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«Ho iniziato la mia carriera con Pippo Baudo, sono portato per le dirette, ho scioltezza e naturalezza particolari, per questo mi sento a mio agio sia in televisione sia in teatro».

È stata un’intervista-chiacchierata molto lunga quella con l’attore Guido Roncalli di Montorio, nato a Roma ma perugino di sangue e di adozione, forse perché c’erano tante cosa da raccontare. La sua carriera infatti è corposa e ricca: televisione, cinema e teatro. Un attore completo che vanta ruoli nei maggiori film e fiction degli ultimi anni: da Gli equilibristi a Cetto c’è, senzadubbiamente, da Permette? Alberto Sordi a I ragazzi dello Zecchino d’oro, senza dimenticare DOC, I Medici, Rocco Schiavone, L’alligatore, In arte Nino e ovviamente The New Pope, solo per citarne alcuni. Una carriera lunghissima iniziata con Pippo Baudo nel 1992 e consolidatasi sempre di più nel corso del tempo, fino ad arrivare alla corte cardinalizia del Premio Oscar Paolo Sorrentino.

 

Guido Roncalli di Montorio

Guido la prima domanda è di rito: qual è il suo legame con l’Umbria?
È un legame familiare molto forte. Mia nonna Antonietta Conestabile della Staffa era perugina, un quarto del mio sangue è umbro. A fine anni ‘70 da Roma, dove sono nato, ci siamo traferiti a Perugia, dove mio padre Francesco insegnava Etruscologia all’Università. Ho studiato al liceo classico Mariotti di Perugia e ho frequentato il primo biennio di Scienze Politiche, che poi ho proseguito a Milano. Oggi vivo a Roma, ma i miei affetti sono ancora a Perugia. I miei genitori e le mie sorelle vivono lì.

Com’è iniziata la sua carriera?
Nella mia famiglia si è sempre respirata arte. Tutti abbiamo studiato uno strumento musicale: a 10 anni ho iniziato a suonare la chitarra e questo mi ha portato – non essendo affatto una persona timida – a esibirmi già in tenera età. Poi, durante l’università a Milano, avevo degli amici che frequentavano il Piccolo Teatro Studio e da lì mi sono appassionato alla carriera artistica, mettendo da parte quella diplomatica per la quale avevo studiato. La mia prima esperienza è stata in televisione: ho partecipato nel 1992 a Domenica In condotta da Pippo Baudo, vincendo un quiz di cultura generale.

Quindi è stato scoperto da Baudo…
In un certo senso. È stata la mia prima apparizione nazionalpopolare. Sono persino finito in una domanda del Trivial Pursuit: «Come si chiama il super campione di Domenica In

Paolo Sorrentino, Gianni Boncompagni, Luca Manfredi… solo per citare alcuni dei registi con cui ha lavorato: com’è stato essere diretti da loro?
Con Gianni Boncompagni ho lavorato nel 1997 nel varietà Macao: lui è stato un genio, un grandissimo innovatore nel campo televisivo e radiofonico. Essere diretto da Paolo Sorrentino invece è come partecipare al Campionato del Mondo: mi sono ritrovato a lavorare negli studi di Cinecittà di Federico Fellini con Jude Law e John Malkovich. Fino a quel momento avevo recitato in serie A, con Sorrentino invece è stato come partecipare alla finale del Mondiale! Con Luca Manfredi, oltre al film su Alberto Sordi – di cui sono orgogliosissimo – avevo già girato In arte Nino (in onda sabato 20 marzo su Rai1) il film sulla vita di Nino Manfredi – di cui il 22 marzo ricorre il centenario della nascita, celebrato da Luca con il libro Un friccico ner core e un documentario in onda su Rai2 proprio il 22 – e le cui riprese vennero fatte tra Narni e Terni. La famiglia Manfredi è da sempre legata all’Umbria: la moglie di Nino, mamma di Luca, è Erminia Ferrari, del mitico Bar Ferrari di Perugia.

 

Guido Roncalli con Edoardo Pesce in “Permette? Alberto Sordi”

Ci racconti qualche curiosità legata alla sua esperienza in The New Pope di Sorrentino…
Sorrentino è un genio creativo, anche lui è un innovatore. Il suo cinema è subito riconoscibile ed è meticolosissimo e sempre attento al particolare. Per me è stato un onore essere scelto in questo cast ed essere diretto da lui.

