Quello che vi proponiamo oggi è la prima parte – ne seguiranno altre – di uno studio fatto da una nostra lettrice sulla condizione della donna nel 1500 a Bevagna.
A dieci anni dalla mia laurea, ricordo ancora quanto fui incuriosita dalla pubblicazione dello Statuto del Comune di Bevagna e ciò che mi spinse a intraprenderne la lettura. Sapere e immaginare come potesse essere la vita bevanate nel lontano Medioevo, nei luoghi dove, figlia del Mercato delle gaite, sono nata, cresciuta e ancora vivo, mi colpì particolarmente. Quello che ho avvertito mentre mi addentravo nella lettura è stata l’attenzione estrema, regolata dal buon senso, che i governanti ponevano verso i singoli aspetti della vita cittadina. Man mano che la lettura procedeva, il mio interesse si è concentrato soprattutto sui capitoli dedicati alla categoria delle donne, e ho deciso di farne materia di approfondimento e studio per la mia tesi di laurea.
Il testo originale dello statuto risale alla prima metà del Trecento circa e a noi è pervenuto in due copie, entrambe conservate presso l’Archivio storico comunale di Bevagna. La prima è un codice membranaceo manoscritto che comprende una trascrizione datata 1500, redatta durante il pontificato di papa Alessandro VI ed emendata dal giureconsulto Giovanni Pantaleoni che contiene tre redazioni precedenti: la prima, antecedente il pontificato di Martino V; la seconda, rinnovata grazie a Tommaso Matteucci; la terza, ricompilata al tempo di Martino V.
Il testo è suddiviso in cinque libri (uffici, cause civili, cause straordinarie, cause criminali, danni dati), per un totale di 431 capitoli e i capitoli relativi alle donne sono racchiusi precisamente nel secondo, nel terzo e nel quarto libro.
Le donne nel libro delle cause civili
Nel secondo libro, quello delle cause civili, sono quattro i capitoli dello statuto riguardanti alcuni aspetti della sfera femminile: si parla di dote e testamenti. La dote rappresentava l’unico modo con cui veniva conferita alle donne una parte del patrimonio della famiglia d’origine, parte che era comunque destinata a essere amministrata dai mariti per tutta la durata del matrimonio. Inoltre, come stabilito nel capitolo XVIII, qualora sopraggiunga la morte prematura di una donna sposata senza figli, la terza parte della dote della moglie deceduta dovrà rimanere al marito come compensazione alle spese affrontate per il matrimonio.
Il capitolo XIX dello statuto definisce il modello di comportamento da rispettare da parte di tutte quelle donne a cui è stata elargita una dote e che decidono di entrare in monastero. La norma da seguire dichiara che dal momento in cui esse entrano in monastero, qualora non dovesse esserci il consenso del padre, automaticamente saranno costrette a rinunciare a ogni diritto sulla dote.
Si prosegue sulla stessa linea anche nel capitolo XX dove si evidenzia l’obbligo e la riconoscenza che la figlia deve avere nei confronti della famiglia, proprio perché all’epoca la dote veniva riconosciuta come un privilegio per la donna che, nella maggior parte dei casi, non godeva di alcun diritto. Viene infatti sottolineato che, qualora fossero ancora in vita figli maschi, fratelli o nipoti carnali, alla donna dotata non è concesso chiedere altro, se non ciò che le veniva lasciato nel testamento. Il capitolo XXI notifica la norma secondo cui i testamenti delle donne sono sotto la tutela paterna. Il contesto familiare pone dunque limiti all’azione femminile anche in materia giuridica; infatti viene stabilito che la donna che ha ricevuto la sua dote dal padre, dovrà avere il consenso di quest’ultimo nel caso in cui decidesse di delegare, lasciare o sostituire il suo erede nel testamento.
Continua…
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Elisabetta Properzi
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