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Una donna straordinaria con una forza commovente che, con tenacia e determinazione nel raccontare la propria testimonianza di deportata al tempo della Seconda Guerra Mondiale, ha stupito tutti coloro i quali hanno ascoltato le sue drammatiche narrazioni in merito ai campi di concentramento nazisti, da lei denominati “campi di annientamento”. Edith Bruck è il suo nome. Nella vita e nella storia rimarrà indelebile come le terribili disumanità che ha vissuto come vittima, sottoposta a violenze in nome di ideali sorretti da gratuite crudeltà.

 Edith Bruck ha raccontato, dapprima a mille studenti umbri, poi alle autorità civili, militari e religiose presso la sala della Conciliazione del Comune, la sua storia di deportata ebrea tredicenne ungherese, dapprima ad Auschwitz e poi in altri campi di sterminio nazisti.
I due incontri sono stati organizzati da Marina Rosati, responsabile del Museo della Memoria di Assisi, dalla fondazione diocesana Opera Casa Papa Giovanni e dal Comune di Assisi, con il patrocinio della Provincia di Perugia. Nell’occasione il Sindaco assisano nonché Presidente della Provincia di Perugia, Stefania Proietti, ha consegnato a Edith Bruck la cittadinanza onoraria di Assisi, con parole di affetto: «La sua testimonianza è stata intensa e la signora Edith ha ribadito più volte che non conosce l’odio. Una scrittrice e una testimonial fantastica che non si è sottratta alle tante domande ricevute. Ci ha detto delle sue cinque luci e così racconta la sua vita. Edith ha lasciato un segno profondo in Assisi e Assisi l’ha abbracciata con tanto affetto. Nell’occasione abbiamo celebrato la sua cittadinanza onoraria come assisana».

 

 

La signora Edith, con semplicità e orgoglio, ha detto: «Grazie per la cittadinanza, di cui sono molto fiera, perché Assisi è una città di esempio di come si può convivere e difendere i perseguitati o i diversi. Io sono molto affezionata a questa città da quando sono in Italia. Poi naturalmente avevo molto amiche ebree italiane che si erano nascoste qui ad Assisi e ogni due anni venivo qui a trovare un’amica. Ssono molto legata a questa città per un’umanità rara che non ho trovato da nessun’altra parte. Non finisce mai l’antisemitismo, non finisce mai il razzismo perché siamo incapaci di vivere in pace e forse questo è il più grande fallimento dell’uomo e della ragione stessa. Io credo che Auschwitz sia stata unica nella storia e non va appiattita o negata o banalizzata, come succede spesso… io non ho mai visto pace dopo la guerra. La mia storia come deportata è iniziata quando avevo 13 anni e i fascisti ungheresi bussarono alla mia porta: dopo 4-5 giorni nei vagoni ferroviari piombati ci hanno portato ad Aushwitz e appena arrivati è successa la prima luce. La sinistra o la destra significavano la camera a gas o il lavoro e un tedesco mi ha fatto andare nella fila del lavoro: questa è la prima luce di cui ho parlato con Papa Francesco».

Questo è l’incipit del racconto di Edith Bruck, straordinaria donna, che con grande lucidità ha espresso la sua drammatica e preziosa testimonianza, da cui si capisce la grande forza che porta in sé, così come la violenza e la crudeltà l’hanno segnata. Non ha uno spirito di rivalsa o vendetta, anzi, Edith ha voluto raccontare la sua esperienza da deportata ebrea soprattutto ai giovani, al fine di sensibilizzarne coscienze; la sua è anche una personale missione di vita, cioè quella di raccontare le violenze e i fatti vissuti, soprattutto agli studenti, per tenere viva la Memoria.

Maria Rosati ci ha confidato il suo entusiasmo per la visita di Edith Bruck ad Assisi: «La visita della signora Bruck è stata una cosa straordinaria che ci riempie d’orgoglio ma la cosa più bella è vedere tanti ragazzi che l’hanno ascoltata attentamente e soprattutto le hanno fatto tantissime domande. Non la volevano lasciar andare via, quanto erano desiderosi di conoscere, direttamente da lei, l’esperienza della deportazione. L’incontro con i giovani è stata la vera essenza di questa bellissima giornata dedicata alla Memoria».