Dove si manifesta la sua precisione?
Le faccio un esempio. Io in The New Pope interpreto il cardinale Roncalli – è stato lo stesso regista a chiedermi di lasciare il mio cognome, così da citare il vero cardinale Roncalli, poi diventato Giovanni XXIII – e indosso un abito completo, composto da diversi strati com’è realmente un abito cardinalizio. Non si stratta di un costume di scena, ma di un vero abito di sartoria ecclesiastica. Al contrario, in altre produzioni può capitare che si indossi solo una parte di un costume, quella che poi verrà inquadrata. Con Sorrentino ciò non accade. Ho fatto più di una prova costume; questo è possibile grazie al budget di cui può disporre un Premio Oscar ma anche a una grandissima cura del dettaglio. Inoltre, durante le riprese, lo trovi arrampicato a scegliere l’inquadratura perfetta o ti appare all’improvviso per riprenderti in primo piano.

Come ha accennato, ha dei legami con papa Giovanni XXIII…
Le origini della famiglia sono comuni e proveniamo dalla stessa zona bergamasca. È un legame che risale a prima del ‘600, quando il mio ramo acquisì il titolo di conte di Montorio. Ma tra papa Giovanni e mio nonno – che erano più o meno coetanei – è stato un legame più di amicizia che di parentela. Hanno fatto la carriera diplomatica insieme e sono rimasti in rapporti tra loro fino alla morte, mantenendo anche un continuo carteggio. Questa loro relazione, la porto in scena nello spettacolo teatrale Roncalli legge Roncalli in cui – accompagnato dal violoncello suonato da mio fratello Diego – racconto storie private, leggo lettere inedite e faccio vedere immagini dell’archivio della mia famiglia legate a papa Giovanni. È un recital che riporteremo in scena appena sarà possibile.

 

Guido Roncalli con il fratello Diego nello spettacolo “Roncalli legge Roncalli”

Teatro, televisione, cinema: qual è il suo mondo?
Non si può fare una vera scelta. Ognuno ha le sue caratteristiche. Il teatro non perdona e il pubblico vede tutto. In televisione, nel varietà, devi essere capace di non pensare che dietro alla luce rossa della telecamera ci sono milioni di persone. Il cinema ha ancora altre caratteristiche: sei circondato da tante persone e la scena la puoi rifare, anche se io faccio sempre finta di essere in diretta per evitare di fare troppi ciak. Devo dire però che io sono portato per le dirette, ho scioltezza e naturalezza particolari, e per questo mi sento particolarmente a mio agio in televisione e in teatro.

Ha lavorato con tanti attori, tra cui Valerio Mastrandrea e Antonio Albanese: ce li racconti brevemente…
Valerio lo conosco da tanti anni, è molto naturale ed è raro che debba rifare molti ciak. Con Albanese ho girato Cetto c’è, senzadubbiamente e mi sono molto divertito, perché la commedia è nelle mie corde. Antonio è simpaticissimo e ci conosciamo da molto tempo, ma al contrario di come può apparire, è molto riservato, gentile e mai sopra le righe. Certamente anche lui è geniale e originale.

C’è un personaggio che vorrebbe interpretare che ancora non ha fatto?
Mi piacerebbe cantare e suonare la chitarra anche in scena. Per esempio Georges Brassens, grande chansonnier e ispiratore di De André, sarebbe un personaggio che interpreterei volentieri, dato che conosco il francese.

In questi giorni è su un set: a cosa sta lavorando? Ci può anticipare qualcosa?
Ancora non posso anticipare nulla. Posso solo dire che si tratta di un film per la televisione che vedremo nella prossima stagione di RaiUno.

Quando è difficile lavorare in questo periodo di Covid?
Certamente non è facile, come non lo è per nessuno. Facciamo il tampone ogni settimana e restiamo nella bolla. E togliamo la mascherina solo al momento del ciak, come è giusto che sia.

A breve dove la vedremo?
Ho tre progetti in arrivo nei prossimi mesi. Buongiorno mamma, su Canale 5 con Raoul Bova, dove interpreto un magistrato amico del protagonista; La fuggitiva, con Vittoria Puccini, dove sono un direttore sanitario, è in arrivo su RaiUno; e Yara, film per Netflix sul caso di Yara Gambirasio, diretto da Marco Tullio Giordana, con Alessio Boni e Isabella Ragonese. Non voglio anticipare altro…

Se l’Umbria fosse un film quale sarebbe?
Un film su San Francesco d’Assisi.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?
Medioevo, meravigliosa, famiglia.

