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Nell’ambito di un festival d’eccezione, come quello de Il Viaggialibro di Gubbio dedicato al libro di viaggio, ha preso vita una mostra fotografica che ha fatto del reportage il mezzo privilegiato per l’esplorazione di diverse modalità espressive.
Curata da Officine Creative Italiane, la mostra – dal suggestivo titolo di Corrispondenze raccoglie diversi contributi e progetti fotografici, storie di popoli dentro e fuori l’Italia. Come a dire che si può fare un viaggio anche restando nella propria città, basta solo guardare con occhi diversi.

I progetti

È il caso del progetto Fasika, di Claudia Ioan e di Massimiliano Tuveri, un frammento di Etiopia impiantato nel cuore della Capitale. A fare da cornice, le celebrazioni della Pasqua copta – la Fasika, nelle tre lingue etiopi – animate da preghiere, letture della Bibbia, canti, tamburi e danze a lume di candela da parte di tutti quei fedeli che ritrovano a Roma, il cuore pulsante del Cristianesimo, un luogo in cui celebrare il proprio culto ortodosso, manifestando un’autentica volontà di integrazione e donando alla Città Eterna la magia delle notti africane.

claudia ioan e massimiliano tuveri

da Fasika, di Claudia Ioan e Massimiliano Tuveri

Corripondenze testimonia anche la volontà di documentare aspetti della piatta quotidianità che spesso passano inosservati, ma che in realtà accomunano tutti gli uomini: tale è la volontà di Leonardo Brogioni e del suo progetto MetroMoebius, testimone del senso di straniamento che assale i viaggiatori della metropolitana. A predisporre verso l’introspezione, l’assenza  di luce naturale, la mancanza di un paesaggio oltre il finestrino, la serialità delle fermate e la condivisione spazio-temporale tra sconosciuti.

by leonardo brogioni

da MetroMoebius, di Leonardo Brogioni

Con Habana Vieja di Giulio Brega sbarchiamo invece oltreoceano, nel cuore storica de L’Avana, zona dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’Umanità, ma che sta ora cadendo a pezzi. La povertà fa continuamente capolino dalle porte cadenti e dalle finestre senza vetri e diventa simbolo di un paese in ginocchio. In una dimensione sospesa fra passato e presente, si fa il proprio ingresso in spazi immobili, affascinanti sebbene vestiti di un velo di malinconia.

by giulio brega

da Havana Vieja, di Giulio Brega

Giuseppe di Piazza, con il suo stile impressionistico e grafico, ci conduce dal canto suo a Singapore, la città del leone, repubblica fondata nel non lontano 1965 da Lee Kuan Yew, politico visionario che riuscì a trasformarla da piccolo villaggio malese a quarto centro finanziario del mondo. Oggi Singapore è una città ultramoderna immersa in un subcontinente in forte evoluzione, ma con forti contraddizioni, prima fra tutte la scarsa libertà dei propri cittadini, soprattutto se comparata a quella concessa alle imprese.

by giuseppe di piazza

da Singapore – L’utopia del leone d’oro, di Giuseppe di Piazza

In ultimo, Ghosts from the Past di Karl Mancini, da quattro anni impegnato a risolvere il problema delle mine antiuomo sparse in suolo cambogiano . Dopo la fine della Rivoluzione guidata da Pol Pot, l’uso smodato delle mine non diminuì affatto, anzi, molte altre ne vennero disseminate dai vietnamiti e dal governo cambogiano. Nonostante dal 1997 la Convenzione di Ottawa abbia vietato la produzione, l’immagazzinamento, l’uso e la vendita delle mine antiuomo, ancora oggi, ogni mese, circa venti persone sono vittime di questa piaga, soprattutto a seguito del periodo delle piogge, quando il terreno ammorbidito dall’acqua libera il suo carico di ordigni inesplosi.

by karl mancini

da Ghosts from the Past, di Karl Mancini

Iniziative collaterali

Ad accompagnare la mostra, visitabile fino al 16 luglio, due iniziative dal sapore social: un contest Instagram, dal titolo di Una storia in uno scatto, e un Instameet, per diventare corrispondenti per un giorno. L’intento è chiaro: ogni storia è degna di essere raccontata.

