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Guardiamo e ammiriamo, attraverso alcuni dipinti famosi, i diversi tipi di matrimonio o eventi storici legati a esso partendo dalla “Proposta” di Frank Stone.

La proposta di matrimonio di Frank Stone

Frank Stone (1800-1859) è stato un pittore inglese autodidatta. Uno dei suoi maggiori successi fu The Proposal (La proposta di matrimonio), un olio su tela di 88 x 113 cm. Guardando attentamente il dipinto, possiamo notare molti particolari rappresentanti la vita e i valori dell’epoca. La scena è tipica di un interno vittoriano e può essere interpretata in due modi. Da una parte rappresenta una semplice relazione romantica dove l’uomo ha appena consegnato una rosa alla donna, due bambine che stanno leggendo e una cameriera che porta del tè con una fetta di torta (verosimilmente il pudding).

La proposta di matrimonio di Frank Stone

Dall’altra l’interpretazione è più suggestiva; la donna al centro è una madre rimasta vedova con le sue due figlie mentre l’uomo è un corteggiatore che si offre di sposarla. Piuttosto che una cameriera l’altra donna è la madre della vedova che spera nella loro unione.
Come si può ben notare l’uomo, elegante e raffinato, si protende verso l’amata per poi poterla accogliere nel suo amore. Il cane (simbolo di fedeltà) posto accanto a lui rafforza ancor di più la serietà della sua proposta. La ragazza impersona la modestia e la serenità, si sente sicura nel suo spazio mentre sta cucendo. La sua posizione, il suo sguardo e la vicinanza con l’uomo non lasciano spazio ad altri spunti interpretativi: accetterà la proposta di matrimonio.

 

Le nozze rosse dei Baglioni

Le nozze rosse dei Baglioni

Con Nozze rosse dei Baglioni si indica una congiura familiare ordita tra il 14 e il 15 luglio 1500 per eliminare dal potere i Signori di Perugia Astorre, Guido e Rodolfo Baglioni. La congiura è ricordata come la più crudele e violenta di tutto il Rinascimento. Il 28 giugno del 1500 si celebrò il matrimonio tra Astorre (figlio del patriarca Guido Baglioni) e Lavinia Orsini Colonna. L’evento si festeggiò con grande sfarzo per dodici giorni nella piazza principale di Perugia; vestiti sontuosi, gioielli ostentati, arredi, banchetti e canti coinvolsero tutta la città.
Il cugino dello sposo, Carlo Oddo Baglioni detto il Barciglia, mosso da una insaziabile sete di potere organizzò una congiura per prendere il potere in città eliminando i familiari. Il Barciglia, avido per gloria e invidioso dei suoi parenti potenti, ottenne la complicità del ventiquattrenne Grifonetto Baglioni, di Filippo Baglioni e di Girolamo della Penna. A loro si aggiunsero altri personaggi poco raccomandabili e privi di incarichi ma spavaldi e ambiziosi e decisi.
La notte torrida tra il 14 e il 15 luglio le residenze Baglioni furono attaccate e i Signori di Perugia assassinati. Compiuta la strage i congiurati si presentarono alla città come i liberatori della tirannia, ma il popolo, inorridito, non li sostenne.
Gian Paolo Baglioni, sopravvissuto alla strage, con le proprie milizie costrinse i cospiratori alla fuga, ma non tutti ci riuscirono. Grifonetto Baglioni fu catturato e ucciso. La mamma di Grifonetto, Atalanta Baglioni, e la moglie Zenobia, lacerate dal dolore si gettarono sul suo corpo.
Atalanta, mamma di Grifonetto, commissionò successivamente a Raffaello Sanzio un’opera da mettere nella chiesa di famiglia per ricordare il figlio. È così che nacque la Deposizione di Raffaello (1507) detta anche Pala Baglioni. Osservando il dipinto di Raffaello possiamo notare distintamente le espressioni di Atalanta (la Madonna) e di Zenobia moglie di Grifonetto (Maria Maddalena) che sembrano riprodurre quell’istante in cui morì il loro congiunto. Il giovane che sostiene le gambe del Cristo è Grifonetto caratterizzato da un’espressione assente come se fosse estraneo al contesto. Il suo sguardo è perso nel vuoto. Al centro il Cristo morto sembra rappresentare il potere conteso da Roma e dai Baglioni.

 

Il matrimonio mistico di Pistoia di Kristian Zahrtmann

Il matrimonio mistico di Pistoia di Kristian Zahrtmann

Kristian Zahrtmann (1843-1917) è stato il pittore danese che ha realizzato, tra il 1893 e il 1894, l’opera denominata Il matrimonio mistico di Pistoia. Il pittore danese giunse in Italia negli anni Ottanta dell’Ottocento e visitò più volte Pistoia, dove rimase fortemente suggestionato dalla bellezza della chiesa di San Pier Maggiore (oggi sconsacrata) tanto da sceglierla come ambientazione di un dipinto di genere storico. A Pistoia venne a conoscenza di una antica cerimonia che per secoli si svolgeva sul sagrato della Chiesa ogni volta che il neo nominato vescovo entrava per la prima volta in città. Si trattava di un matrimonio mistico dove il vescovo di fronte a tutta la città prendeva in sposa la badessa, del monastero benedettino di San Pier Maggiore, che simboleggiava la Chiesa pistoiese con la quale il vescovo si andava a legare in maniera indissolubile.
Nel quadro si fondono colori in maniera entusiasmante, e giochi di luce come quelli sulla facciata della Chiesa sono molto realistici. Da notare la presenza di persone completamente disinteressate all’evento, come spesso accade nelle grandi e lunghe cerimonie.
La scena che viene rappresentata è davvero grandiosa e caratterizzata da una folla composta e composita. Nella parte centrale troviamo sulla destra in ginocchio i monaci e sulla sinistra le monache. Membri dell’aristocrazia cittadina sparsi ovunque. In primo piano a destra un gruppo di belle ragazze e a sinistra ragazzi con abiti alla moda. Quello con i capelli lunghi rossi sembra molto interessato alla ragazza vestita di chiaro sulla destra. Al centro, in mezzo alla folla, sta il vescovo seduto sotto un baldacchino e ai suoi piedi, genuflessa, una giovane badessa. All’inizio della scalinata tappezzata di rosso e di spalle il celebrante la cerimonia. Quello che colpisce sono i vestiti eleganti, i tessuti lavorati e colorati, la luce e il gioco di prospettiva. È veramente un bel dipinto. Forse le proporzioni sono alterate, come l’immensa facciata della Chiesa, ma probabilmente era proprio quello che voleva Zahrtmann, e cioè farla assomigliare a una cattedrale.

