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Rischiare di perdere la nostra identità: questo il pericolo che corriamo dopo la devastazione che ha subito il centro Italia con il terremoto del 2016. In Umbria come nelle altre regioni, negli anni che passeranno prima della fine dell’emergenza e del completamento della ricostruzione, bisognerà contrastare la “perdita” di legame e conoscenza del territorio, soprattutto in direzione del patrimonio culturale, storico-artistico.

Questa mostra, inaugurata il 5 marzo alla Rocca albornoziana di Spoleto e organizzata da Regione Umbria, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Arcidiocesi di Spoleto – Norcia e Comune di Spoleto, durerà fino al 30 luglio 2017 e avrà proprio quest’obiettivo.

Ospiti in Rocca

L’evento si inserisce nel programma Scoprendo l’Umbria, prodotto da Sistema Museo e fortemente voluto e promosso dalla Regione Umbria per sostenere e valorizzare le attività dei musei. La mostra Tesori dalla Valnerina si apre con Ospiti in Rocca. Tra le opere, tutte ricche di un altissimo significato simbolico, troviamo il Crocefisso ligneo del XVI secolo proveniente dalla chiesa di Sant’Anatolia di Narco, la Madonna con Bambino del XVI secolo di Avendita di Cascia e il gruppo dell’Annunciazione di Andrea della Robbia degli inizi del XVI secolo, composto di due sculture in terracotta invetriata – la Vergine e l’arcangelo Gabriele – poste originariamente nella Chiesa della SS. Annunziata e conservate presso il Museo della Castellina di Norcia, da cui proviene anche il curioso quattrocentesco Bossolo del magistrato in mostra. Dalle altre regioni: il raffinato dipinto su tavola di Nicola di Ulisse da Siena Madonna col Bambino dal Museo diocesano di Ascoli Piceno e il San Sebastiano della seconda metà del Seicento proveniente da Scai, nel territorio di Amatrice.
Dal 9 aprile, un’altra selezione di opere, messe in salvo dalle chiese e dai musei danneggiati della Valnerina, provenienti dal deposito del Santo Chiodo di Spoleto, recuperate e già restaurate nei mesi trascorsi dal 24 agosto 2016 andranno ad arricchire la mostra.

Altri progetti

«Già dopo le scosse del 24 agosto ma soprattutto dopo il 30 ottobre, ho maturato la convinzione che la Rocca e il Museo nazionale del Ducato,non avendo riportato danni, dovessero assumersi il ruolo di punto di riferimento per il territorio e per attività momentaneamente in difficoltà» afferma la direttrice Rosaria Mencarelli.

Non solo mostre, quindi, ma anche molte altre iniziative tra cui LIGHTQUAKE: Donare per Ricostruire, una campagna di crowdfunding attivata a febbraio nell’ambito del progetto artistico LIGHTQUAKE, promosso dal MiBACT ,  Museo Nazionale del Ducato di Spoleto in collaborazione con il  Comune di Spoleto,  Politecnico di Milano – Facoltà del Design, e Associazione Rocca Albornoziana, per  sostenere il restauro di alcune opere danneggiate dal terremoto e l’avvio di un progetto condiviso per progettare una rigenerazione a base culturale a livello regionale. LIGHTQUAKE rappresenta un segnale di reazione e rinascita, “una scossa di luce” per infondere energia positiva, per spezzare il buio della distruzione e riaccendere la vita e la creatività in una terra ricca di capolavori e di eccellenze artistiche. È possibile contribuire alla raccolta fondi, realizzata in collaborazione con Progetto IMMaginario, nella piattaforma specializzata Starteed .

Una restaurazione necessaria

 

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Speranza e impegno; conoscenza per il futuro. La mostra è la giusta reazione all’emergenza beni culturali, per non rischiare di perdere il nostro patrimonio. Si devono restaurare edifici, chiese e opere d’arte prima possibile, altrimenti, come ho già avuto modo di scrivere sul numero speciale di Predella dedicato al terremoto, citando Mario Calabresi su La Repubblica del 29 ottobre 2016: «saremo tutti più poveri e avremo perso un pezzo della nostra anima».

