La palomba alla ghiotta è un’antica specialità di Todi, che nei ristoranti si trova in autunno e neanche sempre, mentre fuori stagione è quasi introvabile.
La ghiotta, quella della palomba, è solo la leccarda dove si raccoglie il sugo di cottura degli uccelli, che girano adagio sullo spiedo senza essere lambiti dalla fiamma e, mentre sono spennellati di olio, i loro umori scendono nella ghiotta. Gustare la palomba alla ghiotta è, scusate la ripetizione, una vera ghiottoneria!
Io l’ho mangiata per la prima volta quest’estate, cotta in maniera raffinata dalla mia amica Pina. Pina ha imparato a cucinare prima ancora di camminare e nel forno dei genitori ha preparato pane, dolci e ogni genere di squisitezze: delicatessen per gli stranieri della zona. Adesso che si è ritirata, solo poche persone fortunate possono gustare i suoi piatti speciali.
Tornando alla palomba, dopo una cottura di due giorni si presenta a pezzi, immersa in un sughetto denso da mettere sul pane bruscato. Ci sono varie scuole di pensiero disposte a scannarsi per affermare che il loro sughetto sia il solo valido. Cosa contiene quel sughetto così denso e saporito: olive nere o verdi, fegatelli, vino rosso e chissà quali altre prelibatezze.
Regina delle tavole umbre
Queste palombe sono uccelli migratori che, volando dall’Ungheria all’Africa, passavano sopra i boschi di Todi e di Amelia. Lì erano attese dai cacciatori che, fra capanni, richiami e uccelli addestrati (i palombini), studiarono ogni genere d’inganno per far scendere le palombe verso le pentole che le aspettavano. La caccia alla palomba era un’attività tipicamente umbra, anche se ora che i boschi sono stati sostituiti dai seminativi le palombe hanno modificato il loro percorso migratorio. Certi piatti, che oggi sono diventati prelibate rarità, qualche decennio fa erano invece piatti di sussistenza per i poveri, che mangiavano una palomba di tanto in tanto, di nascosto dai proprietari terrieri.
I signori, proprietari dei latifondi, ne cacciavano invece a centinaia, ma mai da soli, sempre con amici. La caccia alla palomba piaceva inoltre ai laici e ai religiosi; anzi i religiosi erano molto attenti che la caccia si svolgesse secondo le regole.
Con un editto del 1815 rivolto ai tuderti, il Cardinal Bartolomeo Pacca, Camerlengo di Santa Romana Chiesa, proibì a «ciascuna persona, secolare o ecclesiastica» di «tagliare legna, far chiassi, e qualsiano altri rumori nei siti, ove sono i palchi de’ cacciatori» nella stagione della caccia ai palombacci, «sotto pena di scudi cinquanta per ciascheduno, ed altre pene anche corporali». Multa e botte per i disturbatori della caccia alla palomba: se lo dice un cardinale vuol dire che era un rito della massima importanza. Fino a pochi anni fa sulla tavola delle famiglie benestanti di Todi il pranzo di Natale prevedeva la palomba alla ghiotta che, prima dell’entrata in uso dei frigoriferi, veniva conservata nelle neviere (o ghiacciaie) dall’autunno al Natale: tradizioni che sarebbero scomparse se non ci fosse il Club della palomba.
Cecanibbi di Todi è la sede dell’Università della Palomba, ovvero dell’associazione venatoria da dove provenivano i migliori capocaccia e che è fondamentale per la promozione di eventi dove la palomba è la regina e i commensali sono i suoi adoratori.

Renata Covi

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