Orari: 10:00-13:30|14:30-18:00


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Assolutamente da vedere. Non solo perché è «la più grande e completa mostra di Hermann Nitsch finora allestita in Italia» come scrive Italo Tomassoni, ma perché Hermann Nitsch O.M.T Orgien Mysterien Theater (Teatro delle Orge e dei Misteri)– Colore dal Rito, allestita al CIAC – Centro Italiano Arte Contemporanea di Foligno a cura di Italo Tomassoni e Giuseppe Morra e ancora visitabile fino al 13 agosto, emoziona davvero.

La mostra raccoglie circa 40 opere, divise in nove diversicicli di lavori, realizzati tra il 1984 e il 2010,  provenienti dal Museo Hermann Nitsch di Napoli, fondato nel 2008 da Giuseppe Morra, dal 1974 storico gallerista e editore dei suoi scritti.

Disgusto

Ci vuole disgustare, offendere, perché l’azionismo viennese, di cui Nitsch è ancora uno dei più importanti esponenti, fin dalla sua formazione negli anni Sessanta ha sempre colpito per le sue performance, caratterizzate da immagini e tematiche ispirate da un diffuso atteggiamento dissacrante, quasi profanatorio, nei confronti dei simboli religiosi, delle funzioni del corpo e delle pratiche sessuali. Possiamo gridare allo scandalo, ma ciò non farà altro che accreditare l’intenzione degli stessi artisti azionisti che si proponevano, come scrive l’artista, di «provocare nello spettatore un’istintiva sensuale eccitazione». Per le sue azioni Nitsch verrà arrestato più volte.

Una delle opere dissacranti dell’artista, in mostra al CIAC di Foligno

Il mago delle favole nordiche

La mostra in realtà è lirica e coinvolgete, allestita come fosse un’unica grande opera aperta; ci fa vedere Nitsch come «un mago delle favole nordiche», scrive ancora Tomassoni, «un orfismo estetico ispirato al mistero della creazione e alle illimitate opportunità visionarie dell’arte».
Gli artisti del Wiener Aktionismus, eredi di quella secessione viennese e di Egon Schiele, vedevano nell’intensità espressiva, nell’introspezione psicologica dell’azione performativa, l’unico modo per comunicare il loro disagio interiore e tutta l’angoscia e la complessità dell’esistenza umana. Ma credo determinante, come negli anni la critica ha sottolineato, è il profondo senso di colpa derivato dall’essere stati coinvolti nella Seconda Guerra Mondiale, che provoca un senso di rifiuto e la necessità di liberarsi con ogni mezzo dal peso di se stessi.
Tra le numerose celebri installazioni presenti in mostra, citiamo 18b.malaktion, 1986, Napoli, Casa Morra. Si tratta di grandi tele dove domina il colore rosso versato o schizzato, composte come una croce, una pittura d’azione che è gesto e drammaticità pura.

18b.malaktion, 1986, Napoli, Casa Morra.

Con gli scarti, i relitti delle sue performance, costruisce installazioni come 130.aktion installazione di relitti, 2010 Museo Nitsch Napoli, grandi teli bianchi e camici macchiati di sangue, barelle servite per trasportare corpi che divengono tavoli o altari, attrezzi chirurgici come bisturi o divaricatori, provette e alambicchi che rimandano al corpo e ai suoi umori, zollette di zucchero e fazzolettini di carta messi in file perfettamente regolari, che suggeriscono sensazioni di freschezza e purezza. Frutta in decomposizione, testimonianza di un evento sacrificale assente, segni rituali e formali di fatti fisici e carnali.

Un’altra delle opere in mostra al CIAC di Foligno

Il castello di Prinzendorf

Al piano inferiore, come in una sorta di cripta, è proiettato il lungo video della azione di Prinzendorf del 1984, ripresentata in teatro negli anni Duemila.
Il castello di Prinzendorf, paese vicino Vienna, acquistato dall’artista nel 1971, diviene sede del suo das Orgien Mysterien Theater, le cui azioni si susseguono a partire dalla domenica di Pentecoste del 1973. Nel luglio del 1984 la sua 80.ma azione dura tre giorni e tre notti intere. La tragicità della sofferenza passiva sulla croce, il simbolico cospargere e imbrattare il Cristo crocifisso, viene effettuato in modo «spiritualizzato», «astratto, ma nonostante ciò in modo non meno reale» come la descrive Nitsch. Ed ancora: «Il mio teatro delle orge e dei misteri concentra l’esperienza intensa, il rituale nel senso della forma, creando un festival dell’esistenza, un’esperienza concentrata, consapevole e sensuale, del nostro esser(ci)».
Oggi continua a portare avanti, intensificandola e caricandola di sempre più forti implicazioni, la sua idea dell’Orgien Mysterien Theater, in vista di un suo    che coinvolga tutti i sensi e ogni azione umana. Nei suoi Statuti evidenzia il senso profondo della sua arte: «L’impegno dell’arte è essere sacerdozio di una nuova concezione esistenziale[…]: liberare l’umanità dai suoi istinti bestiali».

