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Quando guido verso Tuoro arrivando dall’alta valle del Tevere, corro sempre in bilico tra il confine dell’Umbria e la Toscana. Attraverso la valle e la strada del Niccone, dove a volte incontro auto lussuose che scendono dal castello di Reschio, dirette chissà dove in questa bella e misteriosa terra umbra. Allo stesso modo posso incontrare trattori con rimorchi carichi di tabacco appena raccolto: emergono da quei campi sterminati che in estate sono verdi e in autunno tutti gialli. La mia road map passa per Lisciano Niccone, si arrampica poi per un po’ di curve fino alla Cima, ai Gosparini e lì, wow!, si apre la vista sul lago.

Tuoro sul Trasimeno, che mi aspetta qualche curva più giù, è un piccolo borgo che si affaccia sulle sponde settentrionali del Lago; è a cavallo tra Umbria e Toscana alle pendici del Monte Castelluccio. Il borgo attuale, formatosi in età medievale – non prima del XIV secolo – subì le vicende e le lotte legate alla conquista della posizione strategica al confine tra Perugia e la Toscana. Tuoro è uno dei borghi più belli del Trasimeno, forse però uno dei meno conosciuti; ha una vista dritta dritta sull’Isola Maggiore, che fa parte del suo stesso comune. Passeggiando per le sue vie, si percepisce un’atmosfera calma da Umbria slow life: c’è il caffè nella piazza, la farmacia, la pescheria, i tabacchi, il panettiere e vari posti dove mangiare bene e in santa pace.

Un tour virtuale

Il nostro Palazzotto del Novecento si scorge già da Piazza Municipio: è un palazzo elegante, contraddistinto da due palme sofferenti che incorniciano l’ingresso principale. Mi avvicino al suo cancello, mi guardo intorno e vedo che la sua posizione è veramente di pregio, è in un’intersezione di strade e svetta su Tuoro quasi a volermi dire io sono importante e sono imponente.
Abituatevi, se continuerete a leggermi, a sentir parlare le case; per me non sono solo pietre, mattoni, calce o cemento, sono la storia di chi l’ha progettata e abitata, di chi l’ha vissuta, aprendo quel portone felice o triste. Quanti pensieri avranno fatto i suoi abitanti affacciandosi alle finestre e ammirando il lago, ognuno ad ogni piano, con una diversa riflessione.
È singolare trovare così centrale un edificio così ben collocato e soprattutto con un giardino tanto vasto; mi diletto a contare gli ulivi, che sono quaranta. Il giardino ha una bella estensione anche se rimane un po’ basso per la vista sul lago, ma una parte è presente anche vicino a un ingresso secondario ribassato rispetto alla strada. Questa parte è suggestiva, immagino signore con abiti d’epoca sedute ai tavolini sorseggiando un tè. La proprietà è tutta recintata e gli ingressi quindi sono 3, quello principale, poco più sotto un altro che conduce a dei gradoni che accompagnano al giardino e un altro ne scorgo camminando lungo il suo perimetro; questo è un grande cancello che potrebbe oggi essere usato come ingresso per le auto. Mi sembra di vederlo con una parte dedicata allo spazio piscina e un’altra per la sosta delle auto.

 

 

Entro dall’ingresso secondario in basso: è la parte dedicata alle cantine, ci sono soffitti a volta e le pareti con pietra a vista, caratteristiche che oggi sono ricercate per locali di degustazione e intrattenimento.
La casa è caratterizzata da una scala centrale e ampia in pietra serena e ferro battuto, ma l’elemento più particolare è il corridoio, che ne costituisce la spina dorsale attorno alla quale si svolgono tutte le stanze e, penso, anche tutte le storie di chi nel corso degli anni l’ha abitata. Sono due i piani strutturati così, mentre l’ultimo ha un’influenza più moderna perché ha avuto un abbozzo di ristrutturazione; insomma stando dentro e percorrendola, ho la sensazione di un edificio che è stato modificato, cambiato e forse poco rispettato nella sua identità. Il fattore magico però sono le vedute da ogni singola finestra che affaccia verso il lago, sembra quasi di poter toccare l’Isola Maggiore e questo mai nessuno ha potuto cambiarlo e mai potrà farlo. Il Palazzotto merita di rivivere, per la sua struttura, per la sua location, per il valore aggiunto che potrebbe rappresentare nell’economia torreggiana. Quasi lo vedo, finalmente ristrutturato in modo armonico e congruo alla sua essenza.

Durante il periodo del grande isolamento mi sono ritrovato spesso a guardare le vecchie foto che ho scattato in momenti spensierati o meno e mi sono ritrovato a pensare a quanto sarei voluto tornare a girovagare, nelle mie solitarie domeniche pomeriggio.

E mi sono ritrovato spesso a guardare le fotografie e a esclamare qualcosa. Come nel caso di quella scattata una domenica sera d’inverno, al tramonto, sulla cima del Subasio, dove una vecchia auto anni Ottanta mi sorpassa e con i fari illumina la strada.
Ho sempre detto che quella foto è stata una gran botta di fortuna perché, mentre me ne stavo tornando all’auto, con il freddo che mi bloccava le mani e che mi faceva battere i denti, sono stato sorpassato da quest’auto che nemmeno avevo sentito arrivare e sono riuscito a scattare al momento giusto, tirando su la Reflex che tenevo in mano e mettendo a fuoco al volo. Credo di aver avuto anche le impostazioni regolate a dovere (o forse no?) e sono riuscito a catturare qualcosa che a me personalmente ha sempre colpito molto e mi ha fatto dire più di una volta «Mi sembra l’Arizona».