La prima cosa che le viene in mente pensando alla regione?
Campagna e riposo.

«L’Umbria è un posto magico, pieno di bellezza e natura. È una regione ricca di storia e suggestione»

L’Umbria può essere una bellissima terra d’adozione. Lo sa bene Luca Argentero che vicino a Città della Pieve ha una casa dove trascorre molto tempo e dove ha passato – in attesa della nascita della sua bambina – insieme alla compagna Cristina Marino, anche il lockdown. «Considero l’Umbria una patria d’adozione, sono convinto che decidere di costruire una base qui sia stata una delle decisioni più felici della mia vita» ci ha confessato.
L’attore, che ritroviamo da stasera nei panni del medico Andrea Fanti nella fiction di Rai Uno DOC – Nelle tue mani, ha una relazione con l’Umbria che è anche professionale. Qui infatti ha girato la serie Carabinieri che lo ha lanciato nel mondo della recitazione, e tre film: Lezioni di cioccolato 1 e 2 e Copperman, uscito proprio lo scorso anno. «Oramai è un luogo che conosco piuttosto bene, spesso la giro anche come turista. È un posto magico, pieno di bellezza e natura. Non manca anche il buon cibo, che è solo un corollario tipicamente italiano di una regione che emana una fortissima energia positiva, ricca di storia e suggestione. Se devessi descriverla in tre parole, per me l’Umbria sarebbe vera, forte e saporita» ci racconta l’attore torinese.

 

Luca Argentero

Argentero nel camice di Doc

La fiction DOC – Nelle tue mani – in sette prime serate – racconta la storia del medico Andrea Fanti che, a causa di un trauma cerebrale, ha perso la memoria dei suoi ultimi dodici anni e, per la prima volta, si ritrova a essere non più il luminare di un tempo, ma un semplice paziente. Amputato di molti dei suoi ricordi, precipita in un mondo sconosciuto: famiglia, figli, amici, colleghi, tutti diventano improvvisamente estranei. Anche la sua carriera torna indietro: da primario a meno di uno specializzando. «Il mio orgoglio è sapere di aver fatto un prodotto di altissima qualità. Ho cercato di capire cosa significhi passare dal ruolo di medico a quello di paziente. Questa serie insegna la velocità del mondo attorno a noi» ha spiegato Argentero durante la conferenza stampa di presentazione della serie.

«Il set de Il Nome della Rosa era come una grande famiglia; ho avuto la fortuna di avere un grande rapporto con John Turturro e con tantissimi attori. Il mio è un lavoro che quando lo fai ti ruba la vita, ma che quando finisce ti manca moltissimo».

Ciak dopo ciak Luca John Rosati si sta facendo strada nel mondo del cinema. Lavora a Roma da 15 anni e ha affiancato, come aiuto regista, direttori del calibro di Ridley Scott, Gabriele Muccino, Carlo Verdone, Sam Mendes… solo per citarne alcuni. La sua ultima fatica è la serie tv internazionale Il Nome della Rosa, in onda in questi giorni su RaiUno, dove Luca ha aiutato il regista Giacomo Battiato. «Durante le riprese mi sono occupato di tutto. Ho scelto con il casting ogni singolo monaco». Con Perugia – sua città natale – e l’Umbria ha un rapporto di amore e odio e non si risparmia qualche tirata d’orecchie.

 

Il cast de Il Nome della Rosa

Qual è suo legame con l’Umbria?

È un legame di amore e odio. Mi piacerebbe fare qualcosa di concreto per la mia città e la regione, sfruttando anche le mie conoscenze – spero un giorno di poterlo fare. Perugia è la città dove sono nato e mi dispiace vedere alcune dinamiche che non cambiano mai: si presentano sempre i soliti screzi – anche politici – che non portano nulla né alla città né alla regione. Tutto questo lo dico e lo ribadisco, perché ho grande affetto per questi luoghi.

Concretamente cosa vorrebbe fare o cosa dovrebbero fare?

Innanzitutto, occorre parlarsi e trovarsi insieme: Regione e Comune dovrebbero andare nella stessa direzione. La cultura è una, è apolitica; lavorare divisi in quest’ambito non serve assolutamente a niente. Si fa un passo in aventi e due indietro. È un’analisi che faccio perché queste dinamiche le noto quando torno a Perugia: percepisco poco entusiasmo in città e sembra sempre che non ci interessi nulla. È un atteggiamento molto provinciale. Tutto questo lo soffro molto, perché sono una persona che si esalta in tutti i progetti che fa. Ripeto, la mia è una critica per cercare di spronare. La gente –  non solo in Umbria – si dovrebbe riabituare alla cultura, interessare e la si dovrebbe vivere maggiormente.