Apertura e orari mostra: Venerdì 16.00-19.00, Sabato e Domenica 10.30-12.30 – 16.00-19.00
Biglietto: € 5,00; ridotto € 3,00. Ingresso gratuito per: ragazzi fino a 14 anni,  scolaresche e portatori di handicap

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Rischiare di perdere la nostra identità: questo il pericolo che corriamo dopo la devastazione che ha subito il centro Italia con il terremoto del 2016. In Umbria come nelle altre regioni, negli anni che passeranno prima della fine dell’emergenza e del completamento della ricostruzione, bisognerà contrastare la “perdita” di legame e conoscenza del territorio, soprattutto in direzione del patrimonio culturale, storico-artistico.

Questa mostra, inaugurata il 5 marzo alla Rocca albornoziana di Spoleto e organizzata da Regione Umbria, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Arcidiocesi di Spoleto – Norcia e Comune di Spoleto, durerà fino al 30 luglio 2017 e avrà proprio quest’obiettivo.

Ospiti in Rocca

L’evento si inserisce nel programma Scoprendo l’Umbria, prodotto da Sistema Museo e fortemente voluto e promosso dalla Regione Umbria per sostenere e valorizzare le attività dei musei. La mostra Tesori dalla Valnerina si apre con Ospiti in Rocca. Tra le opere, tutte ricche di un altissimo significato simbolico, troviamo il Crocefisso ligneo del XVI secolo proveniente dalla chiesa di Sant’Anatolia di Narco, la Madonna con Bambino del XVI secolo di Avendita di Cascia e il gruppo dell’Annunciazione di Andrea della Robbia degli inizi del XVI secolo, composto di due sculture in terracotta invetriata – la Vergine e l’arcangelo Gabriele – poste originariamente nella Chiesa della SS. Annunziata e conservate presso il Museo della Castellina di Norcia, da cui proviene anche il curioso quattrocentesco Bossolo del magistrato in mostra. Dalle altre regioni: il raffinato dipinto su tavola di Nicola di Ulisse da Siena Madonna col Bambino dal Museo diocesano di Ascoli Piceno e il San Sebastiano della seconda metà del Seicento proveniente da Scai, nel territorio di Amatrice.
Dal 9 aprile, un’altra selezione di opere, messe in salvo dalle chiese e dai musei danneggiati della Valnerina, provenienti dal deposito del Santo Chiodo di Spoleto, recuperate e già restaurate nei mesi trascorsi dal 24 agosto 2016 andranno ad arricchire la mostra.

Altri progetti

«Già dopo le scosse del 24 agosto ma soprattutto dopo il 30 ottobre, ho maturato la convinzione che la Rocca e il Museo nazionale del Ducato,non avendo riportato danni, dovessero assumersi il ruolo di punto di riferimento per il territorio e per attività momentaneamente in difficoltà» afferma la direttrice Rosaria Mencarelli.

Non solo mostre, quindi, ma anche molte altre iniziative tra cui LIGHTQUAKE: Donare per Ricostruire, una campagna di crowdfunding attivata a febbraio nell’ambito del progetto artistico LIGHTQUAKE, promosso dal MiBACT ,  Museo Nazionale del Ducato di Spoleto in collaborazione con il  Comune di Spoleto,  Politecnico di Milano – Facoltà del Design, e Associazione Rocca Albornoziana, per  sostenere il restauro di alcune opere danneggiate dal terremoto e l’avvio di un progetto condiviso per progettare una rigenerazione a base culturale a livello regionale. LIGHTQUAKE rappresenta un segnale di reazione e rinascita, “una scossa di luce” per infondere energia positiva, per spezzare il buio della distruzione e riaccendere la vita e la creatività in una terra ricca di capolavori e di eccellenze artistiche. È possibile contribuire alla raccolta fondi, realizzata in collaborazione con Progetto IMMaginario, nella piattaforma specializzata Starteed .