 

Per saperne di più su Spoleto

 

 

 

 

 

Foto di Giovanni Bicerna

Quando, ormai più di un anno fa, un gruppo di professionisti della comunicazione e dell’informazione si sono incontrati per dar vita a AboutUmbria, nulla faceva presagire che da lì a poco si sarebbe creata una vera rete di differenti professionalità con l’unico obiettivo di mettere a fattor comune la loro esperienza per costituire un Soggetto in grado di promuovere il brand “Umbria” in modo puntuale, capillare e innovativo.

Le motivazioni? Sicuramente un senso di rispetto e di riconoscenza verso la propria Terra, una sublime forma di dedizione verso il palcoscenico delle proprie radici, ma anche un pizzico di vanità nel voler dimostrare alla nostra cara e amata Umbria di essere in grado di fare qualcosa per lei, o almeno di far sì che tutti siamo in grado di conoscerla profondamente e di amarla per quello che realmente è.

La mission di AboutUmbria è quindi quella di potenziare la capacità comunicativa del territorio umbro attraverso la conoscenza delle aree e le dimore di valenza storico-artistico-architettonica, la divulgazione e promozione delle sue eccellenze, gli eventi, le mostre e le iniziative culturali in genere.

Ma anche un secondo e non meno importante obiettivo è quello di creare un nuovo format di comunicazione territoriale attraverso l’esplorazione dei diversi linguaggi multimediali e delle innumerevoli potenzialità delle tecnologie per esaltare una Terra ricca di simboli, di cultura, di storia, ma anche di creatività.

Cosa c’è oggi di più multimediale che catturare un’emozione attraverso un’immagine o viverla attraverso la rappresentazione di un evento?

Sì. L’idea è di costruire un vero e proprio ambiente di comunicazione multimediale all’interno del quale raccontare l’Umbria e le sue Eccellenze, vivendole; una sorta di comunicazione 2.0 dove il concetto di rete si trasforma in Comunità nella quale l’esperienza dell’uomo arricchisce ulteriormente il valore della sua terra, la reinterpreta e, interagendo tra passato e presente, pone le basi per un nuovo futuro.

 

La primavera sta arrivando: già si sente nell’aria un accenno di nuovi profumi e si vedono i primi fiori, tutto torna alla vita uscendo dal proprio letargo. Compresi noi, che abbiamo passato l’inverno a spostarci da una casa ad un’altra, a un locale o un cinema, finalmente usciamo. E perché non andare a vedere uno spettacolo che ricomincia all’aperto?
Nel cuore della Valnerina ci aspetta la Cascata delle Marmore.

 

Cascata delle Marmore | foto di Giovanni Bicerna

Un'antica opera di ingegneria

Forse non tutti sanno che essa è frutto di un disegno ingegneristico risalente al 290 a.C., quando il console Manio Curio Dentato ordinò lo scavo di un canale che facesse defluire le acque del fiume Velino nella valle reatina, convogliandole fino alla rupe di Marmore, da dove le fece precipitare ed unire al corso del fiume Nera, con un salto di 165 metri. Questo lavoro fu fatto proprio per bonificare il Velino, che all’epoca formava una palude stagnante e perciò possibilmente pericolosa per la popolazione per via della malaria.

La Cascata oggi

La Cascata viene oggi utilizzata per la produzione di energia elettrica da parte della centrale di Galleto ed è per questo che il rilascio dell’acqua viene controllato; ci sono precisi giorni e momenti dell’anno in cui si può ammirare nella sua piena bellezza, che vanno soprattutto da marzo a ottobre, insieme a giorni di festività negli altri mesi. Interessante scoprire che il luogo ospita uno dei Centri di Educazione Ambientale che sono dislocati da qui alla valle del Nera e di Piediluco, territori che rientrano nella Rete Ecologica Europea Natura 2000 del Progetto Bioitaly, il cui obiettivo è lavorare per diffonde un turismo ecosostenibile, attraverso la conoscenza, la tutela e la promozione del territorio per favorirne al meglio lo sviluppo.