 

Il matrimonio contadino di Pieter Bruegel

Il matrimonio contadino di Pieter Bruegel

Il Matrimonio Contadino, meglio conosciuto come Banchetto Nuziale è un olio su tavola di 114 x 164 cm. È opera del pittore olandese Pieter Bruegel il Vecchio e risale 1568. Pieter Bruegel ha come tema fondamentale nei suoi dipinti la realtà contadina ritratta in episodi quotidiani. L’uomo di Bruegel è goffo e vizioso e quindi non ha niente d’ideale, anzi deformazioni fisiche e morali vengono riprodotte con occhio lucido e sovente sotto forma di caricatura.
Dentro un granaio si sta svolgendo il pranzo di una coppia di contadini appena sposati. La sposa è quella davanti al telo verde con aria un po’ assente, lo sposo come tradizione deve servire ai tavoli e lo troviamo sulla sinistra che versa della birra in una brocca per poi portarla ai tavoli. Come si può notare c’è molta gente in uno spazio abbastanza ristretto, ma la capacità pittorica del Bruegel ci mostra dettagli significativi per ogni personaggio. In primo piano una bambina con un ampio cappello rosso sta leccando qualcosa dal suo piatto e due camerieri portano un grande vassoio di legno con sopra le pietanze, con il vicino commensale seduto che prende e le smista. Un suonatore di zampogna sembra chiedersi se ci sarà cibo anche per lui. Da notare che tutti indossano il cappello o la pezzola in caso di donna.

 

Il matrimonio combinato di William Hogarth

William Hogarth (Londra 1697- Londra 1764) è stato un pittore satirico del periodo Rococò e Barocco. La serie di sei quadri denominata Marriage A la Mode raffigura ironicamente la società inglese del 1700 mettendo alla berlina i risultati disastrosi di un matrimonio d’interesse. Il ciclo Marriage A la Mode ruota intorno a un matrimonio combinato tra il figlio di un fallito Conte e la figlia di un mercante di città, che non esita ad agire per i suoi interessi di ascesa sociale. Nel primo quadro della serie, The Marriage Settlement (olio su tela di 69 x 89 cm), si notano molti elementi significativi. Attraverso la finestra si vede la costruzione della nuova dimora del Conte, interrotta probabilmente per mancanza di denaro; sulla destra il nobile affetto da gotta mostra al suo ospite l’albero genealogico di cui va fiero; il mercante esamina minuziosamente il contratto matrimoniale alla ricerca di qualche cavillo; fra il nobile e il mercante un usuraio negozia il prestito per la ripresa dei lavori; sulla sinistra i due giovani sembrano indifferenti a quello che succede. Il figlio del Conte si guarda allo specchio disinteressandosi alle faccende che lo riguardano, mentre la figlia del mercante viene consolata dall’avvocato che ha preparato il contratto di questo matrimonio combinato.

 

Ius primae noctis

Ius primae noctis

Un iniziale inconveniente del matrimonio poteva essere lo Ius primae noctis. Questa locuzione latina che indica il diritto della prima notte è probabilmente un luogo comune che riguarda il Medioevo, anche se forse qualcosa di vero c’è. In quel periodo storico – ma anche molto dopo – i signori feudali esercitavano oppure no il diritto di trascorrere con le mogli dei loro sudditi la prima notte di matrimonio?
Che fosse una pratica comune e in qualche modo accettata o sopportata non ci credo proprio, anche se probabilmente qualche abuso a danno delle spose c’è stato. Comunque, non esistono fonti che dimostrino l’esistenza di un simile diritto, anche se il filosofo scozzese Hector Boece riporta un decreto del re secondo cui «il signore delle terre può disporre della verginità di tutte le ragazze che vi abitano». Comunque siano andate le cose dello ius primae noctis ne è piena la letteratura e anche la pittura con gli esempi di Jules Arsene Garnier e Vasilij Polenov dove viene rappresentata una giovane sposa portata dalla famiglia in casa del signore per passarvi la notte di nozze. Da notare in entrambi i dipinti lo sguardo rassegnato delle povere ragazze e la superbia dei signori che signori non lo erano affatto.