Una restaurazione necessaria

 

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Speranza e impegno; conoscenza per il futuro. La mostra è la giusta reazione all’emergenza beni culturali, per non rischiare di perdere il nostro patrimonio. Si devono restaurare edifici, chiese e opere d’arte prima possibile, altrimenti, come ho già avuto modo di scrivere sul numero speciale di Predella dedicato al terremoto, citando Mario Calabresi su La Repubblica del 29 ottobre 2016: «saremo tutti più poveri e avremo perso un pezzo della nostra anima».

 

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Sabato 8 Aprile 2017, presso lo Spazio Arte Valcasana (Scheggino – PG), nell’ambito della manifestazione Diamante Nero, è stata inaugurata la mostra d’arte internazionale CromoNero, con la presentazione del Sindaco di Scheggino Paola Agabiti e del curatore Graziano Marini.

mostra scheggino

Gli artisti coinvolti

La mostra è stata organizzata con il contributo, oltre a quello di Graziano Marini, di Pino Bonanno e Franco Profili. Il periodo della mostra sarà dall’8 Aprile al 1 Maggio 2017. Trentacinque sono stati gli artisti coinvolti nell’evento: Afro, Valentina Angeli, Enrico Antonielli, Chiara Armellini, Gianni Asdrubali, Romeo Battisti, Pino Bonanno, Sestilio Burattini, Tommaso Cascella, Bruno Ceccobelli, Piero Dorazio, Marino Ficola, Giuseppe Friscia, Benvenuto Gattolin, Giuliano Giuliani, Eugène Ionesco, Davide Leoni, Annamaria Malaguti, Graziano Marini, Arianna Matta, Saverio Mercati, Kristina Milakovic, Gianluca Murasecchi, Franco Profili, Giosuè Quadrini, Virginia Ryan, Raffaele Ricci, Roberto Ruta, Antonio Sammartano, Pino Spagnulo, Giulio Turcato, Xavier Vantaggi, Emilio Vedova, Franco Venanti, Paul Wiedmer.

Il nero del Diamante

L’evento CromoNero è concomitante con la tradizionale festa del Diamante Nero, ovvero la festa del tartufo nero, prodotto tipico del territorio apprezzato in tutto il mondo. La decisione di realizzare tale progetto espositivo ha presupposto una particolare sensibilità a far sì che il Nero fosse sentito come riferimento importante per ogni azione creativa d’arte visiva, sia essa espressa attraverso la pittura, sia attraverso la scultura.
Si è consapevoli che, quando ci si esprime con il colore, si evocano sempre sensazioni, emozioni e ricordi; Jung sosteneva che esso porta in sé un significato più ampio, inconscio, che non è semplice da definire o spiegare completamente. Quando la mente ne esplora il significato suscita idee che vanno oltre la razionalità. Infatti scrisse: «Il nero è il colore delle origini, degli inizi, degli occultamenti nella loro fase germinale, precedente l’esplosione luminosa della nascita».

Il colore del mistero

Nell’arte, il bianco e il nero sono colori-non colori, per molti versi sopportati, altre volte ossessivamente analizzati. Hanno la capacità di contenere tra loro l’intero universo, come il senso dell’infinito. Sono gli eccessi di uno stesso mondo.
Sappiamo che, soprattutto il nero, corrisponde alla schematizzazione cromatica delle prime domande che l’uomo si è posto, in quanto assorbe, non respinge, attrae.
È il colore del mistero. Non si sa quali risposte contenga e nasconda, ed è questa la grande sfida che attira e coinvolge gli artisti, presi come sono a cercare l’altro da sé, l’oltre inesplorato, l’evocazione di ogni orizzonte che sfugge e allontana il tempo.

L’artista sa bene che il seme per germogliare deve essere sepolto nella terra, nell’oscurità, ma sa anche che il messaggio che ci trasmette contiene elementi di vitalità e inquietudini ancestrali. Il tartufo nero, nella sua conformazione strutturale, rappresenta bene questo senso di fragile inconsistenza dell’esistenza. La sua asperità e la sua “fragranza” interna si contrastano, ma si accolgono per rappresentarci completamente il senso ultimo della vita. Perché, come nella favola di Eros e Psiche di Apuleio, l’amore prospera al buio e il nero costituisce l’elemento più adatto a rappresentarlo se si sanno cogliere le varie sfumature che esso comporta, conferendo un senso del sacrificio, tenacia, pessimismo, abnegazione e risolutezza nel perseguire le proprie emozioni.