L’Umbria nel suo piccolo ha comunque molti eventi culturali…

Sì, ma ne servono ancora di più. Va bene Umbria Jazz e tutti gli ospiti che attira, ma credo che le parti politiche, anche se opposte, dovrebbero – almeno sulla cultura – andare nella stessa direzione, senza pizzicarsi od ostacolarsi.

Come racconterebbe l’Umbria solo con qualche inquadratura?

Lo farei attraverso il lago Trasimeno, il monte Subasio, Assisi e soprattutto immortalando il verde. I panorami che abbiamo noi sono unici. Anche il centro di Perugia è bellissimo e bisognerebbe mantenere questa bellezza anche nelle periferie, costruendo con molto più criterio e con buon gusto architettonico, come sta avvenendo ultimamente a Milano, per fare un esempio.

Parliamo ora del suo lavoro: quand’è che ha messo piede per la prima volta in un set?

La mia prima volta è stata nel 2006 con la serie Roma dell’HBO. Avevo appena finito la scuola di regia cinematografica.

Com’è andata?

È stato un impatto molto forte, anche perché si trattava di una produzione americana. Ho iniziato subito a livelli molto alti. Il set di Roma era grandissimo, la produzione molto importante, così come gli attori: devo dire che è stato un bel debutto, ma allo stesso tempo molto impegnativo; spesso ci si svegliava alle 4 di mattina per girare e si tornava a casa alle 21.

Cosa fa in concreto un aiuto regista?

Il regista consegna una sceneggiatura e l’aiuto regista crea il piano di lavoro e di programmazione. Nelle produzioni americane siamo anche più di uno. Il primo aiuto regista è colui che crea la squadra, che prepara il set o che si occupa della chiusura di una strada se si deve girare un’esterna. Io sono abituato a fare tutto, sono un jolly. Ad esempio, per Il Nome della Rosa con l’addetto ai casting ho scelto ogni monaco, faccia per faccia.

Ha lavorato con grandi registi come Ridley Scott, Gabriele Muccino, Carlo Verdone, Sam Mendes e molti altri: cosa ha imparato da loro, cosa gli ha “rubato” artisticamente?

Quello che mi ha colpito di loro è stata la grande umanità e la loro conoscenza della macchina cinema. Hanno un grande rispetto nei confronti di ogni singola maestranza, in un set ci sono tanti lavori, tutti importanti. Tutto deve funzionare perché i tempi sono sempre ristretti e, per questo, è fondamentale il rispetto per ogni lavoratore, dalla punta alla base della piramide. Nel cinema si ha che fare con tante e diverse persone, questo ti apre molto la testa, ti dà una visione del mondo più ampia.

 

Luca John Rosati e Carlo Verdone

Lei ha preso parte come aiuto regista alla serie tv Il Nome della Rosa diretta da Giacomo Battiato: cosa si è portato a casa da questa esperienza?

Il set era diventato come una grande famiglia. Ho avuto la fortuna di avere un grande rapporto con John Turturro e con tantissimi attori italiani e stranieri, si era creata una squadra molto unita. Quando poi tutto è finito, ho sentito subito la mancanza: un impegno e un lavoro che quando lo fai ti ruba la vita, ma che quando finisce ti manca moltissimo.

È soddisfatto del lavoro svolto?

Il prodotto è di alta qualità e sarà sicuramente più apprezzato all’estero che in Italia: non vedo l’ora di vedere come sarà accolto in Inghilterra. Noi siamo abituati a prodotti più scadenti e siamo un pubblico più tradizionale. Il successo che sta avendo non è poi così lontano da serie più nazionalpopolari, non c’è stato – finora – un risultato di pubblico sconvolgente.

Perché secondo lei?

Come dicevo siamo abituati a prodotti più scadenti e vedere Il Nome della Rosa crea quasi una sorta di disturbo rispetto alla semplicità narrativa e costruttiva di altre serie. Altre produzioni ti impongono più qualità e ciò deve essere da stimolo, altrimenti le cose resteranno sempre come sono.

Ci racconti qualche curiosità legata alla serie…

Le riprese realizzate a Perugia, ad esempio, sono state difficili: la mattina sembrava piena estate, poi nel pomeriggio è arrivato un acquazzone improvviso e abbiamo dovuto riprendere John Turturro con una luce totalmente diversa rispetto alle immagini già girate. Ma questo è il bello del cinema!