Una curiosità: il nome Marmore deriva dai sali di carbonato di calcio che si vanno a sedimentare sulle rocce della montagna che protegge le acque e il cui riflesso alla luce del sole li fa assomigliare a cristalli di marmo. Ad aggiungere magia, oltre al paesaggio incantevole, c’è il folletto della Cascata, Gnefro, che racconta la leggenda di Marmore ai bambini che intraprenderanno con lui la Fantapasseggiata.

I Percorsi

Ma da passeggiare, nel parco, ce n’è anche per i grandi, che possono scegliere tra sei percorsi diversi per nome, per ambiente e per intensità. L’Antico Passaggio è il primo percorso che è stato fatto, che collega le due vie di accesso alla Cascata, il Belvedere Inferiore con il Belvedere superiore e non è molto facile da percorrere, ma è da qui che si accede al Balcone degli Innamorati, quindi mettersi buone scarpe da trekking e gambe in spalla!

 

Cascata delle Marmore | Foto di Enrico Mezzasoma

 

L’anello della Ninfa è il percorso più semplice, permette di avvicinarsi il più possibile alla cascata grazie alle scalette e ai ponticelli di legno da cui è composto e in più si può ammirare una delle 300 grotte naturali che sono dislocate nell’area.

L’Incontro delle Acque è il sentiero che viaggia a ridosso dei canyon che il Nera ha scavato nella roccia fino all’incontro con il Velino, ed è il percorso usato per la Fantapasseggiata. In più, è la zona migliore per vedere gli appassionati di canoa e rafting che sfidano le acque.

La Maestosità è l’unica via che permette di ammirare per intero i tre salti di cui la Cascata è composta, per questo è definito come percorso turistico per eccellenza. C’è una visione completa dello spettacolo.

La Rupe e l’Uomo è tra tutti il percorso più lungo, che parte dal belvedere superiore e si sviluppa lungo ciglio della rupe di Marmore, mostrando vari panorami tra cui la Conca ternana, fino alle gole di Ferentillo. Con le guide, da qui si possono visitare alcune delle grotte naturali più suggestive.

Infine I Lecci Sapienti, pensato per esperti perché va dal basso in alto e viceversa attraverso parti molto ripide e sconnesse ed è l’unico percorso in cui non si vede la cascata, ma le condotte delle vecchie centrali idroelettriche.

Un consiglio su quando andarci? D’estate, nei periodi più caldi. Rimarrete sbalorditi dal microclima che l’unione tra fitta natura ed acqua ha creato. Crederete veramente alla magia…e anche a Gnefro!

 

Per saperne di più su Terni

arte liberty in umbria

Titolo: Il Liberty in Umbria.

Architettura – Pittura- Scultura e Arti decorative. Architecture – Painting – Sculpture and Decorative Arts

Curatore: Maurizio Bigio

Editore: Fabrizio Fabbri

Anno di pubblicazione: 2016

ISBN: 97888677806886

Caratteristiche: 231 p., formato cm 28 x 24,5, numerose illustrazioni fotografiche a colore, brossura illustrata con bandelle.

Prezzo: € 35,00

 

«Questa pubblicazione nasce dall’interesse che ho sempre avuto per le arti in genere, per la pittura, la scultura, l’architettura e la fotografia. Sono stato sempre interessato al Bello.»

