L’itinerario tra i sapori e gli aromi della Valnerina prosegue con altri prodotti di questa terra.
Dopo aver assaporato le lenticchie, il miele e la trota del Nera, il viaggio prosegue con altre prelibatezze nostrane.
Roveja
Questa è la storia di alcuni piccoli semi colorati, di due donne tenaci e di un barattolo di vetro. Umbria, Civita di Cascia 1998: Silvana e Geltrude, mentre riordinano la cantina della casa ricostruita dopo il terremoto del ’79, trovano un polveroso barattolo di vetro pieno di semi colorati. Sono rossi, verdi, marroni e neri, insieme a un foglietto sbiadito dal tempo con scritto a matita un nome misterioso: roveja. Trattasi di un legume che sboccia sulle alture dell’Appennino Centrale, tra i proverbi degli alberi e i misteri della montagna, per unirsi senza indugio al bouquet delle eccellenze gastronomiche umbre. Ed è proprio lo spirito selvaggio a rendere ancora più accattivante la roveja, piccolo ed eroico legume divenuto Presidio Slow Food e sopravvissuto grazie a Silvana e Geltrude allo scorrere del tempo. Così nel 2006 la roveja, antico pisello selvatico, considerato quasi erba infestante, torna a fiorire in Valnerina. O forse non aveva mai smesso.
Norcinerie
C’è un mestiere, nel cuore della Valnerina, che custodisce tra le epigrafi della sapienza umbra l’identità di un territorio dal sapore speziato, un atlante le cui pagine invecchiano sotto archi e volte di pietra scavate dal vento, tra gli echi cinerei della tradizione e della memoria: il Norcino, poeta di un’Umbria arcaica celebrata nei templi sacri dei sapori italici, tra orchestre di incensi dagli aromi primordiali. Un sentimento, quello tra uomo e suino, che da elemento antropologico diventa orizzonte culturale e identitario di una cosmologia di artigiani e scultori che conserva nella ritualità di antichi costumi il ricordo una civiltà rurale germogliata tra i sussurri del Tempo. L’uccisione del maiale, cerimoniale arcaico sbocciato le ceneri del Paganesimo, segna nel lunario contadino l’acme della ritualità agraria consegnando all’eternità della memoria popolare pagine acri di una drammaturgia proiettata sugli orizzonti di una civiltà rurale che evoca, nello svolgimento della macellazione, fantasmi e torri di fumo appartenuti alla mitologia greca e riconducibili al culto dell’ancella Maia, divinità consacrata all’agricoltura sui cui altari scorreva il sangue dei maiali immolati in suo onore. Perpetuata con sacralità e mistica devozione la lavorazione del maiale, trionfo di sapori e di antichi sentimenti, in Umbria diventa anfiteatro di un’impenetrabile tradizione magico-superstiziosa che individuava in alcune caratteristiche delle interiora della bestia visioni profetiche e rivelatrici.
Lo Zafferano
L’arcano mistero che avvolge l’etimologia della parola Crocus Sativus, denominazione scientifica con cui viene comunemente indicato lo Zafferano, si perde nella leggenda del fanciullo Crocco che, avvolto nell’aurea letteraria delle Metamorfosi di Ovidio, si innamorò mortalmente della ninfa Smilace, per poi essere tramutato in un biondo fiore di zafferano. Simbolo di augurio e prosperità coniugale ancora oggi, in Oriente,il Crocus Sativus viene regalato come auspicio di lunga vita in virtù delle proprietà terapeutiche e afrodisiache con cui esalta il corpo . Impiegato nel corso dei secoli per ottenere il colore giallo nella preparazione delle tonalità pastello destinate agli affreschi e per tingere vesti e tessuti, allo Zafferano vengono attribuite nobili proprietà cosmetiche e officinali. La coltivazione dello Zafferano, espressione identitaria della storia e dei costumi umbri, attinge alle esperienze di un passato importante inteso come patrimonio prezioso dal quale trarre ispirazione. Un lavoro in cui l’elemento umano è esclusivo: dalla preparazione del terreno,alla scelta dei bulbi passando per il momento della sfioratura fino al confezionamento del prodotto finale a fare da cornice a questo arcaico cerimoniale liturgico spetta a montagne dai sapori forti, anfiteatri di roccia e calcare che potenti si stagliano all’orizzonte.
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