C’è chi ricorda una storia, avvenuta qualche anno fa nei boschi di Villamagna, nei pressi della cittadina di Scheggia. Oddo Brunamonti, un abitante del borgo, raccontò di aver avuto un incontro inverosimile con una strana creatura, mai vista prima.

Era maggio del 1997 quando Oddo andò nel bosco a fare un po’ di legna e, mentre lavorava, si accorse che tra gli alberi vicini c’era una strana ombra appartenente a qualcuno che si nascondeva dietro un cespuglio. Oddo pensava fosse un animale e un po’ preoccupato dalle dimensioni della sagoma avvistata, salì in auto, accese il motore e a quel punto, mentre faceva manovra con la sua vettura, saltò fuori dal cespuglio uno strano essere: un bipede robusto e possente, alto circa un metro e ottanta, con le forti braccia protese verso l’alto, con grosse fauci spalancate, il corpo ricoperto da peli scuri, che emise un forte e spaventevole urlo acuto.
Oddo scappò velocemente con la propria autovettura e dopo essere arrivato a casa, trafelato e impaurito per l’incontro, confidò l’accaduto ai propri familiari e poi, da loro consigliato, andò dai Carabinieri a raccontare che cosa gli fosse successo.
In conseguenza della sua testimonianza, ci furono immediate ricerche e sopralluoghi, durante i quali furono trovati dei ciuffi di peli scuri impigliati nei rami degli alberi e una grossa e profonda impronta, in cui si distinguevano tre dita nella parte anteriore e uno sperone in quella posteriore. Si presunse, dalla grandezza e dall’avvallamento dell’orma, che l’animale potesse pesare 180 chilogrammi circa. Un vero mistero di un essere che solo a descriverlo risulta inquietante, figuriamoci per il povero Oddo, che improvvisamente se lo era trovato davanti, a brevissima distanza e subendo un’aggressione.

Sulle tracce della strana creatura

Qualche tempo prima di questo avvistamento, sempre in zona, si dice che si era visto uno strano animale aggirarsi nei pressi di una stalla, che poi si scontrò violentemente con il cane da pastore messo a guardia del ricovero, che rimase ucciso nella lotta per difendere la proprietà dalla mostruosa creatura. Il cane maremmano fu trovato morto, con la testa frantumata.
Così come, sempre in quel periodo e nella stessa zona, una quarantina di pecore furono rinvenute uccise, con un dettaglio anomalo sulla loro morte: avevano il cranio fracassato. I predatori abituali degli ovini, che siano i lupi o l’orso, non straziano in questo modo le loro vittime.
Lo strano mostro o presunto tale, sembra che fu intravisto da lontano anche da un cacciatore e da un motociclista. I due certamente non ebbero un raccapricciante incontro a breve distanza come quello del Brunamonti ma scorsero nel bosco una sagoma inusuale, probabilmente del misterioso animale.
In tutta questa vicenda, pare che ci furono delle pressioni su Oddo da parte di alcuni personaggi equivoci, per tacitarlo e anzi per fargli affermare che si era sbagliato nel riferire ciò che aveva visto. Avrebbe dovuto dire che quello che aveva visto era un orso e null’altro. Ma Brunamonti rimase fermo nei suoi convincimenti.
Nel contempo durante le notti di quel periodo, da numerose persone erano state udite delle strane urla provenienti dai boschi del comprensorio scheggino, e tra la gente del posto si iniziava a respirare un’aria di grande tensione.
Alle investigazioni sull’anomala creatura parteciparono forze dell’ordine, militari, esperti scientifici e veterinari, tutti coadiuvati nelle ricerche da un aeromobile. Un giorno, un pastore vide trasportare con un elicottero una grande cassa, che fu portata via dopo averla caricata sul velivolo nei pressi di una casa abbandonata che si trovava ai margini di un esteso bosco, poco lontano dalla zona oggetto delle minuziose ricerche. Chissà che cosa conteneva quella voluminosa cassa
Da quel momento, nella zona non accadrà più nulla di strano e tutto il personale militare e civile impiegato nelle ricerche abbandonerà la zona senza dare spiegazioni. Da allora non ci sarebbero più state notizie di avvistamenti di quello strano essere mostruoso, sul quale, ancora oggi si fanno svariate supposizioni della sua provenienza e origine: infatti si ipotizza che potesse essere un alieno o un esperimento di laboratorio o un mutante. Di certo Oddo Brunamonti, scomparso qualche tempo fa, quel giorno nel bosco prese un grande spavento e per questa storia fu anche deriso e screditato, forse per celare un segreto.
A distanza di tempo, qualcuno dei suoi denigratori ha iniziato a ricredersi… La comprova, al prossimo avvistamento!