«Il nero mi ossessiona»

Mirò diceva: «Il nero mi ossessiona, non esiste altro colore con così tante qualità e sfumature, è il paradiso della pittura, è l’inizio e la fine», mentre Van Gogh sosteneva che il nero va considerato come la più luminosa combinazione dei più scuri rossi, azzurri e gialli. Ovvero racchiude una concentrazione infinita di colori caldi e per questo va “vissuto” come se fosse un alito che ci alimenta con tutta la sua carica di misteriose attribuzioni.
L’artista, rabdomante risoluto, è sempre alle prese con la sostanza che questo colore comporta, vi cerca lo spirito interno, lo percuote, lo interroga incessantemente fino a sentire le sue voci più soffocate e, con l’abilità adeguata del minatore, ne coglie tutta la raffinata valenza cromatica. Dopo averlo bene esplorato, lo affida alla visione dei più curiosi e attenti visitatori dell’animo umano, i quali sapranno leggervi messaggi chiaramente espressi, ma anche tutte le fratture, le derive, gli enigmi che racchiude.

Un colore ancestrale

Ogni artista partecipante a CromoNero ha sempre avuto, ed ha, una particolare sensibilità e attenzione verso il Nero, cogliendo in esso la sostanza più profonda delle proprie ricerche cromatiche e delle proprie derive espressive, senza farsi mai coinvolgere negativamente dal mistero che emana e che rappresenta e ben sapendo che anche il nero viene colto attraverso la sua risonanza interna, la funzione psichica di base, la posizione occupata nella genesi dello spettro dei colori e il suo significato interiore. Ma viene colto anche in assonanza con stati d’animo, oggetti, suoni, memorie. Così, per esempio, del giallo diciamo che è il tipico colore terreno ed è rappresentazione cromatica della follia, mentre il blu si vuole che appaia come il colore del cielo, che rimanda alla profondità, che indica all’uomo l’infinito e che assomiglia al suono del violoncello.

Contrasti fondamentali

Il nero costituisce uno dei contrasti fondamentali dei colori in quanto si contrappone sempre al bianco. Il contrasto in questione rappresenta così il limite del movimento cromatico: il bianco è simbolo di un mondo in cui tutti i colori sono scomparsi, dove regna un gran silenzio, e tuttavia vi è la possibilità della rinascita; il nero invece si cerca di assimilarlo al nulla privo di possibilità, silenzio eterno. L’artista però si ribella a tale considerazione accademica e cerca di dimostrare sempre che il nero è il vero portatore delle motivazioni profonde della creazione, lo “spirito” acceso di ogni autentica ricerca estetica entro la quale nasce e si sviluppa l’azione emotiva, gestuale, concettuale dell’agire espressivo.

 

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«L’aspetto della regione è piacevolissimo, immagina: un anfiteatro immenso, quale soltanto la natura può creare. Una vasta e aperta pianura cinta dai monti; questi ricoperti fin sulla cima di antiche e maestose foreste, dove la cacciagione è varia e abbondante. Lungo le pendici delle montagne i boschi cedui digradano dolcemente fra colli ubertosi e ricchissimi di humus, i quali possono gareggiare in fertilità coi campi posti in pianura […] In basso l’aspetto del paesaggio è reso più uniforme dai vasti vigneti che da ogni lato orlano le colline, e i cui limiti, perdendosi in lontananza, lasciano intravedere graziosi boschetti. Poi prati ovunque, e campi che solo dei buoi molto robusti con i loro solidissimi aratri riescono a spezzare; quel tenacissimo terreno, al primo fenderlo, si solleva infatti in così grosse zolle che solo dopo nove arature si riesce completamente a domarlo. I prati, pingui e ricchi di fiori, producono trifoglio e altre erbe sempre molli e tenere, come se fossero appena spuntate, giacché tutti i campi sono irrorati da ruscelli perenni. Eppure, benché vi sia abbondanza d’acqua, non vi sono paludi, e questo perché la terra in pendio scarica nel Tevere l’acqua che ha ricevuto e non assorbito…. […] A ciò, naturalmente, si aggiungono la salubrità della regione, la serenità del cielo, e l’aria, più pura che altrove.»
(Lettera di Plinio il Giovane a Domizio Apollinare, Libro V, epist. 6)