Il divorzio

Non di rado il matrimonio finisce con il divorzio. La pratica di tollerare l’infedeltà non ha più ragione di esistere. In Italia la legge sul divorzio ha pochi decenni e nel resto d’Europa da sempre nobili e regnanti hanno trovato il modo per liberarsi di un coniuge scomodo.
Il caso forse più eclatante della storia in tema di divorzio riguarda il re inglese Enrico VIII (1491-1547) che spinto dal suo bisogno dinastico di un figlio maschio si sposò sei volte. Enrico venne incoronato all’età di 18 anni e iniziò a sposarsi subito e nel giro di trentasette anni lo rifece per altre cinque volte. La prima moglie fu Caterina d’Aragona dalla quale ebbe una figlia conosciuta poi come Maria la Sanguinaria o Bloody Mary. Il matrimonio durò fino a quando arrivò a corte una nuova damigella d’onore, Anna Bolena. Enrico VIII perse la testa per questa ragazza tanto da chiedere al Papa Clemente VII di annullare il suo matrimonio con Caterina. Il Papa rifiutò e così Enrico si nominò capo della Chiesa anglicana, fece annullare il matrimonio dall’arcivescovo di Canterbury e sposò Anna.
Quando nacque la figlia Elisabetta, il re, che voleva ostinatamente un figlio maschio, si era già stancato di lei. Accusata di adulterio, Anna fu decapitata. Jane Seymour fu la terza moglie che riuscì finalmente a dargli quel figlio maschio tanto desiderato. La quarta moglie, Anna di Cleves, fu sposata per motivi politici, mentre la quinta Catherine Howard era la nipote del più importante esponente papista in Inghilterra. L’ultima moglie fu Caterina Parr, ultima perché questa volta fu lui a morire.

 

Le mogli di Enrico VIII

 

Concludo con una frase poetica di William Shakespeare: «Amore non è amore se muta quando scopre un mutamento o tende a svanire quando l’altro s’allontana. Oh no! Amore è un faro sempre fisso che sovrasta la tempesta e non vacilla mai; è la stella che guida di ogni barca, il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza. Amore non è soggetto al Tempo, pur se rosee labbra e gote dovran cadere sotto la sua curva lama; Amore non muta in poche ore o settimane, ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio; se questo è un errore e mi sarà provato, io non ho mai scritto e nessuno ha mai amato».

Per chi vive o frequenta una regione ricca d’importanti corsi d’acqua come l’Umbria è normale aver avuto in qualche modo a che fare con una trota: vuoi perché trainati dalla passione per la pesca a mosca, vuoi perché di fronte a un succulento cartoccio non si può dire di no o vuoi per il solo fatto che siamo abituati a collegare questo magnifico pesce alle chiare, fresche e dolci acque di petrarchesca memoria. Non tutte le trote dei nostri corsi d’acqua però ci raccontano la stessa storia e, se si va ad approfondire l’argomento, saltano fuori problematiche del tutto inaspettate.

 

Trota mediterranea (Salmo cettii). Foto di Massimo Lorenzoni

 

Iniziamo a fare un po’ di chiarezza: la trota mediterranea nativa (Salmo cettii) è un salmonide esclusivo dell’area mediterranea che, attualmente, nel territorio italiano si trova in uno stato di conservazione sfavorevole, tendente al declino. Questa specie frequenta i tratti alti dei bacini idrografici insulari e peninsulari appenninici e i torrenti montani delle Alpi occidentali.
Ma come fa a essere a rischio di scomparsa una specie ittica che viene allevata in molte troticolture e puntualmente reimmessa nei corsi d’acqua con importanti ripopolamenti proprio a ridosso della stagione di pesca? Semplicemente perché non tutte le trote sono uguali…
Si stima che ad oggi in Italia rimangano solo qualche migliaia di individui appartenenti alle popolazioni di Salmo cettii autoctone, con popolazioni isolate in piccoli bacini idrici di montagna.
La specie è particolarmente minacciata dall’alterazione degli habitat, dal bracconaggio e dai rilasci illegali con entità non autoctone che ne impoveriscono il patrimonio genetico.
Proprio su quest’ultimo punto vogliamo porre l’attenzione, in quanto quelle azioni di ripopolamento non pianificate e soprattutto i frequenti rilasci illegali di animali pronto pesca per la stagione alieutica non fanno che deteriorare ulteriormente il già profondamente minato corredo genetico della specie.

 

Trota fario (Salmo trutta). Foto di Massimo Lorenzoni

 

Ricerche effettuate dall’Università degli Studi di Perugia hanno messo in evidenza che in Umbria sono presenti solo tre popolazioni residue costituite quasi esclusivamente da trota mediterranea, presso il Torrente il Rio al confine con la regione Marche, il Torrente Monterivoso e la parte alta del Fiume Vigi nel sottobacino del Fiume Nera.
Proprio per salvaguardare la specie all’interno del suo areale è in corso il progetto LIFE STREAMS Salmo ceTtii REcovery Actions in Mediterranean Streams – LIFE18 NAT/IT/000931 che ha come obiettivo principale il recupero della trota mediterranea nativa (Salmo cettii) in sei aree pilota del territorio italiano, attraverso la progettazione e l’adozione di azioni concrete e coordinate di conservazione.
Tra le sei aree pilota figurano alcuni siti della Sardegna, del Parco Nazionale della Majella, del Parco Regionale di Montemarcello-Magra-Vara, del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, del Parco Nazionale del Pollino e del Parco Nazionale dei Monti Sibillini. Un grande sforzo congiunto, con l’obiettivo di preservare una specie, erroneamente considerata di poca importanza, che invece ci mostra da un’altra prospettiva il carattere aspro e selvaggio dei corsi d’acqua di montagna.

