L’Alchermes è un liquore italiano di colore rosso cremisi e veniva prodotto a Firenze già nel XV secolo, dove ancora oggi viene preparato, con l’antica ricetta, presso un emporio.
Tra i suoi ingredienti, oltre all’alcool etilico, zucchero, chiodi di garofano, cannella, acqua, cardamomo, acqua di rose e lamponi, c’è la cocciniglia. La cocciniglia è il colorante tipico, di colore rosso cremisi, e viene ricavato da un insetto della famiglia Coccoidea.
Attraverso una lunga e particolare lavorazione si ottiene l’acido carmico, da cui si otterrà il colorante. Un chilogrammo ha origine da circa centomila insetti. Il colorante siffatto, da sempre è stato destinato principalmente all’industria alimentare (E 120 è la sigla dell’additivo) e, in piccola misura, alla tintura dei tessuti. Ovviamente l’estrazione dell’acido carnico dagli insetti ha un costo molto elevato e pertanto, nel tempo, la cocciniglia è stata sostituita in modo importante da coloranti di origine sintetica (E 122, E 124, E 132).
Oltre che nell’alchermes, la cocciniglia è stata presente in molte bevande di colore rosso, come aperitivi, bitter e bevande gassate. Il nome cremisi e alchermes derivano dall’arabo qirmizi che significa prodotto da insetti.
La ciaramicola
In molti dolci umbri…
La ciaramicola è il tipico dolce della provincia di Perugia, di colore rosso con glassa bianca, dove l’alchermes è utilizzato in maniera importante, così come per gli strufoli e le frappe, che vengono spruzzati con il rosso liquore. Non sono da meno l’arrocciata o rocciata, la zuppa inglese, il salame del re, la pizza di Pasqua dolce, i ravioli dolci con ricotta, le pesche dolci e le castagnole sono tipiche e tradizionali preparazioni di dolci umbri che prevedono l’uso dell’alchermes, che piaceva molto ai Medici e piace ancora a molti. D’ora in avanti, quando assaggerete il tipico liquore rosso cremisi o un dolce che preveda il suo utilizzo, vi sorgerà un dubbio: questo alchermes utilizza il colorante fatto con gli insetti o con gli additivi sintetici? Tra gli ingredienti potrebbe esserci scritto E 120… basterà leggere l’etichetta.
Mi sono resa conto che a Perugia le ciambelle vanno alla grande e che si assomigliano un po’ tutte
Durante il periodo pasquale non c’è panetteria, bar o pasticceria dove non sbocci la ciaramicola, il ciambellone umbro dal caratteristico colore rosa ricoperto di meringa e codette colorate.
Un dolce delicato, sebbene imporporato dall’alcolico alchermes, che la tradizione vuole legato ai cinque rioni del capoluogo perugino, ma che la storia, con un documento del 1430, identifica come un prodotto da forno che il camerlengo di Gubbio aveva voluto offrire ai cittadini il 15 maggio, in occasione dei festeggiamenti al patrono Sant’Ubaldo.
Livrea perugina
Certo è che, guardando lo stemma di Perugia, il binomio rosso-bianco che la ciaramicola cerca di replicare sembra essere un vero e proprio omaggio alla città. Il bianco, simbolo di rinascita, è screziato di quelli che il dialetto chiama cecini, dei confetti colorati di cui il verde simboleggia i giardini che caratterizzavano il rione Porta Eburnea, il blu Porta Santa Susanna che guarda al lago Trasimeno, il giallo il grano proveniente da le contrade oltre Porta Sant’Angelo, il rosso la legna da ardere che arrivava dai boschi oltre Porta San Pietro e il bianco i marmi e i travertini che nobilitano il rione di Porta Sole.
I cinque rioni, in alcune varianti, sono presenti anche sotto forma di pinnacoli di meringa.
La variante con la croce e i pinnacoli
In altre, invece, a differenziare il dolce è una croce posta in mezzo alla ciambella, che per alcuni rappresenterebbe Piazza IV Novembre dove campeggia la Fontana Maggiore, mentre, per altri, sarebbe un semplice simbolo benaugurale.
Forse è per questo che le fanciulle in età da marito erano solite regalare la ciaramicola ai propri amati: per prospettare loro un’unione feconda.
Terribilmente simile al Torcolo di San Costanzo, non vi pare?
Un dolce, tanti spunti
Ma se l’origine della ciaramicola vi sembra confusa, aspettate di sentire quella del nome. Per alcuni, il nome deriva da ciara, volgarizzazione del latino clara (chiara) che verosimilmente fa riferimento all’albume fatto rassodare sulla superficie del dolce ancora caldo. Mica, invece, richiama la parte solida del dolce, il pane.
Di segno opposto è la teoria che vuole la derivazione da ciarapica, nome dialettale della cinciallegra che, con il suo piumaggio colorato, sarebbe uno dei primi segnali dell’arrivo della primavera. Per altri il nome della ciambella deriverebbe invece da ciaramella, un neologismo, sempre dialettale, usato per indicare la forma circolare del dolce.