In ogni vicolo e in ogni piazza di Bevagna si respira aria di Medioevo. Su questo sfondo ho immaginato le vicende di un giovane che voleva diventare un famoso pittore.

Vanni era un ragazzotto vivace, abitava in un’umile casa assieme alla madre, al padre e a sei fratelli. Aveva i capelli a tega e vestito con abiti passati e ripassati dai fratelli maggiori, andava sempre di corsa. Le scarpe erano un lusso e così in estate scorrazzava per i vicoli di Mevania a piedi scalzi. Caterina, sua mamma, era una donna gentile e molto religiosa, Ruggiero, il padre era anch’egli un brav’uomo ma quando beveva diventava spesso violento e aggressivo.

 

Vanni Da Mevania disegnato da Francesca Marchetti

 

Le botte che prendeva, Vanni se le ricordava tutte. La decisione presa dai genitori di mandarlo a imparare un mestiere gli era sembrata quasi una grazia di Dio. Finalmente se ne sarebbe andato da quella casa affollata e soprattutto non avrebbe più subito le percosse del padre.
Solamente sua madre lo chiamava con il suo vero nome, Giovanni. «Giovanni ricordati di ossequiare Maestro Pietro, non lo contraddire, sii umile e impara bene il mestiere». E ancora «Giovanni non menare gli altri tuoi compagni apprendisti, sii onesto e condividi la felicità che la vita ti ha donato». Vanni era stufo di questi consigli così come presto divenne stufo di sgobbare nella bottega di Maestro Pietro. Era un tipo ribelle ma non sedizioso, non rispettava mai gli orari ed era distratto da altre faccende. Non legava con i suoi compagni di lavoro, li vedeva troppo remissivi. Le sue aspettative di vita nel borgo di Mevania del 1477 erano ben diverse da quelle che gli si prospettavano. Mevania si sviluppava lungo il fiume Clitunno ed era caratterizzata da innumerevoli vicoli lastricati in pietra. La piazza principale era luogo di scambi commerciali. Vanni aveva la passione per la pittura, voleva trasferirsi a Pisa per perfezionare la sua arte acquisita con semplici tecniche da autodidatta. Aveva sentito parlare del Maestro Gianni Matto, è lì che voleva andare, sui lungarni pisani. Si immaginava un futuro da famoso pittore stimato e rispettato. Per realizzare questo suo sogno avrebbe avuto bisogno di tanti denari, ma lui certo non li aveva e di sicuro non li avrebbe accumulati lavorando in quella bottega del taccagno Maestro Pietro. Questi sì che i soldi sapeva farli e tenerli solo per sé. Li custodiva ben nascosti ma quello scaltro di Vanni aveva scoperto il nascondiglio e ogni volta che vi passava vicino gli ritornava alla mente la voce di sua mamma: «Giovanni comportati bene, sii onesto» e le sue tentazioni sfumavano immediatamente. Una sera come tante altre volte, finito di lavorare se ne andò alla locanda per dimenticare la brutta giornata tuffandosi nel solito bicchiere di acqua e vino. «Gaspare cosa c’è di nuovo? Niente come al solito?». «Ragazzo mio a dire il vero oggi abbiamo un ospite particolare. Non ti voltare, lo vedrai dopo. È seduto in fondo vicino al caminetto. È un mercante di stoffe, non so bene da dove provenga ma so per certo, me lo ha detto lui, che è diretto a Pisa. Pernotterà qui in locanda per qualche giorno». «Ah Pisa» esclama Vanni voltandosi verso il forestiero. «Molto interessante».