 


BIBLIOGRAFIA

  • Carosi A., Ghetti L., Padula R., Lorenzoni M. Population status and ecology of the Salmo trutta complex in an Italian river basin under multiple anthropogenic pressures. Ecol Evol. 2020; 00:1–14. https://doi.org/10.1002/ece3.6457

«La nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto». (Italo Svevo)

Il nostro viaggio alla scoperta dei dialetti umbri parte dal dialetto perugino. Un dialetto che potremmo definire inimitabile: nemmeno grandi imitatori come Maurizio Crozza e Gioele Dix (rispettivamente nei panni di Serse Cosmi e Fabrizio Ravanelli) sono stati in grado – diciamolo chiaramente – di riproporlo correttamente. Insomma, un dialetto difficile da riprodurre, o sei perugino oppure rischi di fare solo una tiepida e ridicola imitazione. A guidarci nel mondo del donca e a svelarci qualche piccolo segreto è Riccardo Cesarini, ideatore e curatore di Wikidonca, un vero e proprio dizionario online dedicato al perugino.

Riccardo Cesarini

Wikidonca è nato per caso una sera dell’estate del 2008, in un pub davanti a una birra: «Ero in compagnia di un amico e, tra le chiacchiere più varie, venne fuori un “com’è possibile, nell’era di internet, che non esista una catalogazione e un sito dove si possano trovare le traduzioni delle parole in dialetto?” Così mi si è accesa la lampadina e mi sono detto, ora lo invento io. E così è nato Wikidonca. Giorno dopo giorno ho inserito le parole, facendo aggiornamenti continui. Il nome invece è nato dopo tre giorni di conclave: unire un sistema open source e il donca è stata un’intuizione efficace e semplice, una settimana dopo il sito era online» racconta Riccardo, che specifica di essere un appassionato di computer e di dialetto (ex studente di scienze politiche) e non un accademico.

Cos’è il donca?

«Donca è una parola che letteralmente vuol dire dunque; è stata eletta parola caratteristica del dialetto perugino proprio per quella D molto pesata (in linguistica: occlusiva retroflessa sonora), tipica proprio della parlata perugina, come sono anche i suoni B, GN e la Z sempre (o quasi) sorda. Questo vuol dire avere il donca… Inoltre, per parlare un perfetto dialetto occorre – dice ironicamente – portare in avanti la mandibola e forzare sulla pronuncia delle consonanti, in questo modo uscirà tutto molto facile. Va detto che il perugino è un dialetto inimitabile: i tentativi sono stati tantissimi anche in tivù, ma mai riusciti veramente. Specie chi tenta di replicarlo da fuori, finisce con lo scadere in un qualche dialetto umbro simile alla cadenza folignate più che al perugino. L’unico che è riuscito nell’impresa – per chi ha buona memoria – è Michelangelo Pulci dei Cavalli Marci (gruppo comico di Genova) a inizio anni 2000 su Italia1, nel ruolo di Michele, l’informatico de Perugia. Ovviamente c’è il trucco: il comico aveva contatti diretti con la zona essendo originario di Città di Castello. È quindi un dialetto praticamente inimitabile, o ce l’hai o non ce l’hai, ed è parlato da poche persone» prosegue Cesarini.

Le parole da conoscere

Il perugino è un dialetto, alla fine, molto simile all’italiano, non ci sono quindi parole fondamentali e indispensabili per parlarlo correttamente, ma se ne vogliamo individuare alcune caratteristiche potremmo segnalare: bulo (che non lo dicono da nessun’altra parte) o fraido (che ha 100 interpretazioni diverse, in base al contesto).
«Anche l’anatomia perugina va conosciuta: se vai all’ospedale e incontri un medico di fuori regione, occhio a dirgli “me fonno male i reni” potrebbe capire qualcosa di più grave invece di un semplice un mal di schiena. Comunque, è impossibile conoscere tutte le parole dialettali, anche perché col tempo cambiano, ne spariscono alcune e ne nascono di nuove. Il mi nonno “bulo” non lo diceva, nemmeno sgaggio o sdatto. Col tempo le parole cambiano e assumono anche diversi significati. Bulo ad esempio è nato come trasposizione di fare la bula, oggi è un’esclamazione o un aggettivo e si può tradure con il termine inglese cool. Ci sono poi parole come marampto o strappacerque che significano maldestro, sgraziato, ma sono difficili da tradurre in modo letterale» spiega Riccardo.

 

Il grifo e il leone, simboli di Perugia

Il ritorno al dialetto e la vittoria di duelle

Il dialetto oggi è motivo di vanto, è tornato di moda in tutta Italia e non è più un qualcosa relegato alle persone più anziane o poco istruite. È una vera e propria lingua, per questo sarebbe opportuno conoscerla e capirla, scavando anche nelle proprie radici, per non cadere nella rozza cafonaggine. D’altronde, chi parla dialetto e basta può venire considerato un bifolco e un ignorante, ma chi sa parlare dialetto e italiano è in realtà bilingue.
«È fondamentale saperli distinguere e connotare entrambi, altrimenti si crea una zona grigia dove emerge la mancata capacità di parlare sia l’uno sia l’altro. A tal proposito, mi ha fatto molto sorridere qualche anno fa un catalogo-premi di una nota catena di supermercati dove, tra le precise schede di tutti i premi disponibili, a un certo punto compariva lui: lo scalandrino (italiano: scaletto), scritto proprio così! È stato bellissimo perché evidentemente chi ha curato la redazione del catalogo non sapeva che scalandrino è dialetto e magari non conosceva il corrispettivo in italiano. Scoppiai a ridere e lo feci anche l’anno successivo, perché l’errore venne ripetuto. Quindi anche il dialetto merita di essere conosciuto e va a suo modo studiato bene, soprattutto per chi lo vuole usare a scopo identitario o di divertimento tra amici» aggiunge il fondatore di Wikidonca.
Wikidonca, anche nel 2020, ha fatto il suo storico sondaggio, eleggendo la parola più bula – e non poteva essere altrimenti. La parola dello scorso anno è stata duelle. Me sa che oggi nn girè duelle (Mi sa che oggi non andrai da nessuna parte) sembra proprio il sunto perfetto del 2020.
«Me lo aspettavo. Non gi duelle è stato il leitmotiv del 2020, anno di pandemia, e non poteva essere altrimenti. E anche oggi ve dico: freghi… Non gite a pericolavve n’giro! Voglio concludere, dicendovi la frase che per me rappresenta la sintesi perfetta del carattere dei perugini: Chi vol Cristo se l preghi, chi vol l pan se l fietti e chi j rode l cul se l gratti» conclude Cesarini.


