani emergenti che potrebbero avere delle opportunità, ma fino a qualche anno fa era tutto bloccato. Insomma, si fa ancora fatica a uscire dall’Umbria.

Questo potrebbe avvenire con lo sport?
Esatto. Ogni paesino ha una sua squadra e sono tante le scuole calcio, ma migliorandole, puntando sui giovani, si potrebbe incentivare lo sport, ma anche l’apertura verso l’esterno.

Finita la sua carriera, tornerà da queste parti o resterà a Sassuolo?
Ancora non so bene cosa farò, per ora vivo un po’ alla giornata. Vediamo nei prossimi anni.

Cosa vuol dire essere umbro fuori dall’Umbria?
L’Umbria è un luogo che apprezzi al massimo quando vivi fuori. Riesci a vedere da lontano tutti i suoi pregi e i suoi difetti, che magari vivendola non percepisci.

Quali sono i pregi e quali sono i difetti?
I pregi sono la tranquillità, la storia, l’arte, la cultura e le tradizioni semplici. Proprio le tradizioni però possono essere un’arma a doppio taglio e diventare dei difetti se imbrigliano e bloccano lo sviluppo. Tra i difetti non si può non notare la mancanza di infrastrutture adeguate, basta pensare che è una regione difficile da raggiungere con treni e strade.

Lo stereotipo dell’essere chiusi lo ha mai avvertito, glielo hanno fatto mai notare?
No. Forse questa chiusura la notiamo solo noi umbri. Per tutti gli altri è un paradiso. Di questa terra vedono solo il meglio e quando parlano dell’Umbria ne parlano come di un’oasi di felice, di un posto perfetto.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?
Affascinante, le origini – mi basta un’ora a Città di Castello e comincio subito a parlare in dialetto – e nido, inteso come rifugio di vita semplice.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa terra.
Il mio ritorno alle origini, alla semplicità, alla terra.

Lugnano in Teverina appartiene al Club de
I Borghi Più Belli d’Italia

 


Sulle colline attorno a Lugnano in Teverina, sito a pochi chilometri dal confine tra Umbria e Lazio, sorge un luogo dal nome sinistro quanto evocativo: la Necropoli dei Bambini

Il macabro ritrovamento


I ben quarantasette infanti morti, ritrovati all’interno di cinque stanze dell’antica villa romana lasciata alla decadenza fin dal III secolo, furono sepolti tutti in un breve lasso di tempo: assunto suggerito dalla loro collocazione, stratificata – tanto da rialzare di ben tre metri il pavimento della villa- ma appartenente al medesimo sito archeologico. I corpicini dei più grandi furono incistati all’interno di anfore riconvertite a tale scopo, mentre i neonati e i feti spesso furono adagiati gli uni sugli altri senza particolari accorgimenti o semplicemente sotto frammenti provenienti dalla villa in rovina.  

 

reperti archeologici umbria

Uno dei bambini incistati ritrovati nella villa romana di Poggio Gramignano e conservato all’Antiquarium comunale di Lugnano, foto via

Prima di considerare i popoli del tardo impero come dei barbari infanticidi, sappiate che l’ecatombe fu dovuta ad una violenta epidemia. Nel 2016, con la ripresa degli scavi – iniziati negli anni Ottanta – gli archeologi hanno scoperto che in quelle contrade si abbatté la forma più letale di malaria, del ceppo Plasmodium falciparum, facendo del Poggio Gramignano di Lugnano la più antica testimonianza di penetrazione della malattia in Europa e nel Mediterraneo.  

Il sito

La villa, che appariva come la villa perfecta teorizzata da Varrone, fu riconvertita a necropoli fin dal V secolo. Sebbene non abbia ancora restituito i corpi degli adulti, offre lo stesso reperti di particolare interesse. Oltre a ossa isolate di individui adulti consumati, fin da vivi, dalla malnutrizione e dalla porosi (necrosi del tessuto nervoso), sono stati trovati anche artigli di corvo, parte dello scheletro di un rospo e diversi pezzi scheletrici di cuccioli di cane. Questi ultimi, privi delle tracce degli eventi atmosferici e sparsi lungo tutti i tre metri di profondità dell’accumulo tombale – fatto di corpi, vasellame, terra e cenere – furono senza dubbio smembrati a scopo rituale. Il sacrificio dei cuccioli di cane (di cinque o sei mesi d’età) era infatti collegato al culto di Ecate, divinità sotterranea che aveva il compito di accompagnare i morti nell’Oltretomba, senza contare che lo stesso tipo di sacrificio serviva per purificare le donne abortenti (si ricordino i ben ventidue feti sepolti nella villa). Di tali usanze parla anche Plinio il Vecchio, che collega il soggetto scelto per il sacrificio a Sirio, la costellazione del Cane, astro che sorge in estate, periodo in cui è assodata – almeno in Italia – la recrudescenza delle febbri malariche.  

