Incontrare i fantasmi del passato: è questo l’intento con cui i primi due personaggi in cui ci imbattiamo aprendo il romanzo di Renata Covi, L’anello in Canal Grande (Bertoni Editore, 2022), iniziano l’opera di ricostruzione della storia della loro famiglia.
Scartabellano così diari, documenti e lettere custoditi in soffitta: non si tratta soltanto di svelare i segreti e chiarire i misteri irrisolti, ma anche di fare i conti con una serie di sentimenti che accompagnano il passaggio tra generazioni e la fine di un’epoca. O meglio, di diverse epoche: quei refoli di nostalgia, venati da una punta di rammarico, accomunano i personaggi – che si muovono nel presente, nella splendida cornice delle Dolomiti, e nel passato, in una Venezia animata dalla Mostra internazionale d’arte cinematografica – nel momento in cui si appropinquano a una svolta, a un punto di non ritorno, sia esso dovuto all’irrimediabile declino della vecchiaia o all’imporsi di una situazione socio-economica che ne scopre via via la precarietà. L’annoso incontro-scontro tra generazioni, in questo romanzo dal carattere corale, è dunque riproposto, ma con sfumature diverse e più ampie: si individua un prima e un dopo, sia esso la Crisi del ’29, il Fascismo, la decadenza della nobiltà o un irrecuperabile mutamento in un paesaggio altrimenti familiare.
La vicenda, ambientata alla fine degli anni Trenta, permette inoltre la restituzione dell’immagine della società dell’epoca, con le sue aspirazioni e pregiudizi, così come lo skyline della Laguna veneziana durante l’evento che più la caratterizza, ovvero la Mostra internazionale d’arte cinematografica. L’anello in Canal Grande è, dunque, anche un romanzo di costume, dando conto anche dell’emersione di nuove professioni, mode e velleità. Al tempo stesso offre un punto di vista ravvicinato sulle vicende politiche ed economiche che cominciavano a preparare il terreno per i fatti che, da lì a poco, sarebbero passati alla Storia.
Pur portando con sé delle riflessioni sul passare del tempo – consapevolezza e accettazione, certo, ma anche l’emblematico messaggio che, pur lontani nel tempo e nello spazio, i figli di ogni generazione sono afflitti dallo stesso genere di preoccupazione e pensieri – il romanzo di Renata Covi non si abbandona certo alla celebrazione dei tempi che furono e alla decadenza: lo stile dell’autrice, delicato e conciso, ne rende gioiosa e piacevole la lettura. Provare per credere.
La giornalista domenica sarà a Umbrialibri: «Sono contenta di tornare in Umbria, sono quattro o cinque anni che non vengo».
Abbiamo scambiato alcune battute con la giornalista e scrittrice Daria Bignardi che, domenica 10 ottobre, sarà a Perugia (ore 12 presso l’Aula Magna del Complesso Monumentale di San Pietro a Perugia) in occasione di Umbrialibri per presentare il suo ultimo romanzo Oggi faccio azzurro. Una storia irresistibile – a tratti comica e a tratti struggente – che mescola leggerezza e profondità, grazia e tenerezza, esplorando il dolore e il rapporto con noi stessi.
«Oggi faccio azzurro è un modo di dire tedesco che significa Oggi non vado a lavorare. Viene dal Medioevo quando gli artigiani vedevano il cielo azzurro solo un giorno alla settimana, quando appunto non andavano a lavorare» spiega l’autrice.
Daria Bignardi, foto di Claudio Sforza
Il libro (edito da Mondadori) ci fa conoscere il dolore e l’umanità, attraverso gli occhi di Gabriele, «come l’arcangelo», che però «in Germania è un nome da donna», e di Galla. Lei, da quando è stata lasciata dal marito, senza una ragione, passa le giornate a fissare dal suo divano la grande magnolia nel cortile, fantasticando di porre fine a quel dolore insopportabile del quale si dà la colpa. Se esce di casa è solo per incontrare la psicanalista Anna Del Fante o per andare in carcere, dove canta con altre dieci volontarie in un coro di detenuti tossicodipendenti. Durante un viaggio a Monaco di Baviera entra per caso in un museo dove è allestita la mostra della pittrice tedesca Gabriele Münter, amante del pittore Vasilij Kandinskij. Galla si sente ipnotizzata dalle sue opere e da quel momento la voce di Gabriele entra nella sua vita, tormentandola, prendendola in giro, raccontandole la sua lunga storia d’amore con Kandinskij, così simile a quella di Galla con l’ex marito Doug. Galla incrocia sulla sua strada altri due pazienti della psicanalista: Bianca, un’adolescente che non riesce più ad andare a scuola, e Nicola, un seduttore compulsivo, vittima di attacchi di panico, in un incontro a sorpresa che potrebbe stravolgere le esistenze di tutti e tre.
Le storie d’amore di Galla e Gabriele sono molto simili anche se vissute in due epoche lontane: la sofferenza d’amore non ha tempo. Cento anni fa si soffriva come oggi…
È vero! Infatti la pittrice Gabriele Münter, il fantasma che parla con Galla e che nell’iperuranio è diventata una femminista radicale, è indignata e le dice: «Non posso credere che cento anni dopo stiamo ancora messe così!».
La pittrice è un alter ego di Galla?
Secondo me Gabriele Münter è una delle voci interiori di Galla: quella che fa più fatica a esprimere.
Gabriele “mangia” pure i Baci Perugina…
Mi sono divertita a far parlare quest’artista nata alla fine dell’Ottocento in modo spiccio e diretto, come se fosse la sorella un po’ brusca ma divertente che Galla non ha mai avuto.
Tutti i personaggi sono a loro modo imprigionati da qualcosa: amore, carcere, paure, ansia, droga. Qual è la prigione più grande della società di oggi?
Eh, ce ne sono parecchie di prigioni e ognuno ha la sua: la cosa più difficile, oggi come un tempo, è proprio essere liberi.
Ha qualche ricordo legato all’Umbria?
A Perugia era venuta ad abitare una delle mie migliori amiche del liceo, Maria Rita Albertini, e ho passato con lei e la sua meravigliosa famiglia diverse Pasque. Poi ci sono stata parecchie volte al Festival del Giornalismo. Una volta ne ho approfittato per fare un sopralluogo a Cascia perché stavo scrivendo un mio libro intitolato Santa degli impossibili, che in qualche modo è stato ispirato dalla figura di Santa Rita. Sono contenta di tornare in Umbria, sono quattro o cinque anni che non vengo: vi aspetto domenica a mezzogiorno, tra l’altro mi presenterà uno scrittore che stimo moltissimo, Giancarlo De Cataldo, che è con me anche nella giuria del Premio Severino Cesari, carissimo amico umbro.