L'autore

È con queste parole che Maurizio Bigio, laurea in Economia e Commercio e trentasette anni di attività svolta come Dottore Commercialista, parla della sua ultima impresa “nel campo delle arti”. Avventure non nuove per lui che si è da sempre cimentato nel campo artistico come musicista, raggiungendo importanti traguardi che lo portarono, negli anni Settanta, a collaborare con i maggiori cantautori del periodo e a pubblicare l’LP Rock Bigio Blues. Recentemente ha ampliato i propri orizzonti artistici dedicandosi alla fotografia, collaborando alla realizzazione del nuovo catalogo del MUSA (Museo dell’Accademia di Belle Arti “P. Vannucci di Perugia) a cura di Fedora Boco e al volume Ferdinando Cesaroni curato da Luciano Giacchè.

L'argomento

L’argomento del Liberty nella nostra regione era stato affrontato precedentemente solo dal professor Mario Pitzurra quando nel 1995 pubblicò per Benucci Editore, Architettura e ornato urbano liberty a Perugia, testo ormai introvabile, che aveva il limite, dichiarato dall’autore, di occuparsi solo della realtà del capoluogo. Infatti è lo stesso Pitzurra che concludendo la presentazione della sua opera si augura che «…altri seguano il mio esempio, possibilmente estendendo la ricerca al resto dell’Umbria.»

Ed ora, a distanza di vent’anni, Maurizio Bigio raccoglie la sfida con lo scopo, riuscito, di svegliare l’interesse per una parte di quest’arte novecentesca poco studiata nella nostra regione.

La pubblicazione

Il Liberty in Umbria, vede la prefazione di Anton Carlo Ponti ed è corredata dai testi di Federica Boco, Emanuela Cecconelli, Giuliano Macchia, Maria Luisa Martella, Elena Pottini, Mino Valeri oltre che dello stesso Bigio.

La pubblicazione suddivisa in sedici capitoli, percorre la regione da nord a sud toccando i centri di Città di Castello, Perugia, Marsciano, Deruta, Foligno, Spoleto, Terni, Allerona, Avigliano, Acquasparta e Narni.

E l’interesse dell’autore non si ferma solo all’architettura, ma con occhio attento si sofferma anche sui particolari decorativi in legno, ferro battuto, ceramica, vetro e, dove possibile, anche sulle decorazioni pittoriche presenti all’interno delle abitazioni.

Un interessante capitolo, a cura di Elena Pottini, è dedicato alla scultura liberty al Cimitero monumentale di Perugia, mentre Fedora Boco delinea i protagonisti di questa stagione con una piccola biografia e relativa bibliografia. Non mancano testimonianze fotografiche del liberty perduto come il negozio della Perugina o le decorazioni all’interno del Bar Milano. A completare l’interessante volume la traduzione dei testi in inglese a cura di Eric Ingaldson.

Nei decenni tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento la vitivinicoltura italiana si avviava verso la modernizzazione.

Vini scadenti

All’epoca i giudizi sui vini italiani erano unanimi e impietosi. I metodi di fabbricazione risultavano antiquati e il risultato, tranne qualche rara eccezione, era la prevalenza di vini scadenti e di facile deperimento. Una delle principali ragioni che determinavano la mancanza di qualità nei vini erano le condizioni fisiche e ambientali delle cantine, descritte come luoghi umidi, malsani, pieni di muffe e completamente inadeguati al trattamento dell’uva.

Utilità ed eleganza

Questa negativa situazione cominciò a cambiare lentamente verso la fine del XIX secolo con la nascita dei primi stabilimenti industriali, che impostarono la produzione di vino in modo razionale anche con il sistematico ricorso alle macchine. Le moderne cantine, oltre all’eleganza, dovevano dimostrarsi utili e confacenti alla produzione di buoni vini. La soluzione ideale era quella che prevedeva l’esistenza di edifici a tre piani, di cui uno scavato sottoterra destinato all’invecchiamento e alla bottiglieria. Il collegamento tra i piani si otteneva attraverso delle aperture nelle volte attraverso le quali si facevano scendere i tubi che portavano il mosto dopo la pigiatura. In questo modo anche in Italia cominciarono a sorgere degli impianti confacenti a tutte le esigenze della scienza e della pratica enologica portando a termine una sapiente fusione di utilità ed eleganza.