Per saperne di più su Wikidonca

«Il lago Trasimeno, pur nella sua vastità, per effetto della sua scarsissima profondità soffre di una grande precarietà e debolezza nel fronteggiare sia gli eventi climatici sia le opere dell’uomo».

Ho conosciuto Romano Rinaldi qualche anno fa e ci siamo intesi fin da subito con degli argomenti che abbiamo sentito nostri e condiviso fin dalle prime battute. Ma un tema, in particolare, ci ha sempre fatto da comun denominatore nelle nostre amabili chiacchierate: il beneamato lago Trasimeno. A questo proposito ho chiesto a Romano questa intervista perché, dal suo punto di vista, di cose interessanti ne ha da raccontare davvero tante.

Professor Romano Rinaldi

Ma prima di leggere le sue esplicative parole, è d’uopo una sua breve presentazione, da cui si potranno evincere i sui trascorsi professionali: il prof. Romano Rinaldi è l’ex titolare della Cattedra di Mineralogia dell’Università di Perugia (dal 1990 al 2014). In precedenza è stato docente e ricercatore presso gli atenei di Cagliari, Modena, Berkeley (USA), Chicago (USA) e Manitoba (Canada). Ha coordinato e partecipato a gruppi e progetti di ricerca nel suo campo in molti Paesi, oltre che in Italia (UK, SE, DK, CH, FR, DE, ES, PT, US, JP). Attualmente vive e lavora (per diletto) in prossimità del lago Trasimeno ed è quindi interessato alle vicissitudini e alla storia del lago, sia recenti, sia in ambito geologico-ambientale, data anche la sua prima laurea in Scienze Geologiche.

Possiamo dire che il Trasimeno è stato sempre di grande interesse per l’Università di Perugia, a testimonianza una recente iniziativa dell’UNIPG: il Brainstorming sul Lago Trasimeno, del 3-4 febbraio 2021. Un convegno telematico (in tempi di Covid) che ha visto una nutrita, assidua e attenta partecipazione del pubblico, che dimostra quanto sia vivo l’interesse per il Lago e quante competenze siano necessarie per comprendere le varie tematiche per questo delicato, suggestivo e antico specchio lacuale. La partecipazione di ricercatori e studiosi afferenti a tutti e 14 i Dipartimenti dell’ateneo, ne è una conferma palese. Ma veniamo all’intervista.

Professor Rinaldi, ci può dare un’idea della storia e dell’evoluzione geologica del lago Trasimeno?

L’unicità del lago Trasimeno è dovuta alla sua storia geologica alquanto singolare, di cui si occupò per primo Leonardo da Vinci, sempre avido di conoscere a fondo quanto sollecitava la sua curiosità. A differenza degli altri grandi laghi Italiani che sono o di origine glaciale (laghi Alpini e del nord Italia, per esempio Como, Maggiore, Garda) oppure di origine vulcanica (laghi laziali di Bolsena, Vico e Bracciano), il Trasimeno si è formato durante la nascita della catena montuosa dell’Appennino Centrale (orogenesi Appenninica) in una era geologica più antica di quelle che hanno dato luogo alla formazione di tutti gli altri laghi italiani.
La formazione del Lago inizia una decina di milioni di anni fa (Medio Miocene) con l’orogenesi dell’Appennino centrale: una catena di monti disposta in direzione NE, che si forma dalla convergenza tra l’orogene Alpino e il fronte del promontorio adriatico (parte della placca africana). A partire da quei lontani tempi geologici si avvia la formazione di un bacino sedimentario marino che era il precursore del Mar Tirreno (Pliocene inferiore: 4 milioni di anni fa). Nella depressione che comprendeva la Val di Chiana e il bacino del Trasimeno si accumularono dunque sedimenti marini per alcuni milioni di anni. Poi, quando queste depressioni interne rimasero isolate all’interno della terraferma, circa due milioni di anni fa, si formarono dei grandi bacini lacustri che furono via-via riempiti dai sedimenti continentali (fiumi, laghi), tranne che per un residuo velo d’acqua che persiste tutt’ora a formare il nostro Lago, anche in virtù dello svuotamento del bacino della Val di Chiana per effetto dell’inclinazione che questo assunse in direzione del bacino del Trasimeno. Per questi motivi si dice che il Lago è di origine tettonica. L’esiguità della profondità del lago (max. 5-6 metri raggiunti solo in alcuni punti), pur con una grande estensione che ne fa il secondo lago italiano (superficie di circa 120 km2), comporta la definizione di lago laminare con vaste estensioni che possono rapidamente impaludarsi per effetto di piccole oscillazioni (in meno) del livello dell’acqua, soprattutto nella zona compresa tra le rive di San Savino e Sant’Arcangelo e l’isola Polvese.

Il Trasimeno è dunque un lago laminare. Cosa significa in termini di equilibrio idrico e precarietà?