Incursioni pagane

Che questa ecatombe fosse avvenuta in estate lo testimoniano anche alcuni resti carbonizzati di caprifoglio, un arbusto della macchia mediterranea che fiorisce proprio in quel periodo. È curioso che, in una zona ufficialmente considerata cristianizzata, si siano manifestati tali riti dal sapore nettamente pagano.

macchia mediterranea umbra

Caprifoglio, pianta spontanea della macchia mediterranea che fiorisce in estate, foto via

D’altronde non sappiamo di che etnia o di quale religione fossero gli abitanti di questo insediamento, e neppure se facessero parte di una comunità piuttosto isolata e di basso profilo tanto da riuscire a mantenere la propria indipendenza culturale di fronte alla mano uniformante del nuovo culto cristiano. Non è neanche da escludere che, di fronte a una pestilenza così violenta, quelle povere anime si fossero appellate a culti pressoché ancestrali pur di sopravvivere al morbo che li stava decimando.

 

Capitoli da riscrivere

Anche il temibile Attila, il famigerato Flagellum Dei che minacciava di saccheggiare Roma nel 452, sembra che avesse desistito di fronte alla prospettiva di spirare sotto le febbri malariche di quelle zone. Stando a quanto scritto nelle Leges novellae divi Valentiniani (V secolo), tra i motivi che lo portarono a rinunciare ci fu anche una non meglio precisata pestilenza, che ora però potrebbe aver trovato un nome e una collocazione.  
L’aria mefitica di quelle zone colpirà anche Sidonio Apollinare, pochi anni più tardi (467 d.C.): 

«Poi attraversai le altre città della via Flaminia – una dopo l’altra – lasciando i Piceni sulla sinistra e gli Umbri alla destra; e qui il mio corpo esausto soccombé allo scirocco calabro o all’aria insalubre delle terre toscane dense di miasmi venefici, con accessi ora di sudore ora di freddo. Sete e febbre devastarono il mio animo fino al midollo; invano assicurai alla loro avidità sorsi da piacevoli fontane, da nascoste sorgenti e da ogni corso d’acqua che incontravo, fossero le trasparenze vitree del Velino, le acque gelide del Clitumno, quelle cerulee dell’Aniene, le sulfuree del Nera, le limpide acque del Farfa o quelle flave del Tevere.» (Epistulae, I.5, 8-9) 

pestilenza impero romano d'occidente

Una moneta raffigurante Attila, foto via

Non è quindi così strano che Attila, accampato presso l’Ager Ambulejus (l’odierna Governolo, Mantova) avesse deciso di risparmiare Roma – e ciò che restava delle sue stesse truppe. Senza dubbio è un’ipotesi più plausibile rispetto al crocifisso benedetto di Leone I che, secondo la leggenda, spinse il re degli Unni lontano da Roma.
È certo che, in questa storia, superstizione e scienza si intrecciano in maniera piuttosto intrigante, a dimostrazione di quanti e quali demoni una pestilenza possa far sorgere nella mente degli uomini. A onor del vero, c’è da dire che diverse storie dal sapore esoterico sono circolate anche sul conto di Attila. Seppur spregiudicato e impietoso in battaglia, sembra infatti che fosse un uomo semplice e superstizioso –almeno secondo lo storico Prisco di Panion: sembra che, convintosi che la morte di Alarico, re dei Visigoti, fosse strettamente collegata al saccheggio compiuto a Roma nel 410, avesse deciso di girare al largo dalla città per paura di fare la stessa fine.  