Un esempio di scienza enologica

Come dimostra la cantina fatta costruire dal principe romano Ugo Boncompagni Ludovisi in località Scacciadiavoli (Montefalco) anche in Umbria allo scadere del XIX secolo cominciarono a costruirsi spaziose strutture rivolte alla moderna produzione di vino. L’azienda vitivinicola del principe aveva una capacità produttiva di 2.000-3.500 ettolitri e la direzione dell’impianto fu affidata a Carlo Toni. Lo stabilimento colpiva perché costituiva un chiaro esempio di moderna scienza enologica. Toni fu affiancato dal figlio Giuseppe formatosi presso le scuole enologiche di Alba e di Avellino, anche questo rappresentava un’assoluta novità. A fine secolo, padre e figlio gestivano un negozio a Foligno specializzato nella vendita di «vino Montefalco rosso fino da pasto» e grappa di pura vinaccia. Carlo Toni era competente: lo dimostra il fatto che nel 1894 egli fu chiamato a far parte della commissione per lo studio della fillossera nella provincia dell’Umbria.
I vigneti dell’azienda Boncompagni ricoprivano un’estensione di oltre un centinaio di ettari, con oltre un milione di ceppi; la resa media per ogni ettaro era pari a 80 ettolitri. Le macchine erano state ideate da Carlo Toni. Il vino della cantina Boncompagni veniva smerciato non soltanto nelle principali città italiane ma anche all’estero: Germania, Stati Uniti e persino in Giappone.

L'architettura

Discostandosi dalla tradizionale cantina scavata in grotta o ricavata nelle fondamenta di qualche edificio religioso, la cantina dell’azienda Boncompagni aveva (ed ha) una slanciata facciata principale divisa in due corpi. Anche il suo interno destava ammirazione: divisa in quattro piani, di cui uno interrato, a sorreggere i solai era un efficace sistema di colonne e travi in ghisa fatte arrivare da Prato, colonne dove ancora si possono vedere le iniziali del principe.
Nella parte posteriore del fabbricato, che era appoggiato a un colle leggermente inclinato, era situato l’accesso alle tinaie, poste a un livello superiore rispetto agli ambienti di conservazione. Alle tinaie erano portate le uve mediante un efficace meccanismo di carrelli che scorrevano su binari fino alle bascule che servivano alla pesatura; le uve erano poi inviate alle pigiatrici poste sopra le bocche dei tini. Dopo la fermentazione, che durava da sei a otto giorni, dai tini il mosto scendeva fino al terzo piano, riservato alle botti. Un elemento che impresse alla cantina di Scacciadiavoli un’immagine di grande ed efficiente modernità fu l’istallazione di vasche in cemento armato foderate internamente da piastrelle vetrate. Soluzione d’immagazzinamento, tuttora utilizzata, la quale oltre a permettere un considerevole risparmio di spazio, aveva il vantaggio di garantire la conservazione del vino in perfette condizioni ambientali, evitando inoltre la svendita del prodotto in caso di raccolti eccessivamente abbondanti.

Nella società contemporanea, alle prese con le rotture socio-culturali imposte dalla crisi del paradigma dell’industrializzazione, all’attuale viticoltura si chiede di concorrere alla realizzazione e conservazione del “bel paesaggio”, da associare non da ultimo all’armonica dislocazione dei filari lungo i pendii collinari. Si tratta, per rinviare alle scelte dell’Unesco, di riconoscere il ruolo che ha svolto la viticoltura nella definizione dell’identità dei territori, operazione di lunga durate che deve includere, per venir incontro a realtà come quella della cantina del principe Ugo Boncompagni a Montefalco, la capacità di saper tramandare un patrimonio fatto tanto da edifici quanto da luoghi di lavoro.

