Con la farina, le uova e un pizzico di sale, ricavare una sfoglia più spessa di quella normale; farne delle tagliatelle larghe. Porre in un tegame il guanciale a pezzetti e, quando il grasso sarà quasi sciolto, le salsicce sbriciolate. Quando guanciale e salsiccia saranno cotti, scolare il grasso. Sbattere le uova in una terrina, insieme al succo di limone, la panna, la noce moscata, il sale e il pepe.
Versare nel tegame i penchi lessati al dente e ben scolati, farli insaporire per un attimo, poi unire la salsa e amalgamare a fuoco basso. Unire il formaggio grattugiato e servire.
Secondo la leggenda, questa preparazione è nata nel castello di Vetranola di Monteleone di Spoleto nel 1494: pare che a inventarli, per rabbonire i capitani di un esercito invasore, sia stata una giovane del luogo. Preparati in tutta la zona tra Monteleone e Cascia, i penchi – che qualcuno chiama anche strascinati – si possono preparare anche senza panna. In mancanza dei penchi, con la stessa salsa si possono usare i rigatoni. Sono tipici del periodo di Carnevale.
L’altopiano di Chiavano, situato fra l’Umbria e il Lazio, ha segnato fino al 1860 il confine tra lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Un tipico castello medioevale, che dà il nome all’area, sorge sulla testata della valle, in cima a un colle arrotondato a 1128 metri di quota.
Ai suoi piedi, verso sud, si apre il piatto fondovalle delimitato da ripidi versanti distanziati fino a un chilometro e mezzo. Lungo le fasce di raccordo tra la pianura e i rilievi, sorgono Villa San Silvestro e Buda da un lato, Coronella e Trognano dall’altro. Il fascino del Piano di Chiavano non è però quello di un paesaggio residuale del passato, e la prima sensazione che il visitatore avverte è quella di un luogo bello perché funzionale, per la natura e per l’uomo che non lo ha mai abbandonato. Il paesaggio agrario del luogo è uno dei più imponenti e significativi dell’Appennino Centrale, un angolo di Italia in cui ancora coesistono l’antico impianto della centuriazione romana e il nuovo assetto dato al territorio da un’agricoltura incentrata sull’allevamento che rendono questo luogo vivo, dinamico e proiettato verso il futuro. Tanto per movimentare e articolare ancora di più il paesaggio, l’ambiente, la natura e la storia del Piano di Chiavano, ecco che a Villa San Silvestro, proprio accanto al borgo, dove inizia a distendersi la lunga pianura, i resti di un tempio romano del III secolo avanti Cristo parlano, imponenti, dell’antichissima importanza del luogo. Gli interstizi tra le grandi pietre del basamento e i resti delle colonne sono abitati, nemmeno a dirlo, dalle lucertole muraiole, mentre il Codirosso spazzacamino si posa sul campanile della chiesa sorta sopra le vestigia del tempio.
Il sito di Villa San Silvestro di Cascia rappresenta l’unico esempio finora noto di un forum repubblicano
Un tesoro nascosto
Tra il 1920 e il 1930 gli scavi condotti al di sotto della Chiesa di Villa San Silvestro fecero riemergere il podio e alcuni elementi architettonici del monumentale tempio romano di cui abbiamo parlato nelle righe precedenti. Nonostante la sua importanza storica per la comprensione del territorio, questo luogo fu per lungo tempo dimenticato, finché negli anni Ottanta le ricerche condotte sul posto dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici per l’Umbria portarono alla luce alcune colonne in laterizio di un portico alle spalle del tempio. Gli scavi sono poi ricominciati nel 2003, sotto la direzione scientifica del professor Filippo Coarelli dell’Università di Perugia. Il progetto è ripartito dallo studio del tempio stesso, che trova confronti solo in altri due casi (Sora e Isernia), molto meno conservati. La campagna di ricerche ha visto integrarsi saggi di scavo mirati a comprendere i particolari delle tecniche edilizie e le caratteristiche costruttive del III secolo avanti Cristo.