 

 

Per saperne di più su Lugnano in Teverina

Sitografia:  

Con Roberto Montagnetti, alla scoperta della Necropoli di Poggio Gramignano, da www.orvietonews.it 

http://lugnanomuseocivico.blogspot.it/ 

Villa Rustica di Poggio Gramignano a Lugnano in Teverina, in www.paesionline.it 

Antiquarium comunale di Lugnano in Teverina, da www.beniculturali.it 

Lugnano: la villa romana di Poggio Gramignano tornerà a rivelare i suoi segreti, da www.umbriaecultura.it 

Lugnano in Teverina: il borgo con l’archeologia nel DNA, da www.umbriaecultura.it 

Chi fermò Attila? Forse la malaria, da www.popsci.it 

http://www.turismolugnanointeverina.it 

Lugnano in Teverina, sorprendenti scoperti nella necropoli di Villa Gramignano, da www.umbriaindiretta.it 

Sorprendenti scoperte nella Necropoli di Lugnano in Teverina, da www.terniinrete.it 

http://www.comune.lugnanointeverina.tr.it 

Esiste un posto ad Assisi, in via Porta Perlici numero 6, appena dentro le mura storiche della città antica, che conserva un’importante memoria storica, significativa per la città e per l’intera regione.   

assisi

La fabbrica

La Fabbrica

È un caldo sabato di luglio quando incontro per la prima volta Giampiero Italiani, il proprietario di una porzione dell’immobile che appartiene alla sua famiglia fin dagli anni Cinquanta. Si definisce subito il “custode” di questo luogo speciale e mi racconta con grande coinvolgimento la storia di quelle mura e di quei cortili animati da donne e uomini, lavoratori, agli inizi dell’Ottocento: siamo in quella che era l’antica Fabbrica di aghi e spilli di Assisi. Perché impiantare proprio ad Assisi una fabbrica di aghi, è una domanda che non trova risposta certa, è un ambito che deve essere ancora indagato e si possono fare solo delle ipotesi, certo è che questa attività manifatturiera ha rappresentato una delle prime esperienze di rivoluzione industriale in Umbria, testimoniando i primi tentativi di suddivisione del processo produttivo in fasi di lavoro e quindi la costituzione di una giovane impresa industriale. 
La fabbrica assisana però era speciale anche per altri motivi, infatti potevano essere assunti sia uomini che donne e tutta l’attività era validata da un regolamento scritto affisso in fabbrica e rispettato da tutti gli operai. Oltre a rappresentare una possibilità d’impiego per la popolazione della città, la fabbrica, grazie al suo lungimirante imprenditore romano Nicola Bolasco, rappresentava un primo esempio di lavoro regolamentato con pari opportunità che tutelava le condizioni dei lavoratori, uomini e donne, ciascuno con le proprie esigenze senza sfruttamento; garantendo un impiego dignitose agli operai, Bolasco anticipava in qualche modo gli studi sul diritto del lavoro. Lo Stato della Chiesa è in accordo con il regolamento di Bolasco tanto che ne chiede la diffusione e l’applicazione in tutte le attività manifatturiere dei territori posseduti. 

 

il regolamento

Il regolamento

Il Regolamento

La fabbrica di aghi e spilli di Assisi era una realtà all’avanguardia, un’isola felice in un’epoca in cui lo sfruttamento del lavoro era la quotidianità. Testimonianza scritta ne è il regolamento, datato 1° novembre 1822, redatto di propria iniziativa dal proprietario dell’attività Nicola Bolasco. È composto da 17 articoli e la prefazione induce al rispetto degli stessi non come semplice imposizione ma come buona norma da rispettare, in un clima di partecipazione al lavoro per il raggiungimento di uno scopo comune e cioè una produzione cospicua realizzata in un ambiente sereno. Alcuni articoli rivelano una grande modernità e apertura mentale; le ore di lavoro sono stabilite, ma l’orario di ingresso e d’uscita può variare in base ad alcune esigenze dettate dal periodo dell’anno, dalle ore di luce, dal freddo. È inoltre possibile portare del lavoro da svolgere a casa nel rispetto degli articoli del regolamento ed è consentito a tutti, previa autorizzazione, visitare la fabbrica e vedere da vicino le lavorazioni. Tutto è reso pubblico e trasparente. 
La fabbrica di Assisi sorgeva nei territori dello Stato Pontificio per cui da regolamento è fondamentale dimostrare una ferrea integrità morale, soprattutto perché si tratta di lavoratori di entrambi i sessi e pertanto Bolasco definisce altre regole da rispettare a tale proposito: l’ingresso dei dipendenti uomini risulta sfalsato di qualche minuto rispetto a quello delle donne, gli accessi in fabbrica sono separati, le mansioni diversificate e da svolgersi in sale distinte, infine per nessun motivo è consentito l’accesso di un uomo nelle sale delle donne e viceversa. 
Sopra ad ogni regola però c’è questa: tutti i dipendenti, per essere assunti, devono portare una lettera di presentazione scritta dal proprio parroco, denominata Certificato di Moralità, una sorta di lettera di referenze attestante l’integrità e la buona condotta di vita del futuro lavoratore della fabbrica! 