Ho fatto qualche domanda al mio amico Lorenzo Barbetti sul suo romanzo d’esordio, Una balena bianca non volerà mai (Giovane Holden Edizioni, 2021) perché incuriosita da una vicenda che ci vede un po’ tutti protagonisti, che si svolge in luoghi in cui vivo e sono cresciuta: una storia che potrebbe essere quella di ognuno di noi.
Lorenzo Barbetti
Una balena bianca non volerà mai: un titolo accattivante coadiuvato da una copertina che non passa inosservata. La storia però è ambientata a Perugia, capoluogo di una regione in cui non c’è nemmeno il mare. Che significato ha il titolo, dunque?
Il titolo originale – Loser, che faceva riferimento tanto alla figura del perdente quanto alla canzone omonima di Beck che ritorna varie volte all’interno del romanzo – non mi convinceva. Un mio amico, al quale ho fatto leggere il manoscritto, mi ha allora suggerito la figura della balena bianca, che appare al protagonista in un momento cruciale della storia come una sorta di visione e si porta dietro delle considerazioni che possono in un certo senso essere applicate all’intero romanzo. In ogni vicenda che il protagonista vive, infatti, si ritrovano dei concetti, legati al suo sentire, suggeriti proprio da quella bianca balena. Questo mio amico – Leonardo Zaroli – ha ideato conseguentemente anche la copertina, che poi è stata disegnata con la collaborazione di Anna Scatolini e di Thea Corpora: già dopo un primo sguardo si riesce a entrare perfettamente nel mood del libro. Il fatto che l’ideatore del titolo abbia realizzato anche la copertina dona al volume una continuità eccezionale.
Nel caso della narrativa, quasi mai un autore scrive una storia solo per il gusto di raccontarla. Spesso c’è dietro un’esigenza, un impulso viscerale, il bisogno di mettere le carte in tavola e di fare i conti con qualcosa o con qualcuno. È davvero così?
Il libro nasce da un racconto che scrissi nel 2017 per un concorso. Concorso che vinsi, ma la cosa più importante è che per la prima volta mi ero approcciato nella scrittura vera e propria. Fino a quel momento, infatti, avevo raccontato storie fini a sé stesse e senza la logica universale che solitamente permette di accomunare lettori diversi. Quel racconto mi mise nella testa l’idea che potevo scrivere qualcosa con una logica, con un senso, che potesse essere apprezzato anche da altre persone. Una balena bianca non volerà mai nasce quindi non solo dall’esigenza di raccontare delle storie, ma anche dal cambiamento che stavo avendo in quel periodo. Ho inserito eventi del mio vissuto, di quello dei miei amici, racconti che avevo ideato in precedenza e che volevo riutilizzare, così come citazioni dal cinema e dalla musica (c’è anche una playlist su Spotify ispirata al libro che vi consiglio di ascoltare, nda), in modo da creare un mix che potesse piacere anche a qualcuno all’infuori di me. Un conto è scrivere per sé stessi, un altro è farlo per qualcuno che non ti conosce e che non sa quali sono i tuoi gusti: naturalmente a me piace quello che scrivo – come penso succeda a chiunque si approcci alla scrittura – però la vera sfida è farlo con l’idea che qualcuno con un retroterra diverso possa comunque leggere con piacere quello che hai prodotto.
Insomma, scrivere qualcosa che possa accomunare lettori diversi, magari perché emblematico di una generazione. Penso in particolare alla nostra, cioè quella dei nati negli anni Novanta…
Sì, senza dubbio, anche perché i riferimenti fanno proprio capo alla cultura pop di quegli anni. Però devo dire – e lo affermo con estrema soddisfazione – che i primi riscontri che ho ricevuto sul romanzo sono venuti da persone che non sono di quella generazione, ma che, leggendo, hanno potuto rivivere certe vicende della propria vita. Si sono identificate con alcune scelte del protagonista, con i suoi pensieri, con alcuni eventi che egli si trova a gestire. E questo mi fa molto piacere perché significa che Una balena bianca non volerà mai ha una portata più ampia, che nasce dagli stilemi di una generazione ma non si ferma solo a quella.
Nel caso della narrativa, le vicende sono piuttosto plausibili. Non hai pensato che la gente potesse credere che tutto quello che leggeva fosse una biografia romanzata di Lorenzo Barbetti? Se sì, questo ti ha in qualche modo frenato nel farlo leggere a conoscenti e amici? E, ancor prima, ha interferito nel processo di scrittura?
Sicuramente partire dalla propria esperienza è quasi fisiologico – non credo che esistano autori, nemmeno maestri della letteratura fantastica mondiale, che non inseriscano la propria esperienza in quello che scrivono – ma tutto viene comunque rielaborato. Nel caso di Una balena bianca non volerà mai non mancano delle parti completamente inventate che però sono funzionali alla storia. Parafrasando una massima piuttosto famosa, non bisogna mai fidarsi di uno scrittore perché tutto quello che si dice potrà essere riutilizzato: che sia una notizia di cronaca o un racconto altrui, va tutto a stimolare l’immaginazione. Molti mi hanno chiesto se fossi io il protagonista della storia e se avessi trascritto pari pari la mia vita. Diciamo che il protagonista è quello che Henry Chinaski è per Charles Bukowski: la sua versione romanzata. Questo mi diverte, più che spaventare, perché è come un gioco per me come credo per chi mi conosce almeno un po’. D’altro canto il protagonista non fa niente di scabroso o di illegale, ma solo esperienze che chiunque ha fatto almeno una volta nella vita. Ancora non ho motivo di essere preoccupato, ho in mente di scrivere cose ben peggiori! (ride, nda).
C’è stata qualche trasformazione dall’inizio della stesura al momento in cui hai scritto la parola “fine”? Non parlo solo dei personaggi, ma anche dell’autore…
Ho scritto il libro nel corso di un anno, facendo tre stesure diverse, limando e aggiustando, perciò alcuni elementi sono cambiati per forza. Naturalmente ce ne sono stati alcuni tecnici – ispessimento di alcuni personaggi, descrizioni più ricche, nuove vicissitudini, aggiustamenti nella forma e nell’agilità di alcuni passaggi. E poi sono cambiato io, tanto che, rileggendo, ho sentito di dover modificare alcune cose, specie quelle che mi era costato più mettere su carta. Però mi sono detto che quei passaggi cruciali li avevo scritti in un momento in cui nella mia testa c’era un’idea ben precisa e che quindi dovevo tenervi fede per evitare di snaturare il libro e la storia dal quale era scaturito. Quindi la struttura è stata sempre la stessa, dalla bozza alla terza stesura, anche perché l’avevo studiata molto bene ed ero sicuro che funzionasse. Alla fine mi sono sentito quasi liberato: ero riuscito a finire il libro e, rileggendolo, alcune cose funzionavano. Stesso discorso per i personaggi: hanno compiuto un percorso, sia esso vincente o perdente non conta, l’importante è che siano cambiati, che siamo cambiati insieme.