Un’iscrizione del II secolo a.C. attesta la presenza del culto del dio Terminus, divinità prettamente romana che difende i confini, nell’area di Villa San Silvestro
I risultati sono stati sorprendenti. Da un lato lo scavo e i rilievi mettevano in evidenza che il tempio aveva avuto due fasi edilizie: la prima, con la costruzione agli inizi del III secolo a.C., la seconda legata al restauro ispirato ai modelli architettonici che caratterizzarono la Roma del I secolo. Partendo da questi elementi, la campagna dell’agosto 2007 ha portato alla luce un settore del foro che circondava il tempio. Le strutture emerse, ancora in fase di studio, rivelano che il foro, come il tempio, ebbe diverse fasi edilizie: appare dunque naturale collegare la costruzione del foro con l’imporsi della dominazione di Roma che, per assicurarsi il controllo sul territorio, impianta un forum in un’area in cui una popolazione prevalentemente agricola viveva sparsa sul territorio. La scelta del sito non è casuale: si tratta, infatti, di un’area che coincide con la più vasta pianura della zona. Il foro sorge nel punto in cui scaturivano le uniche sorgenti del territorio e, soprattutto, dove il diverticolo della via Salaria incontrava i percorsi di transumanza e quello di valico che, attraverso Monteleone di Spoleto, permetteva di giungere fino alla Flaminia.
A est del foro è emersa una vastissima area delimitata da una tripla serie di portici, scanditi da colonne in laterizio e semipilastri
Un monte che, in questa stagione, ricorda anacronisticamente il mare d’inverno. Solo che, al posto dell’acqua, della salsedine e dei flutti, ci sono fiori e distese erbose.
Sulla sinistra della strada tortuosa che da San’Anatolia di Narco conduce a Monteleone di Spoleto, una volta oltrepassato il pittoresco borgo di Gavelli, si apre una vecchia mulattiera che si inerpica a zig-zag lungo il Monte Coscerno. Un segnavia del CAI – pressoché l’unico che incontrerete lungo tutto il percorso – indica come di consueto i tempi di percorrenza per quella che è la vostra meta, la Forca della Spina.
Ma, nel caso non foste pratici di sentieri e di trekking, vi basterà seguire quella viuzza sterrata che attacca il versante del Coscerno a circa 1100 metri di altitudine e proseguire a fianco di un vecchio recintospinato intervallato da scale di legno fradicio. Un tempo queste, presumibilmente, permettevano di scavalcare la recinzione senza pericoli, mentre ora si appoggiano, sbilenche e fragili, alla debole struttura di contenimento.
Un cartellone scolorito al punto da essere diventato bianco e con poche lettere ancora distinguibili, data l’intervento di finanziamento al 1987. In effetti, più andrete avanti più scoprirete come lo stato in cui versano gli steccati e la debole traccia del sentiero – conservata soprattutto dal passaggio degli animali da pascolo – rivelino la scarsa frequentazione, da parte dell’uomo, di questo monte ricco di prati.
Una vasta distesa di abeti si apre, dopo non molto, sulla destra. La regolarità degli alberi rivela un’origine artificiale, anche se ormai cancellata dalla fitta vegetazione che impedisce addirittura di vedere il cielo all’orizzonte. Un senso di pace, nonché un silenzio abissale invadono le orecchie, presto sostituiti dal battiti accelerati del cuore, messo sotto sforzo dalla successiva e repentina salita.
Ma, come accade spesso in montagna, il panorama ripaga la fatica. Alle nostre spalle, numerosi massicci, resi un’unica, imponente catena dalla prospettiva distorta, spuntano dalla foschia di condizioni atmosferiche inclementi. Il più lontano, il Terminillo, veste ancora il bianco delle nevi invernali.
Davanti a noi, invece, si apre una foresta caduca spazzata dal vento. I tronchi nodosi, piegati e avvinghiati come tentacoli dell’orrore, rivelano le loro forme bizzarre e contorte grazie alla pulizia operata dalla stagione fredda appena trascorsa: presto torneranno a essere nascosti dalle verdi foglie e dal rigoglioso sottobosco.
Già fanno capolino le viole del pensiero, gialle e viola che, dal limitare di questa macchia chinatasi al vento si estendono a perdita d’occhio, tappezzando questi vasti prati d’altura.
Il cielo grigio acciaio, l’erba secca, lo steccato scolorito e la foresta rossiccia sembrano aver desaturato la scena, conferendole – anacronisticamente e inaspettatamente – i colori del mare d’inverno.
La presenza umana è ora tradita da un fuoristrada che si avvicina a sobbalzi. Non credo possa stare qui, a calpestare questi magnifici rigurgiti di natura montana, ma l’uomo non sembra preoccuparsene: ci chiede se abbiamo visto dei cavalli. Di deiezioni equine e bovine, in effetti, ne abbiamo viste tante, ma di quadrupedi nemmeno l’ombra. Forse è questo vento freddo che pettina i prati ad averli spinti al riparo.
Procediamo ancora. S’intravedono le antenne in lontananza, come alla fine di un gioco di specchi. La cresta piatta del Coscerno è talmente vasta da creare tanti altopiani in successione, come piccole piste di decollo elicotteri.
Le violette fanno spazio alle pervinche e ai crochi, come a tante specie variopinte di cui ignoro il nome, ma che appagano la vista per la loro elegante architettura e per la loro tenace ostinazione a crescere in luogo di così soggiogante asperità.