 

Uno scatto con John Turturro

Ha mai pensato di realizzare un film tutto suo?

Ho dei progetti, le idee sono tante, ma vorrei aspettare il momento giusto e capire se quello che ho in mente può funzionare. Qualcosa, sicuramente, verrà fuori… Va detto che, per fare un film, ci vuole tantissimo tempo e io in questo momento ne ho avuto veramente poco. Quando deciderò, dovrò fermarmi un attimo e lavorare a tempo pieno al progetto, dovrà essere un prodotto forte al quale crederò molto.

C’è un regista con il quale le piacerebbe lavorare?

C’è e ho già avuto il piacere di lavorarci: è Wes Anderson. Ho lavorato in un cortometraggio che si chiama Castello Cavalcanti, diretto da lui.

E un attore che vorrebbe dirigere…

Emilia Clarke è un’attrice che mi piacerebbe dirigere. La conosco, ho già lavorato con lei in Voice from the Stone, film americano girato tra la Toscana e il Lazio. È un’attrice e una persona fantastica.

Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?

Pace, libertà, casa.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

Le amicizie.

«Tornare in Umbria per me è come prendere una boccata d’ossigeno. Amo questa regione e il suo cibo»

Camilla Ferranti si sta facendo sempre più strada nel piccolo schermo. Dopo le partecipazioni in Incantesimo, Distretto di Polizia, Angeli e Diamanti, Don Matteo e l’Onore e il Rispetto, sarà il prossimo anno l’antagonista di Barbara d’Urso nella nuova stagione della fiction La dottoressa Giò. Nata a Terni, da anni vive a Roma, ma una parte del suo cuore resta legata all’Umbria. Un cuore che da poco tempo è stato rapito dall’attore Christopher Lambert. Una love story nata per caso sul set della fiction e della quale Camilla parla sussurrando, quasi con timidezza.

 

Camilla Ferranti, foto by Melissa Marchetti

Camilla, la prima domanda è di rito: qual è il suo legame con l’Umbria?

È un legame di sangue, ci sono nata e cresciuta. Fino al liceo sono stata a Terni, poi l’università mi ha portato a Roma e lì sono rimasta. I primi anni dopo aver lasciato la mia città non sentivo il distacco, perché consideravo Terni una piccola realtà; non ci stavo bene nemmeno per le mie ambizioni. Oggi torno sempre volentieri, apprezzo la città e la regione: venire in Umbria è una vera e propria boccata d’ossigeno.

Quindi torna spesso a Terni?

La mia famiglia vive lì, per questo nei weekend o appena mi è possibile, torno in città, anche semplicemente per una cena: la cucina umbra mi manca molto.

Spesso gli umbri sono accusati di essere chiusi: lei vivendo fuori regione, percepisce questo?

Assolutamente no. Anzi, trovo che gli umbri siano un popolo molto aperto e alla mano. Sono accoglienti con le persone che provengono da fuori, cosa che non ho ritrovato nelle città che ho girato per lavoro. Inoltre, l’Umbria – anche con le sue pecche – è una regione dinamica e mi piace molto l’idea che non abbia bisogno di chissà quali grandi cose per star bene. Ultimamente mi sento molto nazionalista e legata alle mie origini, alla cultura e alla storia che ha l’Italia: siamo un luogo e un popolo meraviglioso.    

A breve la vedremo nella serie La dottoressa Giò con Barbara D’Urso: che ruolo ha?

Sono il direttore sanitario della struttura dove lavora la dottoressa Giò che, in combutta con il primario del reparto, cerca di ostacolare i suoi piani: la dottoressa vorrebbe creare un centro dedicato alle donne che subiscono violenza – un tema tra l’altro molto attuale – ma io, che rappresento la parte economica dell’ospedale, penso soltanto ai soldi e ai miei interessi. In pratica sono la cattiva della serie.

Quindi è un personaggio negativo?

È una donna che pensa solo alla carriera, è una pronta a tutto, che si mette sempre dalla parte del più forte e del potere. Non è certamente una che si fa mettere i piedi in testa: può sembrare una pedina, ma è una donna molto risoluta e sicuramente determinata. Avrà anche una redenzione…   

Si rivede in questa descrizione o lei è l’esatto l’opposto?