Lo stato attuale

Oggi dell’antica fabbrica non rimane molto di visibile all’occhio profano. Grazie però alla preziosa guida che ho avuto il privilegio di conoscere, riesco a leggere alcuni segni dell’architettura che mi fanno immaginare come poteva essere la fabbrica durante il suo periodo di attività. Già osservando il grande portone d’ingresso, in ferro, che chiudeva il cortile principale separandolo dal selciato, si può osservare un particolare, un segno che stimola una riflessione. Un simbolo, probabilmente un logo – una punta con due riccioli, immagine che si discosta da molti altri simboli presenti all’interno della città- come riferimento all’attività della fabbrica. 
Entrando nel grande cortile, Giampiero Italiani mi illustra il fabbricato costruito in muratura tradizionale con pietra d’Assisi – che ospitava l’attività manifatturiera e che ora invece ospita da decenni abitazioni private – i portoni d’ingresso e il luogo dove era situata la vecchia scalinata che portava al piano superiore, dove oggi sorge un grande terrazzo. Mi porta a visitare una delle stanze principali, forse una delle più grandi, una sala a volte in pietra e mattoni che conserva ancora un aspetto antico, e poi il bel cortile sul retro dove probabilmente si praticavano attività collaterali legate alla manifattura. Una delle più quotate poteva essere, in periodi ben precisi, la tosatura delle greggi che arrivavano dalla montagna accedendo da Porta Perlici e questo potrebbe anche spiegare la collocazione strategica della fabbrica all’interno del tessuto cittadino. Attualmente questo cortile immerso nel verde in cui crescono rigogliosi cespugli, alberi da frutto e arbusti di rose profumate è conosciuto dalla popolazione assisana come orto degli aghi. 
La sala a volte e l’orto sono, da circa due anni, messe a disposizione da Giampiero Italiani per attività culturali con temi attinenti a quella che era la realtà della fabbrica, ma di grande attualità: dal diritto al lavoro al lavoro femminile fino ad arrivare all’emancipazione della donna, trovando gradimento tra le associazioni e le istituzioni locali. La fabbrica degli aghi del 1820 è ora una fabbrica di cultura. 

 

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Il cortile sul retro

Il futuro

C’è ancora molto da scoprire sulla fabbrica degli aghi: ancora molti i temi da indagare e molti sono i quesiti che ancora non trovano risposta; Giampiero ha riportato alla luce questa realtà e sta lavorando per convogliare tutta l’attenzione possibile su questo bene culturaleÈ auspicabile che la curiosità dei ricercatori, unita all’interessamento delle istituzioni, portino alla luce nuove realtà che andranno ad arricchire di nuovi tasselli la storia locale dell’Ottocento.  

 

 

Per saperne di più su Assisi

Montefalco appartiene al Club de
I Borghi Più Belli d’Italia

 


Dalla cima delle colline che sovrastano la pianura dei due fiumi umbri Clitunno e Topino, la città di Montefalco rivolge il suo sguardo sulla valle umbra; un borgo cinto da uliveti e vigneti che formano una sorta di preziosa collana di smeraldi e rubini, sfumature che richiamano il profondo legame tra questa terra e il rapido passare delle stagioni, ognuna con i suoi colori.

Proprio in questo storico teatro a cielo aperto, all’interno della piazza del Comune vanno in scena, come degli attori, i quattro quartieri di Sant’Agostino, San Bartolomeo, San Fortunato e San Francesco, i quali ogni anno fanno rivivere scene di un passato lontano, la semplicità di una vita cittadina e contadina mai dimenticata e sempre presente nei cuori dei Montefalchesi.
Le quattro taverne della città durante questi giorni di grande festa sono decorate con i vividi colori dei quartieri e si animano, sempre all’interno delle mura cittadine, in luoghi tipici e suggestivi del borgo dove si possono gustare i piatti e i vini della tradizione umbra.
Durante tutto l’arco delle festività, a far da cornice all’Agosto Montefalchese sono il Corteo Storico, una sfilata di figuranti rappresentanti i personaggi dell’epoca rinascimentale tra XV e XVI secolo, la sfida dei Tamburini e degli Sbandieratori.