Qualche saliscendi e poi, morbidamente, un avvallamento ripieno d’acqua. La pozza, senza dubbio stagionale, si estende immota a limitare della foresta china. Lo sarà ancora per poco: sul fondo si estendono lunghissime matasse gelatinose che, dopo un primo momento di smarrimento, risultano piene di uova. Il centro del laghetto si increspa rivelando la sagoma di un rospo, anticipazione di ciò che diventerà la gran parte di queste uova scure.
La foresta si risolve in una staccionata sbiancata dal sole che ci conduce alle antenne. È sempre difficile abituarsi a tanto ferro dopo che si è stati inghiottiti dalla natura, le cui proporzioni sono sempre dilatate: il cielo sembra schiacciarci, avvolgente come una cupola indaco, e i prati si aprono e si contraggono come il moto ondoso di un mare in tempesta. I fiori ci vorticano attorno come risacca.
Oltrepassate le arrugginite costruzioni umane, il versante rovina quasi a strapiombo, vellutato dai ciuffi d’erba che, come ingannevoli cuscini, sembrano rassicurarci con la morbidezza di un’eventuale caduta.
Adagio, costeggiamo la cima e torniamo indietro a mezza costa, le antenne nascoste alla vista, scoprendo infine il sostegno roccioso del Monte Coscerno, le sue asperità, la sua lunga storia.
Sentiero: poco oltre Gavelli, in corrispondenza degli abbeveratoi, inizia la mulattiera che risale il Monte.
Durata: 4h 30 con pause.
Dislivello: 600 metri.
Difficoltà: medio-bassa, classificata come E.
Suggerimenti: portarsi una giacca antivento e almeno un cambio.
Inaspettatamente, nella Valnerina dipinta dal genius loci, la bussola che orienta questo viaggio incrocia sentieri e percorsi dominati dai colori e dalle asprezze del selvaggio Appennino, una terra primordiale in cui tramonti infuocati incendiano arcani campanili e torri di pietra.
Non a caso, proprio sui sentieri nasce la geografia dell’uomo: camminare per conoscere, perdersi per ritrovarsi tra ragnatele di fughe e di ritorni. Per questo ogni strada che nasce conduce a se stessi, ogni passo che traccia il sentiero aggiunge altri segni, altre storie. Così come nessuna strada nasce solo per andare, perché il primo passo è giù un passo verso il ritorno, anche questi sentieri hanno conosciuto la stanchezza del viaggiatore, la nostalgia del ricordo e la speranza del traguardo. Il pastore, l’escursionista, il pellegrino e il cacciatore in questo angolo di Umbria tormentano la stessa polvere, scrutano lo stesso cielo, bevono a mani giunte dalla stessa sorgente, eppure sono così diverse le orme dei loro passi. Sentieri e percorsi che risalando da Santa Anatolia di Narco, lungo l’antico itinerario montano che porta a Monteleone di Spoleto, scivolano nei pensieri del viaggiatore, come si scivola sui ciottoli del Nera che a valle ruggisce fragoroso nel respiro del vento.
Un luogo da scoprire
Issato sulla volta del cielo da funi di roccia e granito, Gavelli, castello ammainato tra i rovi di sentieri campestri fioriti nei giardini perduti della Valnerina, inquadra, dalle spoglie del cassero morente, simulacri e lineamenti di un antico santuario di montagna che, dal trono lapideo delle torre campanaria, contende agli spiriti arcani del vento e delle stelle misteri e silenzi dell’eterno. Deposto su un letto d’arenaria, il Tempioconsacrato all’Arcangelo San Michele,circoscrive lo sguardo del viaggiatore in cinque nicchie quattrocentesche, numero che il fonosimbolismo ebraico sintetizza nella formula he, il soffio divino che, archetipicamente, è ciò che viene insufflato e che dà origine all’uomo e che, tra gli affreschi sanguinanti della Passione, eleva l’animo all’apoteosi della grazia artistica indicando ai fuochi fatui della mente l’asse cartesiano che conduce alla dimensione eterea dello spirito.
La resurrezione di Cristo
La resurrezione
Il Cristo, ridestatosi dal torpore del trapasso, riemerge dalla pietra nuda del sepolcro. Il capo è reclinato; lo sguardo, è celato da palpebre cucite dal dolore; le braccia, scarcerate dalla stretta infausta del sudario, si discostano appena dal corpo mentre il sangue fluisce dalle piaghe e sulla testa è ancora infissa la corona di spine, ricavata da un albero di acacia che nella perennità del legno preserva il trionfo della vita sulla morte. Gli strumenti disposti accanto al sepolcro, richiamano con intento didattico i momenti salienti della Passione: la croce con i chiodi insanguinati, la colonna infame con la corda e i flagelli, l’asta che reca la spugna imbevuta d’aceto divengono immagini del Sommo Sacrificio.