«O pa’, si tu me vedessi l’core, l’campanile sona co ‘na tale durezza che le guance m’enno scomparse da la faccia, resta solo ‘na ruga de dolore… o pa’ si tu me vedessi l’core»
Regista, attore e scrittore. Filippo Timi è tutto questo e molto di più. Un vero perugino col donca, a cui piace portare il dialetto umbro nei suoi spettacoli teatrali. Dal 25 al 27 giugno sarà al cinema per un evento speciale: la trasposizione cinematografica del suo ironico e dissacrante spettacolo Favola, visibile per soli tre giorni. Il film, distribuito da Nexo Digital e diretto Sebastiano Mauri, ci porta nella provincia americana degli anni Cinquanta con le vite perfette, le donne sorridenti e i colori pastello. Qui Mrs Fairytale (Filippo Timi) e Mrs Emerald (Lucia Mascino) s’incontrano ogni giorno per condividere le loro esistenze tranquille e borghesi, ma la facciata di perfezione si sgretola, rotta da segreti terribili e possibilità inaspettate. Nessuna Favola è mai perfetta come sembra…
Filippo Timi in Favola
Per lei cos’è una favola? Quale sarebbe la sua favola perfetta (se esiste)?
La favola perfetta è quella che finisce con «e vissero tutti felici e contenti», ma la mia favola ideale è quella di un mondo più tollerante, un mondo che non giudica nessuno come diverso, ma lo accetta come unico.
Il film è ambientato nella provincia americana: pensa che anche in una città di provincia come Perugia avrebbe potuto raccontare questa storia?
Ogni provincia si assomiglia, ma per questo film quella americana esprimeva meglio il bisogno del personaggio di evadere nei suoi sogni, nell’America vista nei film sul grande schermo. L’America, con le sue contraddizioni ed esasperazioni, esprimeva perfettamente il luogo fisico e mentale per raccontare questa favola.
Siamo negli anni Cinquantae il film affronta il tema dell’identità di genere e del rapporto con il proprio corpo e la società: è cambiato realmente qualcosa rispetto a quegli anni?
Sì, molte cose sono cambiate, le donne non sono più costrette a mettersi un bustino, indossare gonne a campana ed essere confinate ai fornelli in attesa del ritorno del capofamiglia, ma la reale uguaglianza fra uomini e donne è ancora, tristemente, una meta lontana. Ginger Rogers faceva gli stessi passi di Fred Astaire, sui tacchi alti e all’indietro, ma era pagata la metà. Ancora oggi, per esempio, la differenza salariale di genere è un’amara realtà.
Cosa ha portato di suo nel personaggio? È stato difficile vestire i panni di una donna?
Per un uomo vestire i panni di una donna è estremamente difficile: a parte la difficoltà fisica, c’è uno sguardo del mondo esterno che ti giudica incessantemente. Sopportarlo, e a volte schivarlo, diventa un doppio lavoro.
Filippo Timi in Favola
Ora parliamo un po’ di Umbria: qual è il suo legame con questa regione?
Sono le mie origini, ho scritto poesie in perugino prima che testi in italiano. Sia nei miei romanzi che nei miei spettacoli non ho mai resistito alla tentazione di introdurre una vena umbra in questo o quel personaggio. Trovo che il dialetto esprima più direttamente certe sfumature di emozioni che l’italiano, invece, a volte, raffredda.
Ho letto che porterà in scena un cavaliere del Seicento e reciterà in dialetto perugino, col donca: ci può anticipare qualcosa? C’è già una frase in perugino che potrebbe descrivere il personaggio?
«O pa’, si tu me vedessi l’core, l’campanile sona co ‘na tale durezza che le guance m’enno scomparse da la faccia, resta solo ‘na ruga de dolore… o pa’ si tu me vedessi l’core»
È la storia di un cavaliere che combatte contro il drago delle proprie paure. Accanto a lui, un angelo custode in crisi esistenziale (Marina Rocco), un menestrello triste in maniera ilare (Andrea Soffiantini), un giovane scudiero alla scoperta dell’eros (Michele Capuano) e una saggia prostituta dai saldi principi (Elena Lietti).
Oltre al cinema e teatro, ha anche in cantiere progetti letterari?
I progetti letterari sono molti e segreti, ma ora mi sto concentrando sulla scrittura del nuovo spettacolo.
1 scorzetta di buccia d’arancia non trattata (solo la parte arancione) grattuggiata
poco latte
burro per ungere la tortiera
confettini colorati
1 cartina di lievito per dolci, dose da ½ Kg
burro per ungere lo stampo.
PREPARAZIONE
Lavorate assieme la farina, lo zucchero, lo strutto 2 uova e un tuorlo, l’archemes, la buccia d’arancia ed un po’ di latte, unite al lievito e versate in uno stampo unto di burro, lasciando da parte un po’ di impasto e dando la forma di un torcolo. Ricavate dalla pasta rimasta due bastoncini e disponeteli a forma di croce attraverso il buco della ciaramicola. Infornate a 180 °C e fate cuocere per circa 40 minuti. Togliete dal fuoco, ponete sulla superficie della ciaramicola la chiara dell’uovo rimasta montata, spolverizzate con i confettini ed infornate a fuoco caldo, ma spento, perché la chiara si rapprenda.
La ciaramicola con l’alchermes era il dolce tipico di Pasqua nelperugino e si usava prepararne in abbondanza per farne dono agli amici.
Per gentile concessione di Calzetti-Mariucci Editori