fuga del bove montefalco

La sfida dei Tamburini, foto via

Tutta questa gloriosa rievocazione è incentrata sul Palio e la conquista del Falco d’oro, il maestoso volatile simbolo dello stesso comune. Antiche cronache ci tramandano che fu proprio l’imperatore Federico II di Svevia a ribattezzare l’antica località di Coccorone in Montefalco, proprio per la grande presenza di questi rapaci visti sorvolare quelle colline.
Il palio è strutturato in diverse gare che tengono con il fiato sospeso tutto il borgo: si tratta di vere e proprie competizioni dal sapore antico, momenti che legano tutti i cittadini, pronti ad urlare e strepitare per i loro beniamini che si contendono il primato.
Impegnati nella conquista di questo ambito premio sono infatti i giovani dei quattro rioni che ogni anno mettono in luce la loro maestria acquisita in anni di duro allenamento e profondo amore per il proprio quartiere di appartenenza.
La prima gara è il tiro con la balestra, il cui bersaglio è costituito da una riproduzione di una testa di toro con diversi punteggi a seconda della parte che viene raggiunta dal dardo.

palio cittadino di montefalco umbria

Tiro con la balestra, foto via

La competizione continua poi a infuocarsi nell’animo dei quartieranti con la seconda gara: quella della staffetta, un vero e proprio anello di congiunzione tra il Medioevo della corsa del bove e le gare atletiche dei tempi moderni.
L’apice della competizione si raggiunge durante l’attesissima Fuga del Bove. Una rievocazione molto meno cruenta di quella tramandata dalle cronache medievali; si raccontava infatti che nei giorni di Natale un bue veniva portato con la forza per le vie della cittadina dopo avergli somministrato una bevanda a base di vino e pepe al fine di renderlo furioso e difficile da gestire. Lì poi lo aspettava una folla di uomini che, riparandosi in robuste botti di legno, lo incitavano facendolo correre fino a farlo cadere stremato.
La Corsa dei Bovi viene vissuta, oggi, in maniera non cruenta; ad ogni quartiere viene affidato un toro da allenare e curare durante tutto l’inverno per scendere in campo nella serata di metà agosto e gareggiare con i rivali delle altre contrade. Il bue viene trascinato, sospinto e guidato da fidati portatori che si sfidano per l’onore del proprio rione sotto l’attento sguardo della città vociante che attende il loro passaggio per poterne misurare la forza e la bravura.

eventi agosto a montefalco umbria

Fuga del bove, foto via

I giostratori di ogni quartiere accompagnano e guidano, di corsa, un toro dal peso di quasi cinque quintali lungo un percorso accidentato in una gara a scontri diretti due a due. Il vincitore finale si aggiudica il Palio, che ogni anno viene commissionato a un artista diverso, un dipinto che si ispira all’atmosfera che solo si può respirare a Montefalco nei giorni del Palio.


Sitografia:

www.folclore.eu

Umbria WebCam

ProMontefalco.com

Comune di Montefalco.pg.it

 

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INGREDIENTI:
  • 600 g di fegatini e ventricoli di pollo
  • 1 cucchiaio di capperi sott’aceto
  • 1 cipolla piccola
  • 1 carotina
  • 1 pezzetto di gambo di sedano
  • 4 – 5 bacche di ginepro
  • 1 limone non trattato
  • 1 cucchiaio di aceto
  • alcune fette di pane casareccio
  • sale

 

PREPARAZIONE:

Ponete in una padella non troppo grande dell’acqua, le fette di limone pelate a vivo ed un cucchiaio di aceto. Salate, portate ad ebollizione, quindi immergetevi le interiora per qualche minuto. Scolatele. Tritate assieme la cipolla, la carota ed il sedano e fateli soffriggere in una casseruola assieme a qualche cucchiaio d’olio. Unite le interiora, fatele cuocere per una decina di minuti a fuoco medio e salatele. Togliete le interiora dalla casseruola, passatele al tritacarne assieme a i capperi ed alle bacche di ginepro e rimettete il passato sul fuoco. Regolate di sale, aggiungete qualche goccio d’olio se necessario e fate cuocere per ancora 8 – 10 minuti. Spalmate con questo composto le fette di pane leggermente tostate al forno.