Il forestiero si chiama Ugolotto Anghieri ed è di bell’aspetto, alto e longilineo. I suoi occhi marroni riflettono sincerità e onestà, caratteri non sempre comuni ai mercanti di quel periodo. È seduto a una tavola assieme ad altri commensali che non conosce e alla stessa tavola va a sedersi Vanni. Erano divisi da un tale che la faceva da padrone in quella tavolata e non si guardarono neppure, ma Vanni decise che lo avrebbe incontrato di nuovo la sera successiva. L’idea di un mercante che era di transito per Pisa gli aveva stuzzicato il progetto di farsi accompagnare in quella città dove, magari, lo avrebbe introdotto nelle migliori botteghe d’arte dando inizio alla sua passione. Fu così che il giorno seguente Vanni e Ugolotto si ritrovarono seduti fianco a fianco e iniziarono a scambiare quattro chiacchiere mentre mangiavano una zuppa di verdure. «Messere il mio nome è Vanni e sono un povero garzone di bottega. I miei genitori hanno desiderio che impari il mestiere di calzolaio ma a me non piace».
«Chiamami pure Ugolotto, sono un semplice mercante di stoffe!». «Allora Vi chiamerò Ugolotto e per questo Vi ringrazio. A me piacciono le tele, i colori e i pennelli. Sento di avere la stoffa per diventare un pittore ma questo mio desiderio mi è ostacolato». «Vanni, cosa posso fare io per te? Non mi chiedere soldi perché quelli che ho sono appena sufficienti per me e per mantenere la mia famiglia. Al di là delle apparenze faccio una vita di sacrificio. Ci siamo appena incontrati e di solito sono molto cauto con le nuove conoscenze. Il mestiere di mercante mi ha fatto conoscere anche molti villani e non sempre ne sono uscito indenne». «Ugolotto, capisco le Vostre perplessità ma io non sono qui per chiederVi del denaro». «Allora cosa vuoi da me?».
«Vorrei sapere, se fosse possibile venire a Pisa con Voi».
«A fare cosa?».
«Di sicuro Voi conoscerete molte persone in quella città e per me potrebbe essere l’opportunità di entrare a far parte di una bottega d’arte». «In effetti conosco tanta gente, questo è vero e ho intrattenuto rapporti di lavoro anche con tanti artisti. Alcuni di loro hanno acquistato in passato i prodotti che vendo e uno in particolare, Maestro Strappino di Vallecupa, è un mio conoscente, e oltre a essere un rinomato scultore credo che faccia affari anche con i suoi dipinti». «Beh, questo potrebbe rappresentare per me un’occasione da non perdere. Come posso fare? Quanti denari mi occorrono per andare a Pisa con Voi e per rimanere là fin tanto che non ho trovato sistemazione degna per iniziare una nuova vita?». «Caro ragazzo di denari ce ne vogliono molti e mi dispiace dirtelo ma questo tuo progetto è destinato a morire ancor prima di nascere. Il consiglio che ti do è quello di continuare a imparare il mestiere di calzolaio, qualcosa dovrai pur fare per vivere».
La mattina seguente Vanni non andò al lavoro ma trascorse la mattinata in compagnia di Ugolotto a ripetergli la solita storia. Rientrò in bottega nelle prime ore del pomeriggio e il Maestro Pietro, appena lo vide, gli andò incontro aggredendolo verbalmente: «Disgraziato, dove diavolo sei stato tutto questo tempo? Lo sai che non ti devi assentare dal lavoro, tanto meno senza chiedermi il permesso?». «Ma io, Signore…». «Ma tu niente, devi stare in silenzio e lavorare. Io sono qua per insegnarti un mestiere. Ficcatelo bene in testa! Ciò comporta anche un percorso educativo che ho l’obbligo di perseguire come da accordi con i tuoi genitori. Ricordati che ti ho preso in questa bottega perché ho stima e rispetto per tua madre Caterina, quella povera donna». «Maestro, avevo un impegno, mi sono peritato a chiedervi il permesso perché ero certo che non me lo avreste accordato». «Cosa? Ora ti accordo io».
Dicendo così con la stecca che aveva in mano iniziò a menarlo talmente forte da fargli sanguinare le mani con le quali Vanni si stava proteggendo il viso.