 

 

 


Letture per sapere di più:
Vaquero Piñeiro, Storia regionale della vite e del vino in Italia, Umbria, Volumnia, Perugia, 2012

«Chi lavora con le sue mani è un lavoratore, chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano, chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista» (S. Francesco)

Mi chiamo Anna e sono una designer. Una grande passione per la casa, l’arredo e tutto ciò che è fatto a mano mi ha portata a concretizzare quello che per molto tempo è stato solo un sogno: oggi ho la fortuna di fare il lavoro che mi piace.

Sono nata ad Assisi e da sempre abito nella stessa frazione ai piedi della città del Santo Poverello; l’amore per la mia terra mi ha portato a mettere radici qui, anche dal punto di vista lavorativo, tant’è che negli ultimi anni le strade che percorro mi portano spesso ad entrare nelle botteghe degli artigiani e ad instaurare collaborazioni volte alla reinterpretazione in chiave contemporanea di tutto ciò che è tradizione.

Un destino scritto il mio? …forse! Mio padre è un artigiano, un falegname e un restauratore. Da piccola ho trascorso molte estati nella sua bottega e ancora oggi trascorro del tempo in falegnameria, infatti mio padre è il principale artigiano con cui collaboro.

In questa rubrica vi parlerò di artigianato artistico, di materiali, di design, di creatività, di tutti quei luoghi in cui risiedono le eccellenze umbre, quelle che sanno fare bene e con il cuore!

La Falegnameria

Oggi il mio viaggio inizia da vicino, dal luogo che ha determinato il mio essere designer oggi: il laboratorio artigiano di Fulvio Bertinelli. La falegnameria è accogliente: sorge in una zona industriale, ma per fortuna si affaccia sulla campagna e dalle finestre più in alto si possono ammirare le colline con Assisi e tutti gli altri borghi incastonati nel verde. È un luogo alla vista contemporaneo, ma dal sapore antico… custodisce un antico sapere fatto di tecnica e esperienza tramandata! Entrando, ciò che mi colpisce subito è il profumo del legno, evocativo, che mi trasporta in un’altra dimensione, attivando uno stimolante gioco sensoriale. Accade sempre! Ma prima di perdermi in racconti su essenze e caratteristiche di questo materiale che adoro, vi parlerò un po’ dell’attività in falegnameria.

Gli strumenti

Tutto il lavoro svolto da mio padre è artigianale; ci sono in laboratorio dei moderni macchinari senza i quali ormai sarebbe impensabile lavorare, ma molti passaggi che portano alla creazione di un mobile vengono svolti ancora manualmente, con strumenti a mano, come si faceva centinaia di anni fa.

La pialla, la lima e la raspa, lo scalpello: sono piccoli strumenti senza i quali un mobile costruito artigianalmente non avrebbe lo stesso fascino. Si conserva così un sapere, una tecnica, e il bene realizzato porterà traccia della lavorazione manuale che avviene in maniera precisa, scrupolosa e attenta. Dalla cura di mani grandi e sapienti del mio falegname, tavole di legname si trasformano in capolavori dalla qualità eccezionale e dalle finiture ricercate. Olio, gommalacca, cera d’api: sono solo alcune finiture naturali possibili, ma dato che il legno è una materia naturale e viva, queste sono le finiture più consigliate al cliente che desidera un oggetto di classe e “green” al cento per cento.

Un balsamo per i sensi

Il mestiere dell’artigiano che lavora il legno è sicuramente un mestiere articolato; si compone di fasi di studio e ricerca, progettazione, studio della fattibilità, applicazione della tecnica, scelta di legname e finiture… ma credo che in questo mestiere si nasconda un grande privilegio, l’essere a contatto con una materia viva, calda, profumata, colorata, piacevole al tatto. E il gioco sensoriale si attiva di nuovo quando osservo e tocco le essenze presenti in laboratorio. Per lo più legni nostrani, cioè tipici del nostro territorio: il noce pregiato, resistente e liscio, di un bel marrone intenso; il rovere biondo e rugoso, trattato spesso con la tecnica della spazzolatura; il pioppo bianco, umile e morbido, l’albanello dei vecchi artigiani; il ciliegio rosato e fiammato, il castagno con le sue sfumature decise, l’olivo mistico, curvo e annodato…