Sono anche io una donna determinata, ma non sono una carrierista: non sacrificherei mai la mia vita privata e non farei mai cattiverie per raggiungere i miei obiettivi. Giocare sporco non fa per me, sono una persona onesta e sto bene con me stessa se riesco a raggiungere i miei traguardi per merito e con le mie forze. Ciò non toglie che se c’è da giocare e combattere lo faccio tranquillamente. Sono attratta dal successo – lo ammetto – e sono molto ambiziosa, però gioco onestamente.     

Quando andrà in onda la serie?

Non si sa ancora con certezza, ma probabilmente all’inizio del 2019.

Camilla Ferranti, foto by Melissa Marchetti

Questa esperienza televisiva le ha portato anche l’amore, sul set ha conosciuto l’attore Christopher Lambert…

Non parlo molto della mia vita privata, posso dire che c’è una bella storia. È stato un incontro inaspettato, non pensavo nemmeno che potesse accadere, io ero concentrata sul mio lavoro… ma le cose belle arrivano quando meno te le aspetti! 

Ho letto che vi sposerete il prossimo anno…

Non voglio dire nulla a riguardo.

Cos’ha in cantiere Camilla per il futuro?

Ho diversi progetti lavorativi, sia nel cinema sia in televisione. Sono ancora top secret.

Tornando all’Umbria, come la descriverebbe in tre parole?

Genuina, rude, vera.

La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…

Verde e tranquillità.

«Terence Hill ristruttura il parco comunale della cittadina umbra dov’è nato il padre»

don matteo

Terence Hill nel film “Il mio nome è Thomas”

 

Che l’Umbria fosse cara a Terence Hill, nome d’arte di Mario Girotti, è ben noto. Don Matteo è un successo italiano e l’Umbria insieme a lui è la vera protagonista: da Gubbio a Spoleto, il prete detective fa entrare ogni settimana nelle case degli italiani le bellezze di questa terra.
Ma l’amore dell’attore per questa regione ha radici molto lontane. In occasione dell’uscita del suo ultimo film Il mio nome è Thomas – nel quale è regista e protagonista – ha scelto proprio Terni per la prima nazionale e l’incasso dell’evento è stato destinato alla ristrutturazione dei giardinetti comunali della città di Amelia, città dove è nato suo padre. L’attore tornerà ancora a vestire i panni del sacerdote nella dodicesima stagione di Don Matteo, che sarà sempre ambientata a Spoleto con qualche incursione nelle zone terremotate della regione.

Il ritorno al cinema

Dopo anni di successi televisivi, l’attore torna protagonista sul grande schermo con un film di ambientazione western, genere per il quale è diventato un volto iconico grazie a titoli come I quattro dell’Ave Maria, Il mio nome è Nessuno e Lo chiamavano Trinità, uno dei molti film interpretati in coppia con l’amico Bud Spencer. E proprio a lui Terence Hill dedica questo suo nuovo lungometraggio. «Ho pensato a questo film per dieci anni. Volevo unire una parte della storia scritta da Carlo Carretto con quella di una giovane donna, inserendo elementi di avventura, divertimento e dramma. Il film vuole essere contemporaneo, ma allo stesso tempo evocare una sensazione epica», spiega Terence Hill.

 

Veronica Bitto e Terence Hill

Il film

Il mio nome è Thomas, uscito nelle sale il 19 aprile, è una storia on the road tra la Spagna e l’Italia, in cui Thomas, in sella alla sua motocicletta, affronta un viaggio solitario verso il deserto. Durante i preparativi, però, incontra la giovane Lucia, che sconvolgerà tutti i suoi piani. Thomas, a causa di Lucia, si ritrova in una situazione rocambolesca e, per proteggere la ragazza, deve affrontare e mettere al loro posto due delinquenti. Quando finalmente riesce a raggiungere il traghetto diretto a Barcellona, Lucia, con una scusa, si imbarca insieme a lui.
Dopo qualche giorno, finalmente di nuovo solo, viaggia con la sua Harley Davidson verso il deserto. Qui trova un posto ideale: un altopiano circondato da montagne che si affaccia su un grande canyon, dove decide di sostare. Si stabilisce in un piccolo paese abbandonato in stile far west per vivere a contatto con la natura.  Presto però Lucia decide di raggiungerlo e stravolgere ancora una volta la sua quiete. Atmosfere western, polvere, deserto fanno da sfondo a un emozionante viaggio on the road che celebra la vita e l’amicizia e dove non potevano mancare omaggi alle epiche risse (…e le famose padellate!) dei film del passato.