 

I crostini con le interiora o rigaglie di pollo, sono diffusi in tutta l’Umbria e sono tipici dell’Italia centrale. Ve ne sono molte varianti, a seconda delle zone e delle famiglie. In qualche versione moderna si passa al tritacarne, assieme agli altri ingredienti, anche qualche cetriolino sottaceto. Nei pranzi di matrimonio e della battitura di un tempo, almeno fino agli anni quaranta di questo secolo, spesso per preparare i crostini si usavano le rigaglie d’oca. Si ponevano in casseruola un trito di cipolla, carota, costa di sedano, salvia, scorzetta di limone e qualche cucchiaiata d’olio. Si facevano soffriggere, si univano le rigaglie d’oca fatte a pezzetti, si lasciavano insaporire, si salavano, pepavano e si irroravano con una cucchiaiata d’aceto. Quando l’aceto era evaporato si versava un goccio di vino bianco secco e si faceva cuocere per circa 40 minuti, versando di tanto in tanto un goccio di vino bianco. Le rigaglie ed il loro fondo di cottura si passavano al tritacarne, s’amalgamavano per pochi minuti a fuoco basso e si otteneva così un composto da spalmare sul pane.

 

Per gentile concessione di Calzetti-Mariucci Editori

 

 

Panicale appartiene al Club de
I Borghi Più Belli d’Italia

 


La Festa dell’uva in onore del dio Bacco è uno degli appuntamenti tradizionali di fine estate del lago Trasimeno. Panicale si prepara a ospitare la 42esima edizione, che andrà in scena dal 7 al 10 settembre. 

La storia

La festa dedicata a Bacco e al suo nettare ha origini lontane. Nel 1926, infatti, si racconta di un piccolo centro agricolo dove vigeva il latifondo e di un tempo in cui il vino, più che un nettare raffinato, era un vero e proprio alimento che dava la forza per compiere il duro lavoro dei campi. La manifestazione allora si svolgeva in contemporanea con il mercato del bestiame. Dopo una pausa forzata dovuta alla Seconda Guerra Mondiale, la Festa dell’uva ricomparve a Panicale a partire dagli anni Cinquanta, grazie alla volontà della Proloco, che ne cura tutt’oggi l’organizzazione.  
In quel contesto sociale la festa rappresentava una delle rare occasioni in cui i giovani delle diverse tenute potevano incontrarsi e conoscersi. Questo evento, a quel tempo cominciava con la Santa Messa in mattinata mentre, dopo un pranzo conviviale, il pomeriggio era dedicato al divertimento. Poi, dal 1976 la festa è diventata un appuntamento fisso per il borgo umbro e porta con sé i segni del mutare dei tempi. 

 

festa d'uva

 

Il percorso enogastronomico

Il vino si sposa con il cibo. Per questo con un calice e il classico porta bicchiere di stoffa da appendere al collo, si potrà iniziare il percorso tra le varie cantine sparse per il centro storico del borgo. Un tour enogastronomico a tutti gli effetti, che porterà i più golosi a scoprire le varie qualità di vino che saranno offerte dagli espositori. 
Il visitatore potrà anche degustare assaggi di prodotti tipici locali, come l’olio di oliva delle colline di Panicale, che viene proposto come condimento delle bruschette preparate al momento dai “cantinieri”, la fagiolina del lago, il miele, le marmellate, e la grande varietà di vini prodotti dei viticoltori locali.

 

Panicale

I giochi dei rioni

La storia dei rioni

Due saranno i rioni che si contenderanno il Palio di Bacco: il Rione Grifo e il Rione Torre. Una linea immaginaria dividerà il borgo da Nord a Sud, passando per la casa del condottiero Giacomo Paneri, detto Boldrino; il Grifo con lo sguardo a Est, la Torre a ovest. Nello stemma del Comune di Panicale c’è la storia di questi due rioni: il grifo concesso da Perugia in segno di gratitudine per le molte battaglie vinte al suo fianco, tra cui la memorabile vittoriosa difesa di Perugia, assalita dai Bretoni nel 1378, ad opera del condottiero panicalese Boldrino. La torre invece simboleggia il potere del castello che sorge sul colle, al cui fianco crescono le spighe di Panìco I due rioni si sfideranno nei giochi della tradizione popolare, ma anche in nuove e avvincenti competizioni.

 

 

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