Sul bordo del sepolcro risuona il tragico canto del gallo che annuncia dal podio marmoreo del Golgota il tradimento eretico dell’apostolo Pietro ma che, nel ciclo pittorico, diviene nunzio dell’aurora, araldo a cui il pittore affida il compito salvifico di celebrare la vita eterna conquistata dal Redentore sul patibolo dei chiodi e della croce. Accanto alla mano pietosa della donna che, premonendo l’apoteosi del Maestro versa il balsamo odoroso ai piedi del Redentore, il palmo di chi ha pagato le monete del tradimento versando il tributo della redenzione.
Un tracciato fatto di strade secondarie, sentieri, argini e borghi abbarbicati. La Greenway del Nera è tutto questo.
Panorama delle cascate delle Marmore
Un percorso ciclopedonale nato nel cuore verde della Valnerina, pensato per far conoscere e per far vivere questi luoghi spesso fin troppo dimenticati. Un anello di 180 chilometri dedicato agli amanti della natura. Non troppo difficile né faticoso, permette ai viandanti di godersi il paesaggio con il fiume Nera e tutti i suoi emissari, ma anche l’aspetto culturale della zona, grazie agli storici borghi che si attraversano.
L’idea
La Greenway è stata pensata per far conoscere la Valnerina e per far vivere il territorio della comunità montana cui appartiene. Ma non è tutto qui. È nata, infatti, come una vera e propria emergenza naturalistica, per preservare il paesaggio potendone però sfruttare l’enorme potenziale, nel rispetto dell’equilibrio ecologico. È così divenuto lo strumento di apprendimento diretto della natura e delle sue articolate forme, il luogo in cui poter sperimentare un approccio creativo e coinvolgente per attrarre nuove forme di turismo e di conoscenza del territorio.
I tracciati
Il primo passo per mettere il visitatore in contatto con il territorio è stato l’identificazione e la sistemazione di un percorso alternativo, percorribile a piedi, in bicicletta o a cavallo. Il punto di partenza è la Cascata delle Marmore, così come il punto di arrivo. Un anello totalmente immerso nel verde che permette al turista di entrare in un mondo inesplorato fatto di sentieri verdeggianti e magici borghi. Così dal luogo tanto amato da Lord Byron e dagli altri viaggiatori amanti del Grand Tour inizia un lungo percorso formato in parte da strade già segnate: gli itinerari benedettini, la via francigena, l’ex ferrovia Spoleto-Norcia.
Dalla Cascata delle Marmore fino al bivio di Preci è possibile “camminare a braccetto” con il Nera. Infatti, la sponda sinistra del fiume è interamente percorribile e forma una delle sterrate più interessanti del centro Italia. Da qui, chi vuole, può prendere il percorso montano che vi è stato collegato che passando per Preci, Norcia, Cascia, Monteleone di Spoleto, Salto del Cieco, Piediluco, Prati di Stroncone, torna alla Cascata, passando per i Campacci di Marmore (Belvedere superiore).
Cascata delle Marmore vista dal Penna Rossa
Essendo un percorso ad anello, la Greenway può essere percorsa sia in senso orario, sia in senso antiorario. Per renderla fruibile a tutti, inoltre, è stata suddivisa in sedici tratti, anch’essi ad anello, cosicché sia più facile per il viaggiatore tornare al punto di partenza senza dover ripercorrere la stessa strada. Molti di questi tratti lungo il fiume, dalla Cascata fino a Preci, sono prevalentemente pianeggianti, ma quelli montani per il ritorno alla Cascata presentano salite anche molto impegnative che, però, possono essere evitate scegliendo il percorso alternativo su asfalto, su strade sempre poco trafficate. Ciascuno di questi ha una lunghezza che va dai cinque ai ventidue chilometri. Unendo più tratti si può programmare un viaggio a tappe della lunghezza voluta. Ogni tratta, ben indicata dai cartelli, collega centri abitati dotati di servizi. Lungo il percorso inoltre sono segnalati i sentieri che portano alle varie zone naturali protette.
Una gita per tutti
La Greenway è un percorso che può essere davvero esplorato da tutti. In completa sicurezza, perché dedicato esclusivamente a utenti non motorizzati, garantisce l’accesso a tutti grazie a quella che viene definita circolazione dolce, che consente di godere lentamente del territorio che si sta attraversando per poter osservare da ogni punto di vista i paesaggi circostanti.