Nel libro c’è un chiaro riferimento a Perugia e alla sua provincia, vista però in maniera completamente opposta rispetto a un filone molto noto della letteratura contemporanea dove essa è l’emblema del non-luogo, dove tutte le ambizioni si perdono, dove tutto si appiattisce e dove la noia prende il sopravvento. È stato difficile ambientarvi i personaggi e fare i conti con le peculiarità di luoghi in cui vivi la tua vita quotidiana?
Ho imparato, anche grazie alla fotografia, ad apprezzare quello che abbiamo in Umbria, non solo tracciando le rotte turistiche più canoniche, ma anche quelle più inaspettate. È sempre possibile meravigliarsi della bellezza che si ha intorno. Quindi ambientare la storia a Perugia e, soprattutto, nella sua provincia, offre degli spunti inediti: se infatti per un giovane tra i 20 e 30 anni potrebbe apparire stretta, in realtà la provincia offre la possibilità di essere cullati da una realtà accessibile e familiare, piccola e molto accogliente. Io ne sono stato sempre affascinato, in particolare dalla sua non vivacità, dal suo avere luoghi desueti e anche un po’ desolati, dai suoi bar fermi agli anni Settanta. La trovo poetica. Per Una balena bianca non volerà mai questo tipo di ambientazione era l’ideale – il sottotitolo iniziale del libro era, appunto, Ovvero la mediocre storia di giovani di provincia – perché essa è un luogo in cui le cose piatte prendono vita, dove la noia diventa quotidianità, dove o emergi per scappare o impari a nuotare.
Nel libro il protagonista racconta le vicende in prima persona con uno stile che potremmo definire, senza troppe remore, cinematografico: un modo di scrivere che, nella sua disarmante semplicità, nasconde però regole ben precise e non lascia nulla all’improvvisazione. Ce ne puoi parlare?
Sono sempre stato affascinato dal mondo dietro al cinema, ovvero dalla sceneggiatura. In questo senso ho potuto fare varie esperienze non solo grazie al mio percorso di studi, ma anche a Penumbria Studio, il collettivo di videomaking di cui faccio parte. Quello cinematografico è uno stile in cui bisogna asciugare e asciugare, raccontando anche cose molto personali e complesse con pochissime parole. Per non parlare di tutto il corollario di gesti e movimenti che caratterizzano i vari personaggi e le interazioni tra di essi. Si tratta di uno stile che è molto visivo, senza orpelli; il protagonista stesso – che vorrebbe diventare uno sceneggiatore – pensa per immagini. E il lettore, ascoltando il racconto in prima persona del protagonista, non solo sperimenta esattamente le stesse cose, ma ha anche un punto di vista molto parziale, come con l’occhio di una cinepresa. Al tempo stesso, è soggetto a una serie di espedienti narrativi che fanno capo al linguaggio cinematografico, come il montaggio serrato, il piano sequenza e così via.
Forse è un po’ presto per parlarne – visto che Una balena bianca non volerà mai è uscito da soli pochi giorni – ma c’è già qualche altro progetto all’orizzonte?
Ho diverse idee che riguardano sia la scrittura, sia la seconda stagione di _lobba_, la storia a fumetti che pubblico a puntate su Instagram. Insomma, ho diversi progetti artistici all’orizzonte, in cui ancora una volta cinema, scrittura, fotografia, disegno e musica si compenetrano. Ma non voglio svelare troppo!
La scrittrice inglese Violet Paget (1856 – 1935) per molti è conosciuta con lo pseudonimo maschile di Vernon Lee.
Violet Paget/Vernon Lee
Violet Paget/Vernon Lee parlava un italiano perfetto e aveva un motto che l’ha accompagnata per tutta la vita: labora et noli contristari (lavora e non essere triste). Si stabilì a Firenze nel 1873 e fu un’assidua viaggiatrice. La sua vita fu anche caratterizzata dalle relazioni che ebbe con altre donne e non esitò a fare coming out. A Firenze si innamorò prima di Annie Mayer e poi di Mary Robinson.
Pacifista e femminista, fu riabilitata proprio da questi movimenti alcuni decenni dopo la sua morte, avvenuta nel 1935. Fu accudita dalla sua ultima compagna Irene Cooper Willis. Uno dei suoi più raffinati estimatori, il critico letterario Mario Praz, ha avuto modo di affermare che Vernon Lee stupì, con i suoi brillanti saggi, tutto l’ambiente intellettuale italiano. Divenne così una personalità di riferimento grazie al suo stile elegante e versatile.
Dal 1889 visse costantemente alla villa Il Palmerino sulle colline sopra Firenze. Tuttavia la passione per i viaggi, coltivata fin da piccola, non l’abbandonerà mai e così la ritroviamo nel 1895 in Umbria. La lettera che scrive a sua mamma viene spedita proprio da Foligno.
E di Foligno e dell’Umbria così scrive: «I boschi di leccio dell’Umbria, così scuri, compatti e misteriosi sono una costante e continua attrazione per me. Ti arrampichi sulle colline caratterizzate da quella pietra calcarea rosa che ha il potere di illuminare qua e là nel puro colore della carne le città di Assisi, Spello, Foligno e Trevi. Le macchie di quercia delle colline danno l’opportunità al boscaiolo di fare fascine che non di rado rotolano giù nei letti dei torrenti. Si continua avanti e ancora verso la montagna, iniziano i lecceti e all’improvviso ci si imbatte in un monastero parzialmente rovinato con le sue mura fortificate con torri e colonne».
Lettera da Foligno
Le Possessioni
Violet Paget/Vernon Lee aveva una personalità originale e controcorrente,, al punto di viaggiare in una direzione sia personale sia culturale in netto anticipo rispetto ai suoi tempi. L’amore per il nostro Paese fu sempre forte e costante, le città e i borghi esercitavano su di lei un fascino irresistibile. Tutto ciò si rifletteva nella sua scrittura e nella produzione di romanzi e storie, anche di genere fantastico, delle quali fu una sorta di pioniera. Fu autrice di saggi di estetica e di pubblicazioni sul Rinascimento, ma anche di romanzi e racconti fantastici come quelli presenti nella raccolta Possessioni. Possessionicostituisce forse il suo capolavoro letterario. È composto da tre novelle incantevoli, da tre racconti fantastici di ambientazione italiana: un Urbino fiabesca, una Venezia dissolta nella caligine lagunare e un fatiscente palazzo di Foligno. Da un polveroso guardaroba del palazzotto di Foligno emergono i fantasmi dell’inconscio. Incantevoli scorci del pensiero, colto e a volte allusivo, fanno da sfondo alla storia da lei denominata The doll (la bambola).