È affascinante il legno, toccarlo e annusarlo è quasi una terapia. Ho fatto un esperimento, di recente: ho conservato in barattoli a chiusura ermetica trucioli di legno di varie essenze (così il profumo del legno appena tagliato non si disperde!) e li ho fatti annusare a molte persone. Il potere evocativo di tali profumi è sorprendente… nessuno se n’è andato senza un ricordo affiorato alla mente!

Ditemi: non siete ora curiosi di entrare in falegnameria a vedere, toccare, annusare?

Sabato 8 Aprile 2017, presso lo Spazio Arte Valcasana (Scheggino – PG), nell’ambito della manifestazione Diamante Nero, è stata inaugurata la mostra d’arte internazionale CromoNero, con la presentazione del Sindaco di Scheggino Paola Agabiti e del curatore Graziano Marini.

mostra scheggino

Gli artisti coinvolti

La mostra è stata organizzata con il contributo, oltre a quello di Graziano Marini, di Pino Bonanno e Franco Profili. Il periodo della mostra sarà dall’8 Aprile al 1 Maggio 2017. Trentacinque sono stati gli artisti coinvolti nell’evento: Afro, Valentina Angeli, Enrico Antonielli, Chiara Armellini, Gianni Asdrubali, Romeo Battisti, Pino Bonanno, Sestilio Burattini, Tommaso Cascella, Bruno Ceccobelli, Piero Dorazio, Marino Ficola, Giuseppe Friscia, Benvenuto Gattolin, Giuliano Giuliani, Eugène Ionesco, Davide Leoni, Annamaria Malaguti, Graziano Marini, Arianna Matta, Saverio Mercati, Kristina Milakovic, Gianluca Murasecchi, Franco Profili, Giosuè Quadrini, Virginia Ryan, Raffaele Ricci, Roberto Ruta, Antonio Sammartano, Pino Spagnulo, Giulio Turcato, Xavier Vantaggi, Emilio Vedova, Franco Venanti, Paul Wiedmer.

Il nero del Diamante

L’evento CromoNero è concomitante con la tradizionale festa del Diamante Nero, ovvero la festa del tartufo nero, prodotto tipico del territorio apprezzato in tutto il mondo. La decisione di realizzare tale progetto espositivo ha presupposto una particolare sensibilità a far sì che il Nero fosse sentito come riferimento importante per ogni azione creativa d’arte visiva, sia essa espressa attraverso la pittura, sia attraverso la scultura.
Si è consapevoli che, quando ci si esprime con il colore, si evocano sempre sensazioni, emozioni e ricordi; Jung sosteneva che esso porta in sé un significato più ampio, inconscio, che non è semplice da definire o spiegare completamente. Quando la mente ne esplora il significato suscita idee che vanno oltre la razionalità. Infatti scrisse: «Il nero è il colore delle origini, degli inizi, degli occultamenti nella loro fase germinale, precedente l’esplosione luminosa della nascita».

Il colore del mistero

Nell’arte, il bianco e il nero sono colori-non colori, per molti versi sopportati, altre volte ossessivamente analizzati. Hanno la capacità di contenere tra loro l’intero universo, come il senso dell’infinito. Sono gli eccessi di uno stesso mondo.
Sappiamo che, soprattutto il nero, corrisponde alla schematizzazione cromatica delle prime domande che l’uomo si è posto, in quanto assorbe, non respinge, attrae.
È il colore del mistero. Non si sa quali risposte contenga e nasconda, ed è questa la grande sfida che attira e coinvolge gli artisti, presi come sono a cercare l’altro da sé, l’oltre inesplorato, l’evocazione di ogni orizzonte che sfugge e allontana il tempo.