Il lago Trasimeno, pur nella sua vastità, per effetto della sua scarsissima profondità soffre di una grande precarietà e debolezza nel fronteggiare sia gli eventi climatici sia le opere dell’uomo. Questo deve essere ben presente a tutti coloro che intendano usufruire del Lago, dei suoi prodotti e del suo ambiente naturale e della sublime bellezza del suo paesaggio. Grande cura, impegno e studio sono richiesti per mantenere questi luoghi, utilizzarli con profitto e poterli tramandare alle generazioni future. I cambiamenti climatici in atto rendono il tema di assoluta e urgente attualità. L’equilibrio idrico del Lago non è affatto garantito non avendo immissari o emissari naturali. I canali artificiali attualmente in funzione non sono in effetti sufficienti a garantire la stabilità del livello del lago, soprattutto per quanto riguarda gli apporti idrici. Sono dunque necessari interventi idraulici di connessione con bacini artificiali o corsi d’acqua naturali che possano garantire gli apporti necessari in regime di magra. Per quanto riguarda l’emissario artificiale, una recente prova di funzionamento ha dimostrato che è comunque possibile far fronte abbastanza agevolmente a situazioni di piena. Anzi, sarebbe il caso di dire troppa grazia San Savino!

 

lago-Trasimeno

Lago Trasimeno

Il Trasimeno non è solo acqua. Cosa ci può dire sulla relazione che c’è tra acqua e terre circostanti.

Ritornando alla dinamica geologica ma relativa ai nostri giorni, il Lago è tutt’ora soggetto all’apporto di sedimenti per effetto del dilavamento del suo bacino imbrifero e questo comporta un costante innalzamento del fondo che, pur se apparentemente impercettibile nell’arco degli anni, deve essere tenuto in considerazione nell’arco dei decenni e soprattutto dei secoli. Infatti è stato calcolato un apporto di circa 1 cm ogni 3-4 anni. Questo significa che il fondo può innalzarsi di 10 cm in 30-40 anni ovvero di 1 metro in 300-400 anni. Il che porterebbe il nostro Lago a finire la sua esistenza naturale in tempi piuttosto rapidi, considerando che questi fenomeni, una volta avviati, si svolgono in modo molto accelerato, non certo con la progressione aritmetica riportata all’inizio del ragionamento. Un orizzonte temporale possibile per l’estinzione del Lago può essere dunque ipotizzato, in mancanza di interventi di cura e manutenzione, in poche centinaia di anni. Questo, a fronte di una età minima del lago, così come oggi lo conosciamo, di alcuni milioni di anni, può essere paragonato a un paio di secondi nell’arco di una giornata!

Il Trasimeno, nel suo oscillante equilibrio idro-ecologico, deve fare i conti con una molteplicità di fattori condizionanti. Secondo lei, quali dovrebbero essere gli accorgimenti e le iniziative da intraprendere per tutelare e preservare la bellezza naturale che caratterizza questo raro fenomeno naturalistico-ambientale?

Come già accennato, una prima preoccupazione deve essere il mantenimento di un equilibrio idrico che smorzi gli effetti delle cicliche magre, storicamente molto più protratte nel tempo delle piene. Questo può essere attuato solamente disponendo di apporti da laghi artificiali (es.: Monte Doglio) o da fiumi (es.: Tevere) che compensino l’evaporazione (estiva e invernale – anche la tramontana ha un effetto notevole sull’evaporazione) e la ciclica mancanza di piogge. Questo deve essere associato alla manutenzione del fondo, con la rimozione degli eventuali accumuli di melme composte da frazione organica e inorganica che portano a un inesorabile sollevamento del fondo come detto in precedenza. Esperimenti preliminari con questi depositi sembra abbiano fornito materiale adatto per la coltivazione; questo potrebbe essere un incentivo per ottenere due risultati, il mantenimento di un buon livello del fondo e la reclamazione di aree agricole altrimenti soggette a periodici impaludamenti nei periodi di piena. Devono poi essere considerati molti altri aspetti che ricadono nelle competenze di biologi, botanici ed ecologisti per quanto riguarda le specie utili e meno utili all’equilibrio ecologico-ambientale del lago. Ma questi sono argomenti che richiedono competenze diverse da quelle di un geologo.

Todi è una piccola città ricca di storia, con una splendida piazza e ripide stradine medievali, con il nido dell’aquila e tanto altro, ma è pure ricca di bellezze nascoste.

Todi possiede infatti un gioiello purtroppo non più aperto al pubblico: la galleria dipinta e la sala del trono dell’Arcivescovado. Il palazzo vescovile fu costruito alla fine del 1500 per volere del vescovo Angelo Cesi, inviato lì da Papa Paolo V per prendere saldamente in mano le redini della diocesi che entrava definitivamente sotto il dominio dello Stato della Chiesa. Era da poco finito il Concilio di Trento e le operazioni della Controriforma erano iniziate ovunque affidando le redini del governo ai vescovi, che le tenevano saldamente in mano. Angelo Cesi proveniva da una nobile famiglia romana che già aveva dei possedimenti in Umbria, tra cui un castello nel borgo con il suo stesso nome: Cesi. Una famiglia particolare, dove tutti i maschi furono ordinati cardinali e solo Angelo rimase vescovo fino alla morte nel 1606. Per Todi Cesi fece molto: con lui anche l’acqua arrivò in cima alla collina e la fonte prese, guarda caso, il nome di Fonte Cesia.

 

Arcivescovado di Todi costruito da Angelo Cesi

Palazzo Cesi

Angelo Cesi si comportò come un vero signore rinascimentale, facendo costruire subito la sua dimora sul luogo di un palazzo vescovile considerato troppo modesto e poi dette l’impulso per costruire in città altri palazzi rinascimentali. L’epoca dei palazzi fortezza era finita, non era più necessario mostrare la forza; adesso i signori volevano abitare in palazzi eleganti dove potere e ricchezza si mostravano attraverso l’arte. Grandi artisti venivano chiamati a costruire e abbellire le nuove dimore. In quell’epoca Venezia, Firenze e Roma si arricchirono a dismisura di palazzi principeschi e Angelo Cesi non volle essere da meno. Il suo palazzo si trova accanto al Duomo ed è collegato alla chiesa da un passaggio segreto.