«Basta Maestro, mi fate male, basta!». «Vai immediatamente a lavarti le ferite e mettiti subito a lavorare. Guarda i tuoi compagni come sono diligenti, cerca di imparare qualcosa anche da loro». «Va bene Maestro» disse Vanni con il volto chino e le lacrime che gli scendevano lungo il viso. Non erano lacrime di dolore ma di rabbia e rassegnazione. La sua anima ribelle e il suo progetto di andare a Pisa si rinvigorirono e si fecero sempre più forti. Lavorò il resto della giornata con il magone alla gola. Quella stessa sera ritornò alla locanda con l’auspicio di rivedere Ugolotto. Si trattenne a lungo ma del mercante nessuna traccia. «Gaspare, ma quel tipo, Ugolotto, non c’è stasera?». «È da questa mattina che non lo vedo, la sua stanza è vuota e in ordine e delle sue stoffe neanche l’ombra. Di certo se ne è andato senza neppure pagarmi il conto».
Il volto di Vanni si rabbuiò e dopo aver bevuto, questa volta un bicchiere di vino schietto, salutò Gaspare e si diresse verso il suo alloggio per dormire. Con i fumi dell’alcol e la temperatura torrida di quella sera Vanni non sembrava particolarmente lucido. Rientrò in bottega come al solito dal retro e passando davanti al nascondiglio, dove Maestro Pietro teneva i soldi, stavolta non esitò. Facendo piano piano, sollevò il mattone e prese la scatola contenente denari e preziosi. La svuotò e nel mentre che stava sistemando il malloppo nelle sue tasche ecco arrivare Maestro Pietro. Con un grosso candelabro in mano face luce su Vanni e cominciò a inveirgli contro: «Maledetto! Ladro! Non ti è bastata la lezione di stamani? Ora ti faccio vedere io!». Dicendo così fece per picchiarlo ma Vanni gli bloccò la mano e con uno scatto fulmineo lo colpì con il candelabro. Non si rese conto di ciò che aveva fatto, imbambolato e disorientato rimase immobile per qualche minuto con lo sguardo perso nel vuoto.
Il maestro Pietro era steso sul pavimento, Vanni, disorientato, salì velocemente le scale, prese il suo fagotto e ridiscese in bottega. Il maestro Pietro aveva ormai quel respiro affannoso che annuncia l’arrivo dell’ultima ora, Vanni in preda al panico uscì sul vicolo e fuori dai propri sensi ebbe la visione della cattedrale di Santa Maria Assunta. Il suo destino era là: Pisa.

Ho fatto qualche domanda al mio amico Lorenzo Barbetti sul suo romanzo d’esordio, Una balena bianca non volerà mai (Giovane Holden Edizioni, 2021) perché incuriosita da una vicenda che ci vede un po’ tutti protagonisti, che si svolge in luoghi in cui vivo e sono cresciuta: una storia che potrebbe essere quella di ognuno di noi.

 

Lorenzo Barbetti

Una balena bianca non volerà mai: un titolo accattivante coadiuvato da una copertina che non passa inosservata. La storia però è ambientata a Perugia, capoluogo di una regione in cui non c’è nemmeno il mare. Che significato ha il titolo, dunque?

Il titolo originale – Loser, che faceva riferimento tanto alla figura del perdente quanto alla canzone omonima di Beck che ritorna varie volte all’interno del romanzo – non mi convinceva. Un mio amico, al quale ho fatto leggere il manoscritto, mi ha allora suggerito la figura della balena bianca, che appare al protagonista in un momento cruciale della storia come una sorta di visione e si porta dietro delle considerazioni che possono in un certo senso essere applicate all’intero romanzo. In ogni vicenda che il protagonista vive, infatti, si ritrovano dei concetti, legati al suo sentire, suggeriti proprio da quella bianca balena. Questo mio amico – Leonardo Zaroli – ha ideato conseguentemente anche la copertina, che poi è stata disegnata con la collaborazione di Anna Scatolini e di Thea Corpora: già dopo un primo sguardo si riesce a entrare perfettamente nel mood del libro. Il fatto che l’ideatore del titolo abbia realizzato anche la copertina dona al volume una continuità eccezionale.