L’artista sa bene che il seme per germogliare deve essere sepolto nella terra, nell’oscurità, ma sa anche che il messaggio che ci trasmette contiene elementi di vitalità e inquietudini ancestrali. Il tartufo nero, nella sua conformazione strutturale, rappresenta bene questo senso di fragile inconsistenza dell’esistenza. La sua asperità e la sua “fragranza” interna si contrastano, ma si accolgono per rappresentarci completamente il senso ultimo della vita. Perché, come nella favola di Eros e Psiche di Apuleio, l’amore prospera al buio e il nero costituisce l’elemento più adatto a rappresentarlo se si sanno cogliere le varie sfumature che esso comporta, conferendo un senso del sacrificio, tenacia, pessimismo, abnegazione e risolutezza nel perseguire le proprie emozioni.

«Il nero mi ossessiona»

Mirò diceva: «Il nero mi ossessiona, non esiste altro colore con così tante qualità e sfumature, è il paradiso della pittura, è l’inizio e la fine», mentre Van Gogh sosteneva che il nero va considerato come la più luminosa combinazione dei più scuri rossi, azzurri e gialli. Ovvero racchiude una concentrazione infinita di colori caldi e per questo va “vissuto” come se fosse un alito che ci alimenta con tutta la sua carica di misteriose attribuzioni.
L’artista, rabdomante risoluto, è sempre alle prese con la sostanza che questo colore comporta, vi cerca lo spirito interno, lo percuote, lo interroga incessantemente fino a sentire le sue voci più soffocate e, con l’abilità adeguata del minatore, ne coglie tutta la raffinata valenza cromatica. Dopo averlo bene esplorato, lo affida alla visione dei più curiosi e attenti visitatori dell’animo umano, i quali sapranno leggervi messaggi chiaramente espressi, ma anche tutte le fratture, le derive, gli enigmi che racchiude.

Un colore ancestrale

Ogni artista partecipante a CromoNero ha sempre avuto, ed ha, una particolare sensibilità e attenzione verso il Nero, cogliendo in esso la sostanza più profonda delle proprie ricerche cromatiche e delle proprie derive espressive, senza farsi mai coinvolgere negativamente dal mistero che emana e che rappresenta e ben sapendo che anche il nero viene colto attraverso la sua risonanza interna, la funzione psichica di base, la posizione occupata nella genesi dello spettro dei colori e il suo significato interiore. Ma viene colto anche in assonanza con stati d’animo, oggetti, suoni, memorie. Così, per esempio, del giallo diciamo che è il tipico colore terreno ed è rappresentazione cromatica della follia, mentre il blu si vuole che appaia come il colore del cielo, che rimanda alla profondità, che indica all’uomo l’infinito e che assomiglia al suono del violoncello.

Contrasti fondamentali

Il nero costituisce uno dei contrasti fondamentali dei colori in quanto si contrappone sempre al bianco. Il contrasto in questione rappresenta così il limite del movimento cromatico: il bianco è simbolo di un mondo in cui tutti i colori sono scomparsi, dove regna un gran silenzio, e tuttavia vi è la possibilità della rinascita; il nero invece si cerca di assimilarlo al nulla privo di possibilità, silenzio eterno. L’artista però si ribella a tale considerazione accademica e cerca di dimostrare sempre che il nero è il vero portatore delle motivazioni profonde della creazione, lo “spirito” acceso di ogni autentica ricerca estetica entro la quale nasce e si sviluppa l’azione emotiva, gestuale, concettuale dell’agire espressivo.

 

Per saperne di più su Scheggino

Nell’albo delle eccellenti personalità umbre è senza dubbio da annoverare Fabio Melelli, la cui elegante e cordiale personalità ci ha accolto nelle ariose stanze del Palazzo della Penna

L’intervista che vedrete parla di una ricerca, di una passione e di una set unico: l’Umbria.