Affreschi all’interno del palazzo

La facciata si presenta semplice e austera, il portone d’ingresso, forse disegnato dal Vignola – l’architetto dello splendido palazzo Farnese a Caprarola e del palazzo di Todi detto del Vignola – è un portone elegante e di linee sobrie, tanto da non lasciar presagire come sarà l’interno. Chiaramente Angelo Cesi doveva essere entusiasta del suo ruolo e lo volle esaltare nella sala del trono. Prima fece dipingere dal Faenzone un fregio che gira attorno alla stanza, con i ritratti dei vescovi di Todi che si sono succeduti nel tempo. Poi, per mostrare la sua apertura verso la popolazione, ha voluto che fossero ritratte delle persone colte in vari atteggiamenti: chi chiacchiera, chi si sistema una scarpa, chi suona il liuto, chi indica l’uscita.
Per fugare ogni dubbio sul luogo dove si trovava il suo trono, fece dipingere sul muro un ricco baldacchino entro una cornice architettonica importante. Vent’anni dopo la morte del Cesi, subentrò un altro romano dal nome importante: il vescovo Lodovico Cenci. Lui volle abbellire ulteriormente il palazzo e chiamò Andrea Polinori, noto pittore barocco umbro, per affrescare il corridoio di passaggio accanto alla sala del trono. Solitamente i palazzi rinascimentali e barocchi venivano affrescati con storie mitologiche oppure con storie desunte dalla Bibbia o dai Vangeli, a maggior ragione se il palazzo in questione apparteneva a dei religiosi. Qui invece abbiamo un’eccezione: il corridoio che affaccia sulla città è il trionfo dei vescovi di Todi, reali o mitologici, e ai lati del corridoio sono rappresentate le virtù indispensabili a un vescovo per governare: giustizia, benignità, vigilanza, intelletto, origine di amore, orazione e meditazione. Nella galleria è stata dipinta, con lo stesso stile delle carte geografiche vaticane, tutta la diocesi di Todi: un capolavoro di cartografia che riporta tutti i castelli, i borghi, i monasteri e le chiesette presenti sul territorio, si possono inoltre vedere sia il Tevere sia i piccoli fiumi.

 

Carta topografica del territorio tudertino

 

È una Google map molto grande, con la differenza che la visione è orizzontale, cioè Ovest/Est e non Nord/Sud come siamo abituati. Una mappa affascinante che sorprende per la precisa descrizione geografica e per il numero sterminato di castelli, quasi uno per ogni collina. La galleria è riportata anche sulla guida di Todi pubblicata nel 2019 da La Repubblica ma purtroppo resta sempre chiusa al pubblico… e chissà fino a quando!

Studio Lumière e Associazione dei Mestieri del Cinema Umbri portano le produzioni nella regione e forniscono maestranze specializzate: «Un passo molto importante».

 

L’Umbria torna a essere lo scenario perfetto per un altro film.  A Montoro – frazione di Narni – e presso il Relais Tenuta Gentili (Amelia) per tre settimane le forze malefiche sono state protagoniste con le riprese di Medium, un thriller-horror ambientato tra Roma e l’Umbria. La pellicola, diretta da Massimo Paolucci e prodotta da Daniele Gramiccia per Emy Productions di Giovanni Franchini, s’ispira – non prendendosi troppo sul serio – ai vecchi film anni Settanta e racconta la storia di una gang di romanacci, capitanata da Tony Sperandeo, che si ritrova in una villa dove si manifestano forze malefiche.
Quello che accadrà sarà opera dell’uomo o di qualcosa di sovrannaturale? Questo ce lo racconta un ricco cast, che vede la presenza di Barbara Bacci, Hal Yamanouchi, Bruno Bilotta, Francesco Maria Dominedò, Emilio Franchini, Martina Marotta, Pierfrancesco Ceccanei, Daphne Barbieri e Martina Angelucci.
Lo Studio Lumière, società di produzione video cinematografica di Perugia, ha reso possibile ciò, creando il contatto tra la produzione romana e l’Umbria. «Abbiamo curato diversi aspetti per questa produzione: dagli alloggi alle regole per il virus, fino al backstage e, grazie alla sinergia con l’Associazione dei Mestieri del Cinema Umbri, è stato possibile inserire diverse maestranze umbre all’interno del film: nel settore del trucco e parrucco, in quello tecnico con Marco Benedetti, nella direzione della fotografia con Matteo De Angelis e nel backstage con Federico Locchi» spiega la presidente Matilde Pennacchi.

 

L’importanza del cinema in Umbria

«Un bel gruppo di soci dell’Associazione Mestieri del Cinema – che ne conta oltre 100 – ha fatto parte di questo progetto e per noi è molto importante. Dopo aver partecipato a festival di prim’ordine, tra cui Venezia e Roma, il nostro passo successivo era quello di cercare occasioni concrete di lavoro e contatti con produzioni nazionali. Questo film ne è stato un esempio. Stiamo inoltre lavorando per una sinergia tra tutte le imprese dei singoli soci, così da fornire un servizio completo alle produzioni che scelgono l’Umbria come location per i loro film. Siamo orgogliosi di dire che la produzione di Medium è stata molto soddisfatta e si sono creati con loro i presupposti per altre collaborazioni» prosegue Federico Menichelli, presidente Associazione dei Mestieri del Cinema Umbri.