Nel caso della narrativa, quasi mai un autore scrive una storia solo per il gusto di raccontarla. Spesso c’è dietro un’esigenza, un impulso viscerale, il bisogno di mettere le carte in tavola e di fare i conti con qualcosa o con qualcuno. È davvero così?

Il libro nasce da un racconto che scrissi nel 2017 per un concorso. Concorso che vinsi, ma la cosa più importante è che per la prima volta mi ero approcciato nella scrittura vera e propria. Fino a quel momento, infatti, avevo raccontato storie fini a sé stesse e senza la logica universale che solitamente permette di accomunare lettori diversi. Quel racconto mi mise nella testa l’idea che potevo scrivere qualcosa con una logica, con un senso, che potesse essere apprezzato anche da altre persone. Una balena bianca non volerà mai nasce quindi non solo dall’esigenza di raccontare delle storie, ma anche dal cambiamento che stavo avendo in quel periodo. Ho inserito eventi del mio vissuto, di quello dei miei amici, racconti che avevo ideato in precedenza e che volevo riutilizzare, così come citazioni dal cinema e dalla musica (c’è anche una playlist su Spotify ispirata al libro che vi consiglio di ascoltare, nda), in modo da creare un mix che potesse piacere anche a qualcuno all’infuori di me. Un conto è scrivere per sé stessi, un altro è farlo per qualcuno che non ti conosce e che non sa quali sono i tuoi gusti: naturalmente a me piace quello che scrivo – come penso succeda a chiunque si approcci alla scrittura – però la vera sfida è farlo con l’idea che qualcuno con un retroterra diverso possa comunque leggere con piacere quello che hai prodotto.

Insomma, scrivere qualcosa che possa accomunare lettori diversi, magari perché emblematico di una generazione. Penso in particolare alla nostra, cioè quella dei nati negli anni Novanta…

Sì, senza dubbio, anche perché i riferimenti fanno proprio capo alla cultura pop di quegli anni. Però devo dire – e lo affermo con estrema soddisfazione – che i primi riscontri che ho ricevuto sul romanzo sono venuti da persone che non sono di quella generazione, ma che, leggendo, hanno potuto rivivere certe vicende della propria vita. Si sono identificate con alcune scelte del protagonista, con i suoi pensieri, con alcuni eventi che egli si trova a gestire. E questo mi fa molto piacere perché significa che Una balena bianca non volerà mai ha una portata più ampia, che nasce dagli stilemi di una generazione ma non si ferma solo a quella.

Nel caso della narrativa, le vicende sono piuttosto plausibili. Non hai pensato che la gente potesse credere che tutto quello che leggeva fosse una biografia romanzata di Lorenzo Barbetti? Se sì, questo ti ha in qualche modo frenato nel farlo leggere a conoscenti e amici? E, ancor prima, ha interferito nel processo di scrittura?

Sicuramente partire dalla propria esperienza è quasi fisiologico – non credo che esistano autori, nemmeno maestri della letteratura fantastica mondiale, che non inseriscano la propria esperienza in quello che scrivono – ma tutto viene comunque rielaborato. Nel caso di Una balena bianca non volerà mai non mancano delle parti completamente inventate che però sono funzionali alla storia. Parafrasando una massima piuttosto famosa, non bisogna mai fidarsi di uno scrittore perché tutto quello che si dice potrà essere riutilizzato: che sia una notizia di cronaca o un racconto altrui, va tutto a stimolare l’immaginazione. Molti mi hanno chiesto se fossi io il protagonista della storia e se avessi trascritto pari pari la mia vita. Diciamo che il protagonista è quello che Henry Chinaski è per Charles Bukowski: la sua versione romanzata. Questo mi diverte, più che spaventare, perché è come un gioco per me come credo per chi mi conosce almeno un po’. D’altro canto il protagonista non fa niente di scabroso o di illegale, ma solo esperienze che chiunque ha fatto almeno una volta nella vita. Ancora non ho motivo di essere preoccupato, ho in mente di scrivere cose ben peggiori! (ride, nda).