Lettera inviata da Foligno
In questo racconto Violet Paget/Vernon Lee così si esprime: «Foligno non è quello che la gente chiama un posto interessante, ma a me è piaciuta. C’è un piccolo fiume pieno e impetuoso con argini ricoperti di edera. Ci sono affreschi del quindicesimo secolo e dei bei palazzi antichi con porte scolpite in pietra rosa. Foligno è una città di mercato e un incrocio, una specie di metropoli della valle. Mi è piaciuta principalmente perché ho conosciuto un delizioso commerciante di curiosità. Il suo nome è Oreste ha una lunga barba bianca, occhi gentili di colore marrone e delle belle mani. Porta sempre con sé un braciere di terracotta sotto il mantello. Conosce tutte le vecchie cronache e sa esattamente dove è successo tutto negli ultimi seicento anni. Parla dei Trinci e dei Baglioni come se li avesse conosciuti. Sono stata molto felice a Foligno vagando per tutto il giorno. Oreste venne una mattina a dirmi che un nobile voleva vendermi un set di piatti cinesi e anche se alcuni erano incrinati, a suo dire, avrei, comunque, avuto modo di vedere uno dei palazzi più raffinati della città. Il palazzo era della fine del diciassettesimo secolo, all’interno grandi spazi, addirittura una fabbrica di sapone ed un calzolaio, un ampio cortile ed una sala da ballo grande come una chiesa ma anche pavimenti sporchi, mobili appannati e sbrindellati ed orribili cremagliere. Vicino alla stanza dei domestici c’era una bambola enorme con un volto classico stile canova». È attorno a questa bambola, oggetto di desiderio e di acquisto della scrittrice, che si sviluppa la storia.
Ma per carpire gli aspetti magici e allusivi è opportuno tuffarsi pienamente nella lettura di questo libro, facilmente reperibile in libreria oppure online.
Alla sua morte, avvenuta nel 1935, la compagna Irene Cooper Willis, che era anche esecutrice testamentaria della scrittrice, donò al British Institute di Firenze una collezione di oltre 400 volumi. È lo stesso British Institute che riporta una curiosità di Violet Paget/Vernon Lee: oltre a numerosi appunti, i libri della scrittrice riportano le date di lettura ed è da queste date che si capisce come fosse abituata a rileggere i diversi testi più volte.
«Scrivo da quando ero piccola e in alcuni momenti mi ha salvato la vita. La scrittura è stata una vera medicina».
Sara Allegrini, classe 1978, si definisce una tipica umbra, chiusa inizialmente ma poi accogliente. Durante l’intervista l’ho trovata simpatica e amichevole fin da subito. Sarà che tra umbre ci si capisce al volo. Sara è un’insegnante e una scrittrice: nel 2014 ha pubblicato La ragazza in bottiglia (PCE) e nel 2018 con il suo secondo libro Mina suldavanzale (Itaca) è stata finalista al Bancarellino e ha vinto il Premio Selezione. Poco più di un mese fa invece si è portata a casa il Premio Orbil – assegnato da librai indipendenti – nella categoria Young Adult con il romanzo La rete, storia di tre ragazzi che si ritrovano in un bosco senza cibo, senza acqua e senza cellulare per chiedere aiuto.
Sara Allegrini
Sara, qual è il suo legame con l’Umbria?
Sono un’umbra D.O.C. e ho tutte le caratteristiche tipiche: chiusa all’inizio ma poi accogliente. Amo Perugia, per me è un gioiello. Questa regione è un posto meraviglioso per vivere e soprattutto è a misura mia.
È un’insegnante che fa la scrittrice o viceversa?
Sono i due lavori che ho sempre voluto fare ma se dovessi scegliere, sceglierei di fare l’insegnante. Mi piace il contatto diretto con i ragazzi, anche se poi con i miei libri riesco a raggiungerne di più.
Quando ha deciso di diventare scrittrice?
Scrivo da quando ero piccola, già dalla scuola media, tutti però mi scoraggiavano – professori, genitori – allora io mi sono intestardita e ho continuato. Il primo libro, La ragazza in bottiglia, è stato pubblicato da una casa editrice senza sapere chi fossi: è una roba abbastanza strana. Poi piano piano sono cresciuta fino ad arrivare alla Mondadori. Con il secondo libro Mina sul davanzale sono stata finalista del Bancarellino, una cosa che proprio non mi aspettavo.
Il mese scorso ha vinto il Premio Orbil, nella categoria Young Adult, col suo romanzo La rete (Mondadori): quanto è stato importante?
È stato un super riconoscimento e non mi aspettavo assolutamente di vincere: ero una pivellina tra mostri sacri. La notizia mi è arrivata in piena quarantena e in un periodo personale non facile, per questo non ho granché esultato come avrei dovuto, però è stato un bellissimo riconoscimento. Ne sono orgogliosa.
Da dove arriva l’ispirazione per raccontare una storia?
Le prime storie sono nate dall’urgenza: ho avuto dei lutti dolorosissimi e se non avessi scritto sarei morta, scrivere è stata una medicina. Gli altri due libri sono stati ispirati da alcuni alunni a cui insegnavo in una scuola abbastanza difficile. I ragazzi si sono riconosciuti nei personaggi e anche i genitori hanno ritrovato i loro figli: questo spero li abbia fatti sentire meno soli.
Perché racconta storie di giovani per i giovani?
Perché i ragazzi sono un pubblico decisamente critico e questo mi piace, in più non ho ancora superato i traumi della mia adolescenza (ride). Ricordo perfettamente come ci si sente a quell’età e quali sono le emozioni che si provano.
Visto che la racconta e la vive grazie al suo ruolo di insegnante: che pensa della generazione Z?
È una generazione un po’ sfortunata, perché non può vedere il mondo senza telefoni, rispetto ai nati nelle generazioni precedenti e non hanno gli strumenti che servono per selezionare il fiume di notizie che gli arrivano. Però quando sono stimolati e devono usare la fantasia per raccontare e scrivere vengono fuori dei giovani che non sono poi così distanti dalle altre generazioni.
Dei suoi tre libri, a quale è più legata? O, come i figli, è difficile scegliere?
Mi piace questa domanda (ride). Devo dire che non posso scegliere, perché ogni libro è legato a un momento della mia vita.
L’Italia sappiamo che è un paese che legge poco: secondo lei perché?
Le famiglie con bambini piccoli leggono tanto, poi quando crescono c’è un calo. Va detto che è difficile trovare bei libri. Gli stessi insegnanti leggono poco e per questo non trasmettano la passione ai loro alunni. Basta consigliare le giuste letture e indirizzare i ragazzi verso bei libri, che poi si appassionano: gli servono solo dei consigli. Ci vuole la febbre del libro, è impareggiabile vivere con la fantasia, affezionarsi ai personaggi…
Se dovesse raccontare l’Umbria, come descriverebbe la sua essenza?
Una delle storie che sto scrivendo è ambientata in Umbria, nel paesino di cui è originario mio padre: Lisciano Niccone. Di quel luogo mi ricordo le sensazioni, l’odore della terra bagnata, la caccia alle lumache, le more colte e mangiate. È la mia infanzia, fatta di odori e rumori, che sto cercando di trasportare nelle pagine.
