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È piccolo e tondo ma non è Pachino, non è Ciliegino, non è Datterino: è Cesarino.

Il pomodoro del signor Cesare è un pomodoro rigorosamente umbro che si è sviluppato sul monte Peglia e poi è sceso a valle. I pomodori che si trovano nei supermercati sono tutti F1, ma non corrono in Ferrari. Sono ibridi standardizzati, cioè il DNA della pianta è stato manipolato e modificato e hanno delle caratteristiche che non sono gradite ai contadini: hanno semi che non si ripiantano e che vanno acquistati ogni anno e per di più richiedono molta d’acqua per crescere. Invece, il pomodoro di Cesare non è un ibrido ma è uno dei pochi semi al mondo a essere geneticamente originale, è molto versatile e resistente, ma soprattutto è molto umbro. Il pomodoro di Cesare racconta una storia famigliare antica più di cent’anni che nessun pomodoro F1 può vantare.

La storia

Verso il 1890 il papà di Cesare era un contadino sul monte Peglia. Vita dura, fatica tanta, soldi pochi. Si risparmiava su tutto e non si buttava via niente. Quando il nonno è morto, Ada e Cesare ricevettero in eredità i preziosi semi del nonno e ogni anno continuarono a piantarli nell’orto. Vuoi per il lavoro, vuoi per i figli e altre cose, Ada e Cesare lasciarono la montagna e si stabilirono nella campagna di Monte Castello di Vibio. I luoghi cambiavano ma non le abitudini, e i pomodori di montagna si sono adattati alla pianura.
Ogni primavera Cesare andava a prendere una scatola da scarpe dove erano gelosamente conservati i semi dei suoi pomodori, che provenivano dalla raccolta l’anno precedente, e li spargeva sul terreno. Cesare faceva quello che per millenni hanno fatto tutti i contadini, cioè seminava i suoi semi: non era necessario comperarne nuovi ogni anno. Ci pensava la natura a non svenare la famiglia rurale.
Se i lavori nel campo erano di competenza degli uomini, la raccolta e la lavorazione dei frutti era di esclusiva competenza delle donne. Ai pomodorini umbri questa divisione del lavoro è piaciuta e si sono trovati bene con le mani femminili. Erano tanti piccoli, rossi, tondi, leggermente agro-dolci e tutti disuguali. Ada li faceva seccare sul mattonato e i più belli li accantonava per prenderne i semi per l’anno dopo. I pomodorini erano utilizzati integri, si mangiavano in insalata o sul pane o in conserva per la pasta. Una parte si appendeva al soffitto perché resisteva fino oltre Natale.

 

Il pomodoro Cesarino

 

Servivano solo per l’uso famigliare. Ogni mattina gli uomini si alzavano alle prime luci dell’alba per andare a lavorare nei campi, verso le nove tornavano a casa per fare colazione o come dicevano con una bella parola umbra, a fare lo sdigiunello. Era una colazione a base di pane, spesso secco, sfregato con i pomodori freschi, olio, sale e un bicchier di vino. La presenza del pomodoro era d’obbligo nella maggior parte dei piatti che si cucinavano in casa. Poi l’estate finiva e i pomodori belli che Ada aveva messo da parte ritornavano fuori e diventavano protagonisti. Venivano schiacciati a mano per estrarre i semi che poi si stendevano su una carta ad asciugare al sole. Quando avevano perso l’umido i semi procedevano verso la scatola da scarpe.
Il cartone li lasciava respirare senza farli ammuffire. Le stagioni si sono succedute tutte uguali: pomodori e semi, ancora pomodori e ancora semi. Improvvisamente i semi sono finiti. Disperazione. Ma la famiglia non demorde e alla fine, in fondo a un magazzino, dentro un armadio, dentro una vecchia scatola da scarpe con scritto Seme Novo si trova una manciata di semi.
Eccolo finalmente, ancora buono e abbastanza vecchio per essere definito seme autoctono, titolo che compete ai semi che non sono mutati da più di 50 anni. Ricomincia il ciclo, ma l’imprevisto è in agguato. I semi vengono lavorati con tecniche moderne, ogni fase è fatta dalle macchine. Ma il Cesarino è una pianta strana, non sopporta le macchine, lui vuole solo il tocco delicato delle donne: se le macchine lo toccano non frutta più. Che fare? Questa volta è proprio finito tutto.