C’è stata qualche trasformazione dall’inizio della stesura al momento in cui hai scritto la parola “fine”? Non parlo solo dei personaggi, ma anche dell’autore…

Ho scritto il libro nel corso di un anno, facendo tre stesure diverse, limando e aggiustando, perciò alcuni elementi sono cambiati per forza. Naturalmente ce ne sono stati alcuni tecnici – ispessimento di alcuni personaggi, descrizioni più ricche, nuove vicissitudini, aggiustamenti nella forma e nell’agilità di alcuni passaggi. E poi sono cambiato io, tanto che, rileggendo, ho sentito di dover modificare alcune cose, specie quelle che mi era costato più mettere su carta. Però mi sono detto che quei passaggi cruciali li avevo scritti in un momento in cui nella mia testa c’era un’idea ben precisa e che quindi dovevo tenervi fede per evitare di snaturare il libro e la storia dal quale era scaturito. Quindi la struttura è stata sempre la stessa, dalla bozza alla terza stesura, anche perché l’avevo studiata molto bene ed ero sicuro che funzionasse. Alla fine mi sono sentito quasi liberato: ero riuscito a finire il libro e, rileggendolo, alcune cose funzionavano. Stesso discorso per i personaggi: hanno compiuto un percorso, sia esso vincente o perdente non conta, l’importante è che siano cambiati, che siamo cambiati insieme.

Nel libro c’è un chiaro riferimento a Perugia e alla sua provincia, vista però in maniera completamente opposta rispetto a un filone molto noto della letteratura contemporanea dove essa è l’emblema del non-luogo, dove tutte le ambizioni si perdono, dove tutto si appiattisce e dove la noia prende il sopravvento. È stato difficile ambientarvi i personaggi e fare i conti con le peculiarità di luoghi in cui vivi la tua vita quotidiana?

Ho imparato, anche grazie alla fotografia, ad apprezzare quello che abbiamo in Umbria, non solo tracciando le rotte turistiche più canoniche, ma anche quelle più inaspettate. È sempre possibile meravigliarsi della bellezza che si ha intorno. Quindi ambientare la storia a Perugia e, soprattutto, nella sua provincia, offre degli spunti inediti: se infatti per un giovane tra i 20 e 30 anni potrebbe apparire stretta, in realtà la provincia offre la possibilità di essere cullati da una realtà accessibile e familiare, piccola e molto accogliente. Io ne sono stato sempre affascinato, in particolare dalla sua non vivacità, dal suo avere luoghi desueti e anche un po’ desolati, dai suoi bar fermi agli anni Settanta. La trovo poetica. Per Una balena bianca non volerà mai questo tipo di ambientazione era l’ideale – il sottotitolo iniziale del libro era, appunto, Ovvero la mediocre storia di giovani di provincia – perché essa è un luogo in cui le cose piatte prendono vita, dove la noia diventa quotidianità, dove o emergi per scappare o impari a nuotare.

Nel libro il protagonista racconta le vicende in prima persona con uno stile che potremmo definire, senza troppe remore, cinematografico: un modo di scrivere che, nella sua disarmante semplicità, nasconde però regole ben precise e non lascia nulla all’improvvisazione. Ce ne puoi parlare? 

Sono sempre stato affascinato dal mondo dietro al cinema, ovvero dalla sceneggiatura. In questo senso ho potuto fare varie esperienze non solo grazie al mio percorso di studi, ma anche a Penumbria Studio, il collettivo di videomaking di cui faccio parte. Quello cinematografico è uno stile in cui bisogna asciugare e asciugare, raccontando anche cose molto personali e complesse con pochissime parole. Per non parlare di tutto il corollario di gesti e movimenti che caratterizzano i vari personaggi e le interazioni tra di essi. Si tratta di uno stile che è molto visivo, senza orpelli; il protagonista stesso – che vorrebbe diventare uno sceneggiatore – pensa per immagini. E il lettore, ascoltando il racconto in prima persona del protagonista, non solo sperimenta esattamente le stesse cose, ma ha anche un punto di vista molto parziale, come con l’occhio di una cinepresa. Al tempo stesso, è soggetto a una serie di espedienti narrativi che fanno capo al linguaggio cinematografico, come il montaggio serrato, il piano sequenza e così via.