Storia

I primi insediamenti dell’estremo comune a nord della regione si devono far risalire agli Umbri come attestato dal ritrovamento di numerosi bronzetti.  In epoca romana – con il nome Meliscianum dalla ninfa Melissa il cui nome significa “produttrice di miele” ed evoca una zona in cui l’apicoltura era senz’altro largamente praticata – divenne un importante centro commerciale lungo la via Tiberina. Del periodo romano è notevole attestazione la grandiosa villa rustica che Plinio il Giovane fece costruire intorno al 100 d.C. In seguito la villa venne distrutta e il territorio devastato dai Goti di Totila.

Scavi archeologici di Colle Plinio, foto gentilmente concessa dal Comune di San Giustino

Il nome odierno di San Giustino, dal santo martirizzato a Pieve de’ Saddi ai tempi dell’imperatore Marco Aurelio, appare per la prima volta in un diploma del 1027. Il territorio di San Giustino fu per secoli conteso tra Arezzo, Città di Castello e San Sepolcro. I primi signori del luogo furono Oddone e Rinaldo di Ramberto, i quali nel 1218 si sottomisero a Città di Castello. A seguito della sottomissione del 1262 Città di Castello lo fece munire, ma durante la sede papale vacante, a seguito della morte di Clemente IV, San Sepolcro mise a ferro e fuoco il territorio distruggendo anche il fortilizio. Una volta ricostruito il Castello, esso fu dato in custodia nel 1393 alla famiglia Dotti, fuoriuscita da San Sepolcro, con l’impegno che venisse usato per la difesa di Città di Castello. Dopo alterne vicende -in cui a più riprese il palazzo Dotti venne distrutto e ricostruito- la famiglia Dotti lo restituì al comune di Città di Castello nel 1481. A questo punto il governatore papale di Città di Castello invitò suo fratello, Mariano Savelli, valente architetto, a predisporre il progetto per la trasformazione della dirupata fortezza in potente palazzo che doveva rivelarsi inespugnabile e munito di un imponente fossato. I lavori vennero iniziati, ma mancando i fondi per portarli a termine Città di Castello lo diede nel 1487 a un facoltoso possidente, Niccolò di Manno Bufalini, dottore in utroque iure e familiare di Sisto IV, di Innocenzo VIII e di Alessandro VI, perché portasse a termine i lavori. Tanti furono i servizi e meriti nei confronti della Santa Sede che nel 1563 Giulio Bufalini e il figlio Ottavio ebbero dal Papa il titolo di conti e a loro venne assegnato il feudo e il territorio di San Giustino. Durante il periodo napoleonico San Giustino, staccato da Città di Castello, divenne comune autonomo, ma fu soppresso con la fine di Napoleone per venire definitivamente riconosciuto con motu proprio di Leone XIII nel 1827. San Giustino fu il primo comune umbro ad essere occupato dai Piemontesi del generale Fanti l’11 settembre 1860.