Ha in cantiere un nuovo romanzo?
Sto lavorando a tante cose contemporaneamente: alcune sono finite e devo solo trovare chi può pubblicarle, altre si sono fermate a causa della didattica a distanza e del fare la mamma a tempo pieno. Fatico a trovare dei momenti di tranquillità, ma va bene così.
Come descriverebbe l’Umbria in tre parole?
Verde, antica, profumata.
La prima cosa che le viene in mente pensando a questa regione…
TITOLO: I negozi e la città in archivio. Foligno tra Ottocento e Novecento
AUTORE: Giovanna Galli
PAGINE: 85
EDITORE: Folignolibri
ANNO: 2019
COSTO: 15 EURO
L’autrice del volume si è laureata in Restauro Architettonico all’Università La Sapienza di Roma. Attualmente svolge la libera professione ed è iscritta nell’Elenco degli esperti in Beni Ambientali e Architettonici della Regione Umbria.
La passione per la storia architettonica e urbanistica della sua città l’ha portata ad alcune pubblicazioni sull’argomento come Piccola GuidaFoligno dentro le mura, del 2014; Foligno città romana vol. I – Ricerche storico urbanistiche topografiche dellaantica città di Fulginia a cura di Giuliana Galli, di cui è co-autrice (Il Formichiere, 2015); Foligno cittàromana vol. II – Dal Castrum alla Via della Quintana, dal tempio alla Cattedrale (Il Formichiere, 2016) di cui è co-curatrice e co-autrice con Giuliana Galli e Paolo Camerieri, fino a giungere all’ultima pubblicazione, nella quale, dopo una meticolosa ricerca d’archivio, è riuscita a ricostruire il passaggio e la trasformazione della città di Foligno attraverso le attività commerciali che si sono succedute. Come spiega nella prefazione, la molla che la spinge «è la conoscenza della città e della sua storia, che deve essere usata per la sua conservazione attraverso una corretta progettazione che la tramandi al futuro».
Le trasformazioni principali nel tessuto urbano in Italia e, nello specifico, a Foligno, avvengono principalmente negli ultimi due secoli: a seguito dello sviluppo industriale, si cerca di dare un nuovo ordine ai quartieri risanando le pessime condizioni igienico sanitarie con nuove infrastrutture quali fogne e acquedotti. Inoltre, nascono nuovi sistemi di collegamento come quello ferroviario e stradale per le automobili: da qui la necessità di dotarsi di nuovi sistemi di pianificazione del territorio.
Il pregio di questa ricerca è evidenziare questa trasformazione attraverso un punto di vista insolito e generalmente trascurato dai trattati di urbanistica: le attività commerciali. Queste – come spiegato dall’autrice nell’introduzione – «Oltre alle funzioni puramente economiche, svolgono importanti funzioni sociali, costituendo un momento di contatto fra i cittadini e le comunità locali diffondendo le informazioni più recenti in materia di stili di vita, modelli culturali e attività collettive».
Il libro, partendo Dalla situazione generale della città nei primi decenni del secolo, attraverso Le modificazioni del tessuto urbano, Gliinterventi privati, I negozi che contribuiscono a cambiare l’immagine della città per finire all’ultimo capitolo Da depositi a botteghe amoderni negozi è corredato da un importante apparato fotografico che comprende le immagini dei negozi e delle attività con commercianti o artigiani al lavoro, i progetti con le modifiche da apportare presentati agli organi competenti, i rilievi, i regolamenti. Il tutto fornisce un preciso spaccato delle trasformazioni avvenute.
«Forse perché in realtà il negozio è un luogo privato in cui ogni esercente esprime la propria personalità, dove mette in mostra i prodotti secondo una propria filosofia» conclude nell’introduzione l’architetto Galli «Ma questo luogo privato diventa pubblico nel momento in cui si affaccia nella città, nel momento in cui si apre su facciate antiche rimaste per secoli chiuse ermetiche. I negozi, i loro spazi, i loro affacci, diventano quindi un pretesto anche per parlare di città, per parlare di quelle modificazioni che la città ha subito».
Dal 5 all’8 settembre, la VIII edizione del Festival delle Corrispondenze ha rappresentato un evento culturale dove il binomio lettere e scienza, insieme alla XXI edizione del Premio letterario nazionale Vittoria Aganoor Pompilj, ha espresso un prestigioso appeal con l’intervento di importanti ospiti e confermato il grande successo di pubblico. La contemporanea Sagra della Zzurla ha contribuito a esaltare, in un connubio tra cucina, cultura e musica, il delizioso Borgo di Monte del Lago, con suggestive atmosfere d’altri tempi, tra scorci paesani e panorami lacustri indimenticabili.
Michela Biancalana, Vanni Ruggeri, Marco e Riccardo Carlani, Francesco Ferroni, Stefania Quaglia, Maria Vittoria Taravelli, Alessandra Versiglioni, Andrea Rellini e Maurilio Breccolenti.
«Laggiù non più livido e fosco / color di melmose maremme / ma fra le radure del bosco / il lago sfavilla di gemme». Proprio così, in questi giorni nel borgo lacustre hanno sfavillato gemme di cultura che qui vengono esaltate proprio da lei, la poetessa VittoriaAganoor, che abitò a Monte del Lago insieme a suo marito, l’onorevole Guido Pompilj, dal 1901 al 1910. Li unì un grande amore, caratterizzato e concluso da un tragico e impietoso destino, con una pressoché simultanea e inclemente dipartita. La Raccolta Poesie Complete e Dopo la pioggia, sono gli indirizzi dello stralcio di versi che poco sopra si sono potuti leggere e che la romantica poetessa dell’epoca, la bella e dolce Vittoria, scrisse osservando dalla sua finestra o dalla celebre terrazza la bellezza ispiratrice del prospiciente lago Trasimeno.
Il letterato Giovanni Antonio detto il Campano, l’Abate geografo Bartolomeo Borghi, il musicologo Schabl-Rossi e il suo celeberrimo amico Giacomo Puccini sono gli altri illustri personaggi che il minuscolo borgo, complice il seducente lago, ha ospitato e a cui ha dispensato ispirazione.
Gemme, solo gemme a Monte del Lago!
L’ultima gemma in ordine cronologico, incastonata nell’incantevole borgo lacustre, è identificata nel Festival delle Corrispondenze 2019, che nasce nell’ambito del Premio Nazionale Vittoria Aganoor Pompilj, riservato a lettere e carteggi.
Una bellissima manifestazione all’insegna della cultura, dove quest’anno personaggi significativi del mondo scientifico come Leonardo o Galileo o Levi-Montalcini si sono raccontati, attraverso i propri carteggi. Un binomio lettere e scienza che giornalisti, scrittori, letterati, dotti, comunicatori, matematici e storici hanno enunciato in seminari, tavole rotonde, rappresentazioni teatrali e presentazioni di studi, libri o ricerche nel contesto della Villa Aganoor Pompilj e in alcuni angoli cittadini dell’affascinante e ospitale borgo di Monte del Lago.