Forse è un po’ presto per parlarne – visto che Una balena bianca non volerà mai è uscito da soli pochi giorni – ma c’è già qualche altro progetto all’orizzonte?

Ho diverse idee che riguardano sia la scrittura, sia la seconda stagione di _lobba_, la storia a fumetti che pubblico a puntate su Instagram. Insomma, ho diversi progetti artistici all’orizzonte, in cui ancora una volta cinema, scrittura, fotografia, disegno e musica si compenetrano. Ma non voglio svelare troppo!

 


Una balena bianca non volerà mai

Lorenzo Barbetti

Giovane Holden Edizioni, Viareggio (LU), 2021

Pagine 163

Titolo: Perugia Underground. Storie di donne, sesso e potere nel Novecento

 

Autore: Andrea Maori

 

Editore: Francesco Tozzuolo Editore

 

Anno di pubblicazione: 2018

 

Caratteristiche: 108 pagine, foto cm 21 x 15, brossura illustrata con bandelle, ill. b/n

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nella sua ultima opera, Andrea Maori – archivista e ricercatore perugino – ci porta alla scoperta di tre storie che hanno come protagoniste le donne. Tre vicende che attraversano il secolo scorso e che, avvalendosi di una puntuale documentazione e ricerca d’archivio, sono testimonianza della condizione di subalternità delle donne e della loro libertà individuale negata. Il primo racconto, Bell’Epoque a Perugia: «Amori illeciti» nella casa di pena delle donne, ambientato nel 1909, ha come teatro il riformatorio e il carcere femminile di Perugia al centro di polemiche e scandali per le violenze inflitte alle carcerate, che due donne coraggiose e battagliere, Zita Centa Tartarini e Maria Rygier, riescono a portare a conoscenza dell’opinione pubblica.

Nel secondo, Ai margini della storia: Cecilia Aurora e Agostina tra prostituzione e antifascismo, Maori ha seguito la loro storia di emarginazione attraverso le piccole tracce trovate negli archivi. Due donne, Cecilia Aurora Tavernelli di Città di Castello e Agostina Tortaioli di Perugia, schedate come prostitute antifasciste costrette a spostarsi da una città all’altra fino a far perdere le loro tracce e presenti nella storia solo attraverso scarne schede di polizia.

Nel terzo, Pubblica moralità dall’approvazione della Legge Merlin agli anni Settanta. Il caso di Perugia, l’autore analizza con numeri e dati puntuali il fenomeno prostituzione prima e dopo l’entrata in vigore della legge Merlin, che negli intenti doveva dare dignità alle donne ed evitare situazioni di sfruttamento. Inoltre Maori prende in esame la costituzione della Polizia femminile il cui scopo era quello di salvaguardare la pubblica moralità e vigilare sulla stampa reprimendo quella ritenuta immorale.

«Il volume ha il merito di portare alla luce tre storie locali che inevitabilmente si intrecciano con la dimensione nazionale che modulano su tre terreni diversi, ma contigui, la subalternità di classe e di genere che si manifesta nel dominio maschile della sessualità femminile», afferma il professore Paolo Bartoli nella prefazione.

Da segnalare la suggestiva immagine in copertina, che riproduce l’opera che l’artista spagnolo Daniel Munoz realizzò nel 2012 sul muro esterno dell’ex carcere femminile di Perugia. Il murale (acrilico su cemento) dal titolo Donne abbandonate del carcere di Perugia è stato distrutto nel 2017 nel corso dei lavori di messa in sicurezza dell’edificio. «L’idea del murale»  spiega l’artista «era di creare un ritratto simbolico della sottomissione delle donne attraverso la storia. Ho scelto questo tema perché l’edificio era la prigione delle donne».