Castello Bufalini

Castello Bufalini, foto gentilmente concessa dal Comune di San Giustino

Castello Bufalini costituisce senz’ombra di dubbio l’emblema di San Giustino. Il castello vede le sue origini nel fortilizio militare della famiglia Dotti. Restituito a Città di Castello nel 1478 dopo che a più riprese era stato attaccato e distrutto, nel 1487 il legato pontificio di Città di Castello lo donò a Niccolò di Manno Bufalini perché egli terminasse i lavori di ricostruzione iniziati su progetto di Mariano Savelli, fratello del governatore, con l’obbligo in caso di guerra di difendere Città di Castello e di accogliere le truppe e i capitani che il comune avrebbe inviato a difesa del luogo e dei suoi abitanti. Il Bufalini, su nuovo progetto redatto da Camillo Vitelli, trasformò il vecchio fortilizio in una vera e propria fortezza circondata da un fossato, dotata di un mastio e quattro torri, camminamenti merlati e ponte levatoio.
Il Rinascimento portò alla trasformazione della fortezza in villa signorile. Gli autori di tale trasformazione furono i fratelli Giulio I e Ventura Bufalini dal 1530 comproprietari e residenti nel castello. I lavori, eseguiti tra il 1534 e il 1560, riguardarono sia la ristrutturazione esterna dell’edificio sia la nuova disposizione e l’ammodernamento degli spazi interni. Il progetto iniziale che prevedeva la sistemazione del cortile interno, la costruzione delle finestre inginocchiate, la realizzazione di una delle due scale a chiocciola e una nuova distribuzione degli ambienti, probabilmente si deve a Giovanni d’Alessio d’Antonio, detto Nanni Ongaro o Unghero (Firenze 1490-1546), architetto fiorentino della cerchia dei Sangallo, al servizio del granduca di Toscana Cosimo I, ma i lavori proseguirono anche dopo la sua morte. Per la decorazione pittorica viene chiamato Cristoforo Gherardi (San Sepolcro 1508-1556), detto Il Doceno, che dipinge cinque stanze con favole mitologiche e decorazioni a grottesca, lavorando dal 1537 al 1554. Alla fine del Seicento, il castello fu interessato da una nuova fase di lavori su commissione di Filippo I e Anna Maria Bourbon di Sorbello. Su progetto di Giovanni Ventura Borghesi (Città di Castello 1640-1708), il palazzo venne trasformato in villa di campagna con giardino all’italiana. L’ultima vicenda costruttiva del castello ha avuto luogo dopo la Seconda Guerra mondiale, in quanto non uscì incolume dai bombardamenti che interessarono la zona. Nel 1989 Giuseppe Bufalini lo cedette allo Stato. Con l’integrità dei suoi arredi, il castello costituisce oggi un raro esempio di dimora storica signorile.

Villa Magherini Graziani di Celalba

Foto gentilmente concessa dal Comune di San Giustino

La villa, sorta su un preesistente fortilizio romano, fu progettata dagli architetti Antonio Cantagallina di San Sepolcro e da un certo Bruni di Roma su commissione di Carlo Graziani di Città di Castello. I lavori iniziati nei primi anni del Seicento furono portati a termine nel 1616. La struttura, a pianta quadrangolare, si sviluppa su tre livelli, sormontata da una torretta di 17 metri di altezza. Il piano terra è decorato da archi murati al cui centro si aprono finestre e nicchie che evocano la regolarità di un portico. Il piano nobile è caratterizzato da un ampio loggiato con elegante balaustra e colonne in pietra serena. L’ingresso laterale immette nella galleria carraia, costruita con volte a botte, che consentiva l’accesso al coperto delle carrozze e collegava tra di loro la casa colonica e la chiesetta dedicata alla Santa Maria Lauretana. L’edificio, che costituisce uno splendido esempio di villa nobiliare tardo rinascimentale è circondato da un parco di 6 ettari di superficie recentemente recuperato e nella parte frontale si può ammirare un meraviglioso esempio di giardino all’italiana. Dal 1981 è proprietà del Comune di San Giustino che ha provveduto al restauro funzionale dell’edificio. Oggi la casa colonica è adibita ad attività socio-culturali. La chiesetta invece è oggi usata dal Comune di San Giustino per la celebrazione dei matrimoni civili. I locali di villa Magherini Graziani ospitano il Museo Pliniano e dal febbraio 2016 anche la mostra permanente Iperspazio di Attilio Pierelli (Sasso di Serra S. Quirico 1924-Roma 2013). L’artista, fondatore del Movimento Artistico Internazionale Dimensionalista, ha dedicato gran parte della sua produzione alla visualizzazione del concetto di spazio relativo alla quarta dimensione geometrica e alle geometrie curve non euclidee e a Villa Magherini Graziani è possibile ripercorrere le diverse stagioni creative dell’autore dalle Piastre inox, ai Nodi, ai Cubi attraverso cui l’artista negli anni ha dialogato con l’iperspazio.

Museo del Tabacco

Museo storico scientifico del Tabacco, foto gentilmente concessa dal Comune di San Giustino

È uno dei sette musei italiani dedicati al Tabacco. Sorto nella sede dell’ex Consorzio Tabacchicoltori di San Giustino, ad opera dell’omonima Fondazione (costituitasi nel 1997), ha lo scopo di far conoscere l’importanza storica che la tabacchicoltura ha avuto – ed ha – nello sviluppo sociale ed economico della zona. Nell’Alta Valle del Tevere infatti la coltivazione del tabacco costituisce una tradizione che deve essere tramandata e diffusa. Non è un caso che proprio a San Giustino si trovi un museo dedicato al Tabacco, infatti nella penisola italiana le prime coltivazioni di una certa importanza per scopi commerciali dell’erba tornabuona – così chiamata perché i primi semi furono portati in Toscana dal vescovo Niccolò Tornabuoni alla fine del Cinquecento – risalgono agli inizi del Seicento e risiedono proprio nella Repubblica di Cospaia, un piccolo territorio oggi frazione di San Giustino.