Nella conferenza di apertura i saluti istituzionali sono stati portati da Giacomo Chiodini, Sindaco di Magione, Vanni Ruggeri, Assessore alla Cultura dell’amministrazione magionese, Francesca Caproni, Direttrice del GAL Trasimeno-Orvietano, Donatella Porzi, Presidente Assemblea Legislativa Regione Umbria, Daniella Gambini, Pro Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, Mario Tosti, Presidente dell’Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea, Pierluigi Mingarelli, Festa di scienza e filosofia di Foligno, Federico Fioravanti, Festival del Medioevo di Gubbio e Fabio Petrini, Presidente dell’associazione filatelico-numismatica G.B. Vermiglioli. Presenti gli importanti sponsor della manifestazione e i molti interessati all’alta qualità degli interventi.
Vanni Ruggeri, assessore del Comune di Magione e grande protagonista nella realizzazione dell’offerta della suggestiva manifestazione, con grande orgoglio ci ha espresso: «Monte del Lago, nella sua bellezza, ha offerto in questa edizione del Festival il rapporto tra scienza e lettere, dove personaggi che hanno fatto la storia dell’uomo e temi attuali quali la divulgazione scientifica attraverso la comunicazione con i social network, sono stati i primi attori. Il programma è stato arricchito da molte collaborazioni, fra tutte il Festival del Medioevo di Gubbio, l’ISUC (Istituto per la Storia dell’Umbria Contemporanea) e la Festa di Scienza e Filosofia di Foligno. Senza la competenza dell’ufficio cultura del Comune di Magione, l’aiuto della coordinatrice Vjola Luarasi e il contributo del Gal Trasimeno-Orvietano, non sarebbe stato possibile ottenere certi risultati di grande qualità e spessore culturale».
Luigina Miccio, la coordinatrice del Premio letterario nazionale Vittoria Aganoor Pompilj che ha contato la sua ventunesima edizione, ha aggiunto: «Il premio letterario ha visto una sua crescita costante nel tempo in sinergia sociale con la collettività del Trasimeno e di Monte del Lago in particolare e, in stretta simbiosi, ogni anno la comunità locale celebra e si stringe attorno a questa fantastica manifestazione. Per il Premio letterario, nella prima sezione riguardante il carteggio, ha vinto Paolina Leopardi, lettere (1822-1869) a cura di Elisabetta Benucci. Mentre per la seconda sezione, riservata a componimenti in forma di lettera, i primi tre classificati sono stati: Cristina Fumagalli di Corte Franca (BS), Antonella Giueio di Roma e Clara Kaisermann di Mezzolombardo (TN)».
La direttrice del GAL Trasimeno-Orvietano, Francesca Caproni, ci ha confidato con grande soddisfazione e fierezza: «Come Ente seguiamo i nostri scopi e tra l’altro, favoriamo lo sviluppo di manifestazioni di questo tipo. Il Festival delle Corrispondenze – e ne siamo ben contenti – ha raggiunto ormai la notorietà nazionale e attrae ogni anno un gran numero di visitatori, calamitati dalla varietà e originalità delle sue molteplici proposte. In questa edizione si è giunti a un livello qualitativo eccellente con grandi protagonisti della cultura come interpreti e la sinergia con molte altre manifestazioni, ha suggellato la reciproca complementarietà e forza delle collaborazioni; da questo principio nasce l’evento i Fili, le Trame, le Reti che avverrà sull’Isola Maggiore il prossimo 28 settembre, che ha preso spunto da un carteggio tra Vittoria Aganoor e Isabella Guglielmi. Inoltre non bisogna dimenticare che tra il 13 e il 15 settembre avrà luogo a Panicale Fili in Trama, la Mostra Mercato Internazionale del Merletto e del Ricamo, che prevede un programma molto ricco e interessante».
La presentazione del libro Rapsodie per Vittoria Aganoor Pompilj di Alba Scaramucci ha aperto il programma del Festival delle Corrispondenze 2019 che è continuato con la Bufala corre in rete, dove sono intervenuti il blogger Vincenzo Maisto, Claudio Michelizza e Sandro Iannaccone.
Un'edizione ricca e variegata
Il cartellone è stato molto fecondo ed è continuato con l’inaugurazione della mostra La scienza in un francobollo: Leonardo 2019, a seguire una conferenza sulla Comunicazione in sessanta anni di esplorazione spaziale con Luca Marrocchi, poi un Laboratorio artistico per bambini a cura delle pittrici Claudia Massone e Alessandra Mapelli e una tavola rotonda sulla Comunicazione contemporanea nel caso dei vaccini con Mario Morcellini (AGCOM), i giornalisti Simone Valesini e Laura Margottini e Francesca Comunello dell’Università di Roma. Poi la presentazione del libro Caro Ministro le scrivo… Le carte riservate di prefetture e questure di Perugia e Terni sull’attività politica in Umbria negli anni ’70, con l’editore Francesco Tozzuolo e i curatori Andrea Maori e Amedeo Zupi. A seguire il linguista Massimo Arcangeli su Leonardo, inventore di rebus e anagrammi.
Il palinsesto è continuato con gli appunti e le lettere ritrovati nell’ex manicomio di Perugia con l’infermiere Massimo Longarini, lo psichiatra Silvio D’Alessandro, Carlo Riccardi e l’avvocato Daniele Spinelli. Poi leLettere della Contestazione 1968-1979, con Mario Tosti Presidente ISUC, Giacomo Chiodini, il Sindaco di Magione e Alberto Sordini, con singoli interventi sul tema della contestazione, della sovversione, della politica di quegli anni, con il contributo dei dotti universitari Silvia Casillo, Giulia Falistocco, Claudio Brancaleoni e Alberto Pantaloni, bravissimi nel farci calare e rivivere quel delicato periodo storico. Di seguito La storia dell’arte chirurgica di Preci negli epistolari dei suoi maggiori esponenti, è il titolo dell’intervento di Massimo Messi, sindaco di Preci e della docente di lettere Antonella Messi nonché degli universitari Gianfranco Cruciani, Adolfo Puxeddu e Francesco Bistoni. Prima l’incontro con lo scrittore Roberto Vacca e il linguista Massimo Arcangeli su Primo Levi e Roberto Vacca: un’amicizia epistolare e poi la proiezione del docu-film Lettera 22 con il regista Emanuele Piccardo e il giornalista Giorgio Vicario e a seguire il monologo di Gabriella Greison dal titolo Due donne ai raggi x – Marie Curie e Hedy Lamarr ve le racconto io. Poi c’è stata l’Anteprima Festival del Medioevo con gli interventi di Federico Canaccini, Alessandro Vanoli e Federico Fioravanti. Storie di postini stra-ordinari è la rappresentazione a cura di Michele Volpi in collaborazione con Rinoceronte Teatro. Anni di piombo, penne di latta è il titolo del libro presentato dall’autore Roberto Contu e da Raffaele Marciano.