 

 

Le riprese, durate tre settimane, sono state realizzate la maggior parte in notturna, creando anche qualche apprensione tra la comunità: «Una sera, mentre si girata nel piccolo cimitero di Montoro, è arrivata la telefonata dell’assessore di Narni, Lorenzo Lucarelli, che aveva ricevuto diverse chiamate allarmate, perché gli abitanti vedevano delle luci all’interno del cimitero e non sapevano cosa fosse» racconta Menichelli.
«In Umbria, a oggi, ci sono tanti professionisti del mondo cinema costretti ad andare a lavorare in altre regioni, ma con la creazione a regime dell’Umbria Film Commission si potrebbero unire le forze tra enti e associazioni, così da creare progetti importanti all’interno dell’Umbria» conclude il presidente Associazione dei Mestieri del Cinema Umbri.

 

INGREDIENTI
  • 4 costolette di castrato o pecora
  • 3 spicchi d’aglio
  • 1 rametto di rosmarino
  • Qualche cucchiaio di olio extravergine d’oliva
  • Sale

 

 

PREPARAZIONE

Fate un trito di aglio e rosmarino, cospargetevi le costolette, salatele, ungetele con l’olio e fatele marinare per almeno 12 ore prima di cuocerle alla griglia.

 

Questa è una ricetta dell’Umbria del sud, dove si usava principalmente la pecora. A Gubbio al posto del rosmarino usavano la maggiorana e, a volte, le costolette venivano ripassate in padella con sugo di pomodoro. In alcune zone del perugino si facevano le costolette di castrato in umido, lasciando insaporire con aglio, olio e rosmarino; si rosolavano le costolette, si irroravano di aceto, si salavano, pepevano e portavano a cottura con il pomodoro.  

 


Per gentile concessione di Calzetti&Mariucci.

Era febbraio quell’anno e la neve scendeva e copriva l’Europa. Tutta l’Italia lentamente si trovò imbiancata dal Brennero a Palermo.

In Umbria scesero prima 10 centimetri poi 50 e la vita si fermò a guardare. Lu nevone, la chiamarono a Norcia. Dopo la neve la temperatura cominciò a scendere, poi nevicò ancora e poi gelò. A Terni la temperatura scese fino a -15° C e il termometro si schiantò. L’Italia batteva i denti. Quando l’inverno sembrava finito – era il 13 marzo – il cielo si coprì ancora di nubi grigie, la primavera fece un passo indietro e di nuovo cominciarono a scendere inesorabilmente i fiocchi bianchi, tanti, troppi.

L’Italia sommersa dalla neve

Dopo la neve tornò ancora il gelo, duro, terribile, crudele. Il proverbio dice sotto la neve pane, ma la neve del ‘56 non ebbe pietà per il pane. Il freddo intenso distrusse il grano nei campi, bruciò gli olivi e seccò le viti. Gli agricoltori si trovarono senza niente da mangiare, niente da vendere, niente da vivere. Le industrie erano scarse in Umbria, nel ‘56, non c’erano reti di salvataggio per chi lavorava la terra.

Un duro inverno

Fu un inverno di dolore che travolse intere famiglie e che cambiò la vita di molte persone. Troppi furono costretti a lasciare la loro casa, il loro mondo, gli affetti più cari e prendere la via dell’esilio. Ci fu chi si spostò solo fino a Terni o a Roma e chi fu costretto ad andare lontano, fino in Germania o in Francia o in Belgio. Chi rimase doveva continuare a vivere e fare i conti con la natura ma essa, con la sua forza devastatrice, non aveva tenuto conto della tenacia degli agricoltori.
Ci furono piantagioni che andarono interamente sostituite. Si buttarono via i frutti sugli alberi e anche gli alberi. Gli olivi che tenacemente resistono anche quando la temperatura scende sottozero, si arresero sotto la sferza del gelo troppo intenso e troppo lungo: si spaccò la corteccia, i rami cedettero sotto il peso della neve, le foglie mutarono colore da verde a marrone. Le colline avevano cambiato volto e gli olivi sembravano zombi. I danni erano gravi, anzi gravissimi, ma quello che si vedeva non era tutto. Gli alberi si alzano da terra belli e frondosi, ma sottoterra ci sono le radici che sono l’apparato vitale e le radici avevano resistito ed erano vive.

 

Norcia sommersa dalla neve nel 1956

La rinascita a primavera

Non tutto è perduto! fu il grido che si levò ovunque. Quando finalmente la primavera arrivò si portò via la neve. Allora andarono tutti nei campi con la sega e tagliarono gli alberi fino a metà tronco, li capitozzarono e rimase la ceppaia. Poi tornò di nuovo l’inverno e tornò la primavera e la ceppaia cominciò a gettare i primi rametti e lì i contadini intervennero.
Invece di far crescere un solo tronco ne lasciarono crescere tre, con spazio e aria tra i rami per difenderla meglio dai vari parassiti che l’attaccano e distruggono il raccolto. Avevano inventato il vaso policonico, cioè erano tre strutture piramidali che avevano la funzione di abbassare i rischi in caso di condizioni avverse. Le avversità atmosferiche sarebbero sempre tornate allora non restava che aumentare le probabilità di sopravvivenza: se i tronchi sono tre, forse uno si salva.
Dopo la gelata del ‘56 o meglio, dopo il Nevone del ‘56, il panorama delle colline umbre è leggermente cambiato: sono spariti quegli alberi biblici che avevano un solo tronco contorto, lavorato dai parassiti ma ricco di leggende e al loro posto si sono sviluppati alberi bassi, facilmente lavorabili, che, dopo un breve tronco, si aprono in tre e che vediamo ovunque attraversando la Regione.