 

auto in stradra

 

Ecco, io in Arizona non ci sono mai stato, in verità. Non credo nemmeno di avercela bene in mente, l’Arizona. E allora perché ho detto proprio «Mi sembra l’Arizona»? Forse perché in quel momento avevo bisogno proprio di vedere quello, era un’evasione dal mio mondo fatta trasformando un paesaggio che di suo non ha nessun rimando all’Arizona in qualcosa che forse la ricorda.
Così sono andato a vedere anche le altre foto che negli anni ho scattato al Monte Subasio (uno dei miei posti preferiti, isolato, panoramico, e poi ci sono i cavalli!) e ogni volta mi sono trovato di fronte a paesaggi completamente diversi nonostante si trattasse sempre dello stesso posto.

 

 

Un paesaggio multiforme

Mi è tornata in mente una riflessione che feci dopo aver letto il Robinson Crusoe di Defoe. Qual è l’isola di Robinson Crusoe? È un luogo reale? Magari è l’isola di Màs a Tierra su cui visse il naufrago Alexander Selkirk a cui Defoe si ispirò per il suo personaggio? Magari, ma nonostante ci siano lunghissime pagine in cui lo scrittore la descrive minuziosamente, per quanto possano essere precise e dettagliate, esse non potranno mai combaciare con la reale immagine dell’isola.
Se ricordiamo bene, essa inizialmente si presenta tetra, inospitale, terrificante, un luogo dove Robinson Crusoe ha timore di vivere. Ma, lentamente, il naufrago ne diventa il re, il paesaggio si apre e diventa ricco, prospero, si illumina, fino a tornare di nuovo spettrale e minaccioso quando Crusoe scopre di vivere insieme a una tribù cannibale.
È un luogo che cambia con il personaggio, che muta e fa mutare anche la nostra percezione del luogo stesso. E così è stato per il Subasio e l’Arizona e le foto.
La forma del monte cambia in base alla mia percezione in quel determinato momento e cambia quando anche altri scattano e scattano, secondo la loro sensibilità e secondo la loro percezione di quel momento.
Trovo incredibile questa cosa: come ognuno di noi riesca a inserire all’interno di un paesaggio già esistente e ben delineato la propria persona. Così non abbiamo più un unico paesaggio, ma centinaia di migliaia di paesaggi. Un paesaggio multiforme.

 

 

Ogni curva del monte, ogni mattone di ogni paese di ogni città può assumere una diversa forma nonostante il monte sia lì da intere ere geologiche e che, per esempio, la Basilica di San Francesco abbia la stessa architettura da quando fu edificata intorno al 1228.
Per questo non si può mai esaurire la voglia di scoprire il paesaggio che ci circonda. In fondo, il fotografo Luigi Ghirri ha scattato per la maggior parte della sua vita nel raggio di cinquanta chilometri da casa sua e ogni volta rimaneva a bocca aperta per un dettaglio nuovo che riusciva a scoprire. È così che, alla fine, riguardando le vecchie foto durante l’isolamento mi viene voglia di ritornare a esclamare «Mi sembra l’Arizona»!

 

cavallo

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Se esiste un modo di viaggiare etico e in piena armonia con i luoghi è sicuramente in mongolfiera. Peter Kollar è un pilota ungherese che ha vissuto per lungo tempo in Nuova Zelanda e da quattro anni si è trasferito con la sua attività tra le dolci colline tra Bevagna ed Assisi. Si prende cura dei suoi passeggeri facendo viveve loro un’esperienza unica e totalizzante. Tutto inizia una mattina alle sei, con il bel tempo e i venti moderati. Dalla Cantina Dionigi parte un minibus che conduce alla pista poco distante. L’equipaggio si prepara per l’operazione di gonfiaggio con i ventilatori industriali che producono il vento: si assiste così alla rinascita dell’enorme sfera arancione, che sembra svegliarsi insieme al sole.

Il lento fluire del tempo

Alta, gonfia e carica di persone è pronta per il decollo. Si accendono i bruciatori e lentamente s’innalza. In quel momento ci si accorge della magia che pervade ogni cosa: tutto intorno è silenzio, è lentezza. La natura penetra e ingloba l’enorme mongolfiera, le indica la rotta dirigendosi a volte verso Assisi, a volte si scorge il lago Trasimeno, con un cambio repentino di paesaggi e di colori. Sospesi, si sorvolano le ampie distese di grano e poi i gialli girasoli, gli oliveti e i filari d’uva. Un viaggio panoramico che, come in un flashback, riporta alle origini. In quell’ora padroneggia il silenzio, mentre gli sguardi voraci raccolgono tutto ciò che avviene giù sotto cercando di interpretare ogni dettaglio. È tutto talmente lento che si dimentica il tempo che passa e, mentre si scende sul primo campo non coltivato individuato dal pilota, ti ritrovi protagonista di quel paesaggio.

Una tavola imbandita

Arrivati a terra c’è la navetta ad aspettare e si raggiunge la cantina da dove si è partiti. L’esperienza continua, non si ferma qui.
Ad attendere, in cantina, una tavola colma di profumi e sapori prelibati provenienti dai prodotti tipici di queste zone e accompagnati da dell’ottimo vino prodotto proprio qui. Ancora negli occhi i paesaggi sorvolati che si riscopre, in quei sapori, tutta la terra appena attraversata. In alcuni casi, soprattutto negli eventi più esclusivi, la colazione viene allestita all’aperto, nella vicina chiesetta della Madonna Pia con tovaglie tessute dagli artigiani di Montefalco e le ceramiche di Deruta decorate a mano. La stagione da maggio a settembre ha una gamma di colori così ricca che ogni viaggio è diverso, la natura regala emozioni ed il viaggiatore si sente parte integrante del paesaggio, fuori dal contemporaneo: quasi come far parte di un antico dipinto.

 

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