 

Il pomodoro Cesarino

 

Colpo di scena, in fondo alla scatola da scarpe ci sono ancora 5 semi, esattamente 5. La famiglia entusiasta tratta i 5 come una reliquia. Si pianteranno alla luna piena di marzo. Arriva la primavera, si semina con ogni precauzione. Scelgono un terreno aperto lontano da ogni altra coltivazione di pomodori e si depositano nel terreno i 5 preziosi semi. Questa volta si ripete il miracolo, cesarino ha dato i suoi frutti. Qui è iniziata la nuova vita trionfale del pomodorino con la partecipazione di tutta la comunità rurale di San Venanzo che ha contribuito con tenacia a mantenere il seme incontaminato. Dopo un’accurata analisi del suo DNA è risultato totalmente incontaminato e di diritto è stato iscritto nel Registro Regionale delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario.

È stato riconosciuto come pomodoro nobile e raro proprio per le sue caratteristiche che lo rendo capace di resistere a siccità prolungate, con una buccia un po’ grossa che lo tutela dai vari parassiti, e con semi che fruttano ogni anno. Una piccola eccellenza umbra riservata a pochi fortunati. A me piace chiamarlo Cesarino ma sulle etichette appare come Pomodoro di Cesare, il pomodoro che nonno Cesare ha curato e conservato tutta la vita. Un’altra eccellenza umbra di nicchia, squisita e degna di diventare un presidio Slow Food.

Ingredienti:

  • 400 g di farina di roveja
  • 2 l di acqua salata
  • 5 filetti d’acciuga sott’olio, più altri per decorare
  • 2 spicchi d’aglio
  • olio EVO q.b.

 

Preparazione:

Mettete sul fuoco la pentola con l’acqua salata. Appena l’acqua arriva a ebollizione, versatevi la farina di roveja a pioggia e mescolate energicamente con una frusta per evitare che si formino grumi. Mantenendo un fuoco lento, continuate a girare la polenta con un mestolo di legno per circa 40 minuti. Mentre la Farecchiata cuoce, in una padella antiaderente scaldate l’olio extravergine con gli specchi di aglio interi; quando saranno dorati rimuoveteli e inserite i filetti di acciughe, lasciandoli sciogliere lentamente a fuoco lento. Raggiunta la cottura della polenta rimuovetela dal fuoco, versatela nei piatti e condite con l’olio insaporito che avete preparato; fatela riposare un minuto, poi servitela con un filetto di acciuga arrotolato al centro del piatto. La vostra Farecchiata di Roveja è finalmente pronta per essere gustata.
Una variante stuzzicante: per rendere più croccante la vostra Farecchiata, tagliatela a fette, friggetela e servitela con un filetto di acciuga.

 


La Farecchiata, (o polenta con farina di Roveja), è una polenta tipica dal gusto delicato e lievemente amarognolo che viene preparata in diverse zone delle Marche, ma soprattutto nella zona di Castelluccio di Norcia, in Umbria. Si tratta di un piatto antichissimo della tradizione pastorale castellucciana: un’importante fonte di sostentamento
 per le famiglie di pastori e contadini dei Monti Sibillini. Un piatto molto povero ma che si mantiene nel tempo, ragion per cui in passato fungeva da colazione proprio per i pastori della zona. L’ingrediente principale è la Roveja, un piccolo e saporito legume di colore marroncino, simile ai ceci ma dal sapore più forte. Conosciuta anche come pisello dei campi, robiglio o corbello, la roveja è un legume antico, che rischia di scomparire a causa delle difficoltà legate alle condizioni impervie del territorio e alla morfologia della pianta. Ad oggi, infatti, sopravvive soltanto in una zona circoscritta della Valnerina grazie all’impegno di alcuni agricoltori che operano nella località di Preci (Cascia), dove si trova anche un’antica fonte chiamata dei rovegliari. Estremamente nutriente, con un elevato apporto di proteine, fosforo, carboidrati e un ridotto contenuto di grassi, la roveja è oggi Presidio Slow Food.