La giornata finale si è chiusa con il botto, con l’intervento del matematico Piergiorgio Odifreddi, l’ospite più atteso di questa edizione, che ha preparato un monologo appositamente per l’occasione, dal titolo La comunicazione matematica, da Archimede a internet e con la cerimonia di premiazione del Premio Vittoria Aganoor Pompilj, presieduta dalla sua coordinatrice Luigina Miccio con letture di Caterina Fiocchetti e Francesco Bolo Rossini. Non di meno il monologo e video proiezione Le parole di Rita. Dall’autobiografia e dalle lettere di Rita Levi Montalcini, a cura di Valeria Patera e inoltre gli Aspetti della rivoluzione scientifica nell’epistolare galileiano con gli universitari Umberto Bottazzini e Lino Conti. Tutto il programma è stato pensato all’insegna della lettera e del carteggio in un borghigiano contesto naturalistico e storico, in cui la calma e la tranquillità hanno permesso alle persone intervenute di assaporare fino in fondo l’intero Festival con l’emotività regalata dall’inscindibile e complessiva manifestazione.
Non solo letteratura
Anche le musiche e le espressioni teatrali sono state di gran qualità, con i sempre fantastici Four Seasons dove la bellissima ed espressiva voce di Daniela Tenerini, accompagnata da Paolo Bertoni, David Versiglioni, Silvano Pero e Roberto Cesaretti, ha donato soavi toni musicali poetici. I Doremilla hanno regalato un seguitissimo Tecno R-evolution con gli innovativi Federica Ciucarelli, Tazio Aprile, Tommaso Giugliarelli, Linus D’Antonio e Leonardo Bruschi. I bravissimi interpreti Giovanni Guidi e Matteo Vinti in Inner Voices (and syncretic planet sounds), istallazione audiovisiva per pianoforte e live coding e i Billi Brass Quintet con l’apprezzatissimo spettacolo musicale A trip to the moon. Il Laboratorio Teatrale del Martedì di Magione, con i suoi valenti e versatili attori, è stato il protagonista di una passeggiata lungo le vie e le piazze di Monte del Lago alla scoperta di vite e storie attraverso le lettere, in un’approvatissima rappresentazione scenica in abiti del primo novecento dal titolo Cara, ti scrivo da un posto incantevole e con la presenza, nelle acque antistanti il borgo, della bellissima imbarcazione lignea di rappresentanza, il Barchetto del Trasimeno. Guida culturale di prestigio, il preparatissimo e acclamato Assessore Vanni Ruggeri, che ha deliziato, con svariate pillole esplicative, i partecipanti. Il fotografo Stefano Fasi, ha immortalato visi con l’ottecentesca tecnica fotografica al collodio umido.
Questa edizione ha rappresentato anche l’inaugurazione della cartellonistica stradale riferita al borgo con l’inserimento della specificità Monte del Lago. Paese delle corrispondenze, dove la manifestazione, con il suo percorso di crescita, ha portato a questo importante riconoscimento.
Dopo il susseguirsi di incontri ed eventi, i palati sono stati deliziati ogni sera da gustose ricette di lago, preparate sapientemente dalle abili donne cuciniere del posto, dietro l’organizzazione dell’efficiente e instancabile Pro Loco guidata dal suo attento e preciso presidente Francesco Marchesi. Complimenti a tutti i bravi componenti della squadra! Siamo alla Zzurla, la sagra di Monte del Lago che si tiene nel giardino di villa Aganoor Pompilj e che rappresenta un’altra gemma del luogo. La Zzurla viene organizzata in concomitanza del Festival delle Corrispondenze e anche qui il binomio tra cultura letteraria e culinaria è vincente. Le saporite pietanze sono state apprezzate soprattutto dai materialisti dialettici che, dopo il diffuso e piacevole clima intellettuale che ha regnato al Festival, hanno goduto di un abbondante e tipico piatto di zurlini e di un bicchiere di buon vino che, senza alcun dubbio, ai più ha favorito la riflessione e un sano e gradevole confronto sugli interventi letterari e scientifici, che peraltro sono stati tutti di grande spessore.
Gemme, solo gemme a Monte del Lago!
Titolo: Zeffirino Faina. L’attività politico-amministrativa nel Consiglio Provinciale dell’Umbria (1861-1892)
Autore: Rita Rossetti
Editore: Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia
Anno di pubblicazione: 2017
Caratteristiche: 227 pagine, foto cm 21 x 15, brossura illustrata con bandelle, illustrazioni a colori
La tesi di laurea di Rita Rossetti, giunta alla seconda laurea accademica, si è trasformata in un interessante ed elegante volume di storia patria dal titolo Zeffirino Faina. L’attività politico amministrativa nel Consiglio Provinciale dell’Umbria (1861-1892), pubblicato dalla Fondazione Cassa di Risparmio per i tipi della Fabrizio Fabbri Editore.
Nel testo redatto da Rossetti emerge la passione e la capacità di saper ricercare nei polverosi archivi le testimonianze lasciate nella storia da personaggi del calibro di Zeffirino Faina che, da possidente locale, è assunto al ruolo di politico, prima agli albori della provincia di Perugia fino ai seggi parlamentari del Regno.
L’interessante volume, con una presentazione a cura di Giampiero Bianconi e una prefazione di Valerio De Cesaris, si divide in due parti. La prima ripercorre la vita privata e imprenditoriale di Zeffirino Faina, la seconda ne analizza l’attività politica. Vi è inoltre un ricco apparato fotografico
Zeffirino nasce nel 1826, figlio di Angelo e di Angelica Paolozzi – che appartiene a una nobile famiglia di Chiusi – ed è l’ultimo di tre fratelli. Dopo aver conseguito la laurea in Filosofia e Matematica nel 1846, continua la tradizione di famiglia investendo, innovando e sviluppando le diverse attività imprenditoriali. Numerosi gli interessi economici: i Faina sono costruttori, allevatori, commercianti di bestiame e grano, con un ingente patrimonio immobiliare e terriero. In questo contesto Zeffirino rappresenta la classe dirigente illuminata, tramite le cantine di Collelungo, dove si serve di macchinari di avanguardia, e tramite i premi internazionali che ottiene con la prima filanda di Perugia.
Alla vita imprenditoriale si intreccia quella politica, che lo vede impegnato fin dalla Prima Guerra d’Indipendenza. Questa attività proseguirà fino alla morte, nel 1892, nonostante i dissensi interni alla famiglia – il padre lo rimproverava infatti per essersi esposto in lotte politiche che potevano produrre danni alla famiglia.