Tabacchine, foto gentilmente concessa dal Comune di San Giustino

Il museo comprende uffici, essiccatoi, sale di cernita: luoghi di grande fascino dove si rievoca una lunga storia di fatica e lavoro, ma anche di emancipazione, storia che ha avuto nelle donne del XX secolo le principali protagoniste. Le lavoratrici dei tabacchi, infatti, al pari delle operaie tessili, sono tra le prime donne che, abbandonato il tradizionale lavoro casalingo, vengono inserite nelle grandi industrie.

 

 

La Repubblica di Cospaia

 

Cospaia, oggi frazione di San Giustino, è l’ultima località a nord dell’Umbria. La sua storia – la storia di un piccolissimo stato indipendente tra tre grandi potenze (lo Stato della Chiesa, il Ducato di Urbino e il Granducato di Toscana) a lungo in lotta tra loro – merita di essere raccontata. Cosimo dei Medici aveva concesso un prestito di 25.000 fiorini a Eugenio IV per il Concilio ecumenico che nel 1431 aveva indetto a Basilea, chiedendo in garanzia la giurisdizione su Borgo San Sepolcro. Alla morte del Papa il prestito non era stato restituito e così i due Stati mandarono i loro geometri a delimitare i rispettivi confini. I geometri lavorarono senza mai vedersi e così i toscani stabilirono i confini sul Rio della Gorgaccia, i pontifici sul Rio Ascone. Il territorio compreso dunque tra i due fiumi, la collina di Cospaia, rimase pertanto indipendente. Dal 1441 al 1826 Cospaia «trascorse quattro secoli senza avere capi, o leggi, o consigli, o statuti, o soldati, o esercito, o prigioni, o tribunali, o medico, o tasse. Sopravvisse secondo il buonsenso degli anziani. Non ebbe pesi e misure». Perfino la posizione del parroco, che si occupava anche di tenere il registro delle anime e di fare il maestro del paese, denunciava indipendenza, egli infatti non sottostava a nessun vescovo. L’indipendenza finì con l’accordo dell’11 febbraio 1826 con il quale Leone XII e Leopoldo I si spartivano il territorio. Cospaia il 28 giugno 1826 fece atto di sottomissione allo Stato pontificio e ogni cospaiese a “risarcimento” della perduta libertà ebbe un papetto, ossia una moneta d’argento con l’effigie di Leone XII. Ancora oggi il 28 giugno di ogni anno viene celebrata la “ex Repubblica di Cospaia”.

 

Per saperne di più su San Giustino

 

 

 

 

 


Storia – Bibliografia essenziale 
San Giustino, in M. Tabarrini, L’Umbria si racconta, Foligno, s.n., 1982, v. P-Z, pp. 265-269.
E. Mezzasoma, S. Giustino, in «Piano.Forte», n. 1 (2008), pp. 43-49.
S. Dindelli, Castello Bufalini. Una sosta meravigliosa fra Colle Plinio e Cospaia, San Giustino, BluPrint, 2016

Castello Bufalini – Bibliografia essenziale 
A. Ascani, San Giustino, Città di Castello, s.n., 1977.
G. Milani-P. Bà, I Bufalini di San Giustino. Origine e ascesa di una casata, San Giustino, s.n., 1998.
S. Dindelli, Castello Bufalini. Una sosta meravigliosa fra Colle Plinio e Cospaia, San Giustino, BluPrint, 2016

La Repubblica di Cospaia – Bibliografia essenziale 
Cospaia, in M. Tabarrini, L’Umbria si racconta, Foligno, s.n., 1982, v. A-D, p. 447.
A. Ascani, Cospaia. Storia inedita della singolare repubblica, Città di Castello, tipografia Sabbioni, 1977.
G. Milani, Tra Rio e Riascolo. Piccola storia del territorio libero di Cospaia, Città di Castello, Grafica 2000, 1996
E. Fuselli, Cospaia tra tabacco, contrabbando e dogane, San Giustino, Fondazione per il Museo Storico Scientifico del Tabacco, 2014

 

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