La prima seduta del Consiglio della Provincia di Perugia lo vede presente come consigliere, diverrà poi presidente fino al 1892, nel 1873 viene eletto deputato e nel 1886 senatore, incarico che manterrà fino alla fine dei suoi giorni.
E con un’analisi puntuale Rossetti ne ripercorre proprio l’attività politica, ricca di numerose innovazioni e di un interesse per criticità sociali quali la piaga della natalità infantile. Faina trasformò i brefotrofi in strutture adatte all’accoglienza, si occupò del sostegno all’istruzione delle donne e, da abile imprenditore, dell’interesse per le strade e la mobilità, come del prosciugamento del Trasimeno.
Il lago Trasimeno, emblema delle cose semplici e autentiche, accoglie la Villa Alta, la dimora che Vittoria e Guido Pompilij scelgono per la loro vita insieme. I due vivono anni di amore intenso e assoluto, profondo come soltanto il blu sa essere.
Era la fine del 1900 quando un incontro a Venezia cambierà, sconvolgendole, le vite solitarie della poetessa VittoriaAganoor e del parlamentare umbro Guido Pompilj.
Un carattere sprezzante e indomabile
Vittoria rimane colpita immediatamente da quest’uomo che nella sua lirica Trasimeno chiamerà «il forte soldato del bene», in lui infatti «riconosce una forte dimensione etica associata ad uno slancio umanitario e solidaristico a lei finora sconosciuti».[1] Guido – che in quel periodo ricopre il ruolo di sottosegretario del Ministero delle Finanze del primo governo Saracco – è, così come lo descriverà un suo carissimo amico, Giuseppe Marinelli, «di carattere poco espansivo, duro, imperterrito, non aveva sentimenti conciliativi, seguiva la sua meta, senza curare gli ostacoli, e disprezzava chi gli avesse precluso il cammino. Non si piegava a nessuno e aveva perciò molti avversari che, quantunque avessero ammirato il suo forte ingegno non sapevano spiegare il suo carattere sprezzante e indomabile».[2] Eppure in privato è capace di mostrare un’“affettuosità dolce, quasi infantile»; inoltre possiede un conversare «gaio, lepido, mai mordente o sarcastico, sempre entusiasta e ponderato insieme».[3]
Occhi neri e profondi
Vittoria, allora quarantacinquenne, inizia a scrivere a Guido e «travasa nelle lettere […] tutta se stessa – sentimenti, aneliti, occupazioni e preoccupazioni – arrivando a scalfire la laconica riservatezza del Pompilj».[4] Guido infatti, tutto preso dalle sue occupazioni politiche e ormai a quarantasei anni, non pensa più di condividere la sua vita con una donna. Ma presto questa donna a cui «niuno che l’avesse anche per poco avvicinata poteva sottrarsi al fascino irresistibile che emanava da quella piccola persona tutta grazia e leggiadria; da quei suoi grandi occhi neri e profondi, lampeggianti passione, velati di malinconia; dalla sua schietta e signorile affabilità»[5] riesce a conquistare il cuore di Guido ed egli prende ad amarla sempre più fino diventare con lei un’unica identità.
Un nido d'amore a Monte del Lago
Le lettere si fanno sempre più affettuose e tenere fino ad arrivare a quella del 16 maggio del 1901 nella quale ella si dichiara pronta a sposarlo, sicura di aver trovato «il compagno ideale, che, prendendole tutta l’anima, le avrebbe dato in cambio la propria, senza restrizioni e senza limiti».[6] Vittoria così scrive sfidando ogni tipo di convenzioni:
«[Io ho] sempre pensato che pren[dere] marito, senza amore, sia un’infamia; sarà falso, ma ho sempre pensato questo. Ebbi delle simpatie per qualcuno che mi piaceva unicamente pel fisico, ma sentii bene che mi piaceva il viso e niente altro, e che tra la loro anima e la mia vi era un abisso. Questo, pensai, non è vero amore, completo. Perché vorrei ora prender marito?Perché sarebbe l’unica maniera di vivere con Lei, per Lei, vicina a Lei; ché se fosse possibile far questo senza sposarla, io non Le chiederei… cioè non Le avrei chiesto di sposar[mi] mai […] sappia […] che non sarei solo stata disposta a lasciar Venezia per Perugia, ma anche per la Siberia davvero [pur] di vivere con Lei e [adattan]domi ad ogni sua abitudine».[7]
Si sposano a Napoli nel novembre di quell’anno e il loro diventa un amore pieno e totalizzante, «uniti da reciproca stima, da comuni interessi artistici e culturali e da un identico apprezzamento per le cose semplici ed agresti che offriva loro quell’amato Trasimeno»[8] sulle cui sponde scelgono a vivere appena sposati, in quella Villa Alta di Monte del Lago paese natale di Guido. Vittoria e Guido vivono anni di amore intenso e assoluto, profondo come soltanto il blu sa esserlo: incomprensibile e inesplorabile come le profondità delle acque e sconfinato come il blu dei cieli. Così quando Vittoria nel maggio del 1910 si spegne, in seguito a un’operazione di tumore ovarico, Guido disperato si uccide lasciando scritto «non potrei, né vorrei sopravviverle»[9].
[1] A. Chemello, Vittoria Aganoor e il suo mondo, in M. Squadroni (a cura di), Vittoria Aganoor e Guido Pompilj. Un romantico e tragico amore di primo Novecento su Lago Trasimeno, [Perugia], Soprintendenza archivistica per l’Umbria, 2010, p. 135.⇑ [2] Citazione tratta da M. Chierico, cit., p. 14.⇑ [3] G. Muzzioli, Guido Pompilj e Vittoria Aganoor Pompilj. Commemorazione popolare, Perugia, Guerra, 1910, p. 5.⇑ [4] P. Pimpinelli, Vittoria Aganoor. La poetessa, in M. Squadroni (a cura di), cit., p. 111.⇑ [5] G. Mazzoni, in «La Favilla» fasc. ill. in onore di Vittoria Aganoor (lug.-ago. 1910) cit. in L. Grilli, Introduzione, in V. Aganoor Pompilj, Poesie complete, Firenze, Le Monnier, 1912, p. IV.⇑ [6] «La Donna», 20 mag. 1910, cit. da F. Girolmoni, Il fondo bibliografico Aganoor Pompilj della Biblioteca comunale di Magione, in M. Squadroni (a cura di), cit., p. 184.⇑ [7] Lettera di Vittoria a Guido Pompilj datata 16/5/1901 cit. da L. Ciani, Aganoor, la brezza e il vento, Nuova S1, Bologna 2004, p. 92.⇑ [8] G. Chiodini, Vittoria e Guido. Un suicidio concordato, in «Il Messaggero Umbria», 23 apr. 2010.⇑ [9] ASPg, Fondo Aganoor Pompilj. Ada Palmucci, Testamento di Guido Pompilj, 